13 Agosto 2018

Come si fa a leggere oggi “Il nano” di Pär Lagerkvist? Come si fa a essere sempre e soltanto se stessi? Diario di un lettore frugale e sagace

Altro che in carriera, resto il tipo da corriera, un lettore assuefatto dal trasporto pubblico e dai suoi tempi così lunghi da metterci nulla a diventare proustiani, ma le verità sono sempre delle banalità perciò sono oscene e la mia è che mi piace leggere e che mi è piaciuto leggere Il nano di Pär Lagerkvist, pubblicato da Iperborea, nella traduzione di Clemente Giannini per la gioia di chi come me non se lo sa neanche immaginare che lingua sia lo svedese.

Cosa conduce a un libro, proprio a quel libro e in quel momento? Le mie ricostruzioni sono semplici. Ero a Firenze e nello zaino nero non so perché avevo messo un saggio sulla fenomenologia di Jean-Luc Marion. Mi era talmente piaciuta la sua descrizione dell’Ingrato (“Egli non rifiuta soltanto il carico di sdebitarsi del suo debito (cosa che rimane nello scambio), ma di averne contrattato uno – di vedersi proposto un dono”) che m’era passata la voglia di fingere di starci capendo qualcos’altro. Fortuna ero ospite in una casa piena di libri e allora ho letto un po’ di Bauman, una lezione sulla felicità (ricorda: se di una cosa non esiste una definizione che regga non è ancora detto che quella cosa non esista del tutto) e un racconto di Carver, sulle anatre che volano via improvvisamente in cielo come accadrebbe alle anime di chi muore altrettanto all’improvviso sul lavoro; se esistessero, le anime. Va da sé che le anime non esistono, altrimenti diventerebbe troppo complicato interpretare l’indifferenza che produce il loro disperdersi fortuito, metti il caso dei braccianti che muoiono in Puglia e la cui morte suscita ira e cordoglio per lo più soltanto negli altri braccianti, nelle altre anime perse. Avrebbero attirato più empatia se fossero stati anatre.

nanoDovevo ritornare da Firenze a casa, qualche ora di alta velocità più giù, e non avevo nulla da leggere a parte il tabellone elettronico che segnava i ritardi dei treni dai venti minuti in su. Entrai in una libreria e ormai le librerie hanno quasi sempre la capacità di ubriacarmi all’istante, sono case di marzapane al rum, come fai a scegliere di slancio qualcosa di cui non ti pentirai non appena avrai cominciato a leggerlo, denunciandoti per la tua pessima scelta, per esserti lasciato obnubilare dai colori psichedelici delle copertine bellissime, dei titoli dopatissimi? Scorro gli scaffali, ecco il titolo: Il nano. Dove l’avevo sentito? Ne aveva detto un gran bene un contatto social con cui non entro in contatto mai e che dice un gran bene anche di molti altri libri che a me non sono piaciuti affatto. Ecco tante volte perché si fa una scelta: per farsi uno sgarro, per darsi l’occasione di poter restarci male a causa di una azione repentina e immotivata. Neanche sapevo Pär Lagerkvist avesse vinto il Nobel nel 1951; quando a vincerlo è uno svedese ho sempre un mezzo sospetto e mezzo che si tratti di un ordine di scuderia nazionale: come si fa altrimenti a giustificare che gli scrittori bravi siano nati tutti da un’altra parte? Comunque mi è andata male con il mio tentativo di fare una scelta sbagliata: Il nano di Pär Lagerkvist è un romanzo bellissimo. E una Firenze medicea è il suo sfondo ideale.

Al nano di Lagerkvist calza subito a pennello la definizione che Jean-Luc Marion dà dell’ingrato: è un rifiutatore, un nome un po’ meno abusato per dire: un nichilista; siccome Lagerkvist è uno che accusa l’ateismo senza mai chiamare l’ateismo per nome tocca a chi legge capire che tipo di ateo sia il suo nano: quello rigorista, quello che della fede ha tutto tranne la grazia, l’assurdo della carità sarebbe; quello che non avendoci capito in sostanza nulla prende tutto troppo sul serio. Insomma uno che, non fosse lui a dichiararlo, non lo diresti mai che è un ateo, tanto è in regola con il rispetto delle forme, a patto che le forme non cambino mai.

Bisognerebbe forse mettersi in guardia? Nel 1944 dare del nano a un nano non causava brutti quarti d’ora a nessuno: col nazismo a pieno regime c’era poco da preoccuparsi del politicamente corretto, più da sperare che finisse tutto in qualsiasi modo purché finisse, e com’è finita si sa: è finita che potrebbe ricominciare in qualsiasi momento. Nel 2018 però come si fa a parlare di un nano, e di un nano cattivo!, senza preoccuparsi prima di sculacciare Lagerkvist? Di rammentargli che non sta affatto bene parlare male di un nano, già chiamarlo nano non sta più né in un cielo né in una terra di quelli ammissibili; crede di essere il Günter Grass che il suo Tamburo di latta lo scriverà quindici anni dopo? In ogni caso: rispetto al nano di Lagerkvist il nano della soporifera saga di George R. R. Martin è uno dei sette nani di Biancaneve, dirò di più; il nano di Martin non è degno di salire sulla spalla di quel gigante letterario che Lagerkvist ha saputo fare del suo nano: un perfetto nano nazi, cioè uno che non è vero che si è limitato a obbedire agli ordini ricevuti: che piacere infinito, infatti, nel poter obbedire proprio a quegli ordini lì! “Mi piace però essere al servizio di un signore capace di incutere soggezione.

Il nano di Lagerkvist finendo nei miei occhi rischia di scivolare nell’ennesima lettura attualizzante quindi fuori di contesto; farò precipitare anche lui dentro di me? Chiunque voglia sentirsi nei paraggi dei valori pomposamente detti umani deve considerarsi un ideologo fradicio in panciolle nel suo villino tutto intarsiato nell’avorio pure se fa il pari e il dispari per far stare assieme il vitto con l’alloggio, io stesso devo riconoscere il mio precoce statuto da residuo antistorico perché gli antifascisti dal giorno dopo l’ultimo utile mi stanno sul culo ma i fascisti che ci riprovano sempre non me li farò stare da nessuna parte mai, specie quelli che “Chi, fascista io? Maddai, sei antico!” e intanto si sono affrettati a farsi ripassare l’amido al bruno dei colletti, ma il punto è proprio questo: siccome nel cosiddetto oggi bisogna darsi l’aria di esserseli lasciati tutti alle spalle i cascami dei valoriumani il nano è un capomassa perfetto: il nano oggi regna, quasi più alla lettera di quando al potere c’era il Mister Bì di prima e non il Sor Esse di ora, tanto si sa che quando si parla di letteratura l’oggi misura almeno mezzo secolo, mezzo millennio, e comunque quello che nel 1944 forse era simbolo e provocazione oggi è la normalità del “e ci mancherebbe pure non fosse così”. Tanto per essere un nano essere alti un metro o due non è che faccia chissà quale differenza: “E sono deformi senza che ne traspaia nulla.

Il suo colmo il nano di Lagerkvist l’ha raggiunto in pieno: è il suo complesso di inferiorità direi scolastico quindi giocoforza virato sul suo viceversa, infatti il nano di Lagerkvist è tutto un complesso di superiorità da sbellicarsi alle sue spalle: disprezza l’amore che tanto non ha mai avuto occasione di non contraccambiare, “Soprattutto celebrano l’amore, ed è anche giusto, perché nulla come l’amore ha tanto bisogno di essere trasformato in ciò che non è”, infatti come tutti i veri romantici, quelli mancati, è lì che ragiona su quanto sia falso e inesistente l’amore: potrebbe passare intere giornate a scrivere sul suo diario cosa non è l’amore, come quegli atei che se non fosse per il dio al quale non credono non saprebbero proprio dove spendere il tempo dei loro pensieri. E come tutti cultori della forza virile e della guerra-igiene-dei-popoli il nano di Lagerkvist è uno che può vantare a curriculum il gattino decapitato di una bambina, l’assassinio di un altro paio di nani disarmati e veleno a fiumi e a tradimento; il nano la guerra, dunque la vita, l’ha vista dagli attendamenti su in collina o dalla sua torre per nani, da dove è impossibile guardare le stelle.

E mi riempie sempre di soddisfazione constatare che sono odiato”. È talmente una parodia dei tempi moderni, non fosse l’opera coraggiosa e disperata di uno scrittore che ha vissuto all’interno dell’epoca che le stelle le mandava nei forni. Cosa resta a chi si è lasciato convincere di non poter vantare dignità alcuna se non l’orgoglio dell’odio finalmente meritato per qualcosa che si è fatto e non per qualcosa che si è agli occhi degli altri? E a cosa può mai condurre un nano se non gli altri alla distruzione e alla peste anche di fatto e alla prossima normalità successiva e sé stesso alle catene e alla noia più assoluta? C’è da vergognarsi se non si è abbastanza nani almeno dentro; così va, oggi.

Dice Bauman, nella sua piccola lezione letta a Firenze: esiste il destino, e quello non lo decidi tu, non decidi tu di essere il nano venduto alla corte di un padrone incantato e distrutto dal suo stesso potere senza freni, ma poi esiste anche il carattere, ed è quello che infine ti permetterà di decidere da te: vuoi essere il primo dei servi oppure l’ultimo degli ultimi purché degli uomini liberi quel tanto che basta per dare anche ai loro padroni il brivido d’avvistamento di quel fenomeno pomposamente detto libertà?

Il nano di Lagerkvist scrive in un quadernino la sua storia, è così che Lagerkvist ci fa conoscere questa sua creatura fragilissima, commovente e colpevole, offesa e omicida; come tutti gli autentici sconfitti dalla loro vita al nano di Lagerkvist (dentro di me dire il nano di Lagerkvist è una locuzione che fa il paio con il mostro di Frankenstein, altre creatura condannata dalla e alla sua solitudine) non resta altro sotterfugio per darsi l’illusione di una vittoria visibile soltanto ai suoi occhi più scaltri, capaci di vedere negli uomini il loro orrore, ma solo quello, così come il nano è capace di cogliere del cielo la sua oscurità e mai le sue stelle. Nelle memorie del nano di Lagerkvist c’è anche spazio per il personaggio di un Bernardo leonardesco, il grande e inventivo uomo di cultura che si divide tra cadaveri squartati per studiarne le viscere, micidiali macchine militari, schizzi di creature deformi e bellissimi quadri con i Gesù e le Madonne. E oggi? Oggi micidiali macchine militari quante ne vuoi, ma per i ritratti della Gioconda tocca rivolgersi a qualcun altro, per fortuna; o io ci spero. Almeno questo!, aver ottenuto la divisione della carriere tra gli artisti con il pallino per il bello e gli scienziati con il debole per l’estinzione della razza umana, cominciando da qualche suo sottoinsieme studiato a puntino.

Ebbene a un tratto il nano di Lagerkvist annota che codesto Bernardo è un uomo ben strano, illegibile ai suoi occhi: “Può raccogliere un sasso da terra, l’ho visto io, ed esaminarlo con straordinario interesse, girarlo e rigirarlo e alla fine infilarselo in tasca come un oggetto prezioso. (…) Un pazzo invidiabile! Chi dà tanto valore a un sasso sarà sempre circondato da tesori dovunque vada”. Il mio caso da lettore disordinato, vagabondante, oltre a volermi far leggere Il nano di Lagerkvist ha voluto che proprio nel libro prima di questo io abbia letto che nel 1910 Franz Kafka abbia regalato un sassolino a Max Brod per il suo compleanno, oltre a due libri ben più deperibili. “Nella pietra invece niente può annoiarti, una pietra del genere non può neanche perire, se non dopo tantissimo tempo(…)”. Una nota al testo ci tiene a far sapere che il ciottolo è “(tutt’oggi conservato)”.

Naturalmente se il ciottolo conservato dal 1910 ha ancora un valore è perché è stato Franz Kafka a dargliene uno; è stato Kafka ad aver animato il ciottolo con il senso delle sue parole. Al nano di Lagerkvist è mancato questo passaggio: non è mai andato oltre sé stesso; non ha mai cercato un senso, arrivando al bell’ardire di fondarselo da sé; ha scelto la viltà del rifiuto, tanto ragionevole quanto suicida. Kafka ha avuto Brod, il nano di Lagerkvist non ha avuto nessuno tranne Lagerkvist che l’ha creato e che l’ha scritto proprio così; dunque il nano di Lagerkvist un alibi di ferro ce l’ha, ma tutti gli altri nani del mondo e di ogni tempo e di qualsivoglia cumulo di centimetri in verticale no, non ce l’hanno.

Io vivo sempre e soltanto la mia vita di nano. Non vado mai in giro a testa alta e con i tratti distesi. Sono sempre soltanto me stesso, sempre uguale, vivo un’unica vita. Non ho un altro essere dentro”. Esiste un’alternativa all’avere una doppia vita e al non averne nessuna ovvero soltanto la propria, ripiegata su di sé: ammettere nella propria la vita degli altri; probabile ci siano ancora molte altre alternative e che sia io, per un mio caso particolare, a preferire la donazione di senso che Franz riversò in un sasso quando lo regalò al suo amico Brod.

Antonio Coda

Gruppo MAGOG