Perché è così importante conoscere le abitazioni degli scrittori? Cambierebbe qualcosa – nel nostro rapporto con loro, soprattutto con le loro opere – se guardassimo con morbosità dentro le loro stanze da letto, le loro biblioteche, nei loro saloni o se ci affacciassimo ai loro terrazzi? Per esempio, a Roma, in un bellissimo stabile sul lungotevere della Vittoria, si può visitare l’abitazione che fu di Alberto Moravia (e per lunghi tratti anche di Elsa Morante), al piano attico di un palazzo che sorveglia il fiume capitolino con l’alterigia di chi se lo può permettere e, tutto sommato, se lo merita. Lo stesso dicasi per villa Ernest Hemingway a Key West (Florida), coi suoi orribili trofei di caccia appesi in salotto ma anche la stupefacente armocromia (già, proprio quella) della stanza da bagno. Oppure si prenda l’appartamento di Pablo Neruda a Valparaiso (Cile), con le vetrate che sembrano spingere l’oceano Atlantico più in là e la nostalgia dell’esilio che si tocca in ogni suppellettile.
«Lo spunto per questo racconto mi è nato leggendo il libro di Sandra Petrignani La scrittrice abita qui (Neri Pozza, 2002)» confessa Valentina Fortichiari rivelando la genesi di Lezione di nuoto, pubblicato per la prima volta da Guanda (2009) e ripubblicato poche settimane fa da Solferino (2023). Ma perché la Fortichiari ha intravisto il nocciolo della sua storia nelle pagine dei sopralluoghi della Petrignani? Perché dentro alcune case – quando riescono a stabilirvisi e a convivere effetti personali, ricordi, utilità domestica, magia d’insieme e chimiche dell’istante – i romanzi ritrovano la forza, l’energia e la brillantezza che mancano in quasi tutte le ambientazioni contemporanee (fateci caso, tutte infelici: dentro sottoscala sgarrupati o in appartamenti condivisi con precari in cerca di fortuna, con gli autori ossessionatamente alla ricerca della matrice inconsapevolmente horror della storia che stanno raccontando).
Nell’estate del 1920 – quella in cui curiosamente nacque anche il padre dell’autrice, al quale il libro è dedicato – la scrittrice e attrice teatrale Sidonie-Gabrielle Colette (Saint-Sauveur-en-Puisaye, 1873 – Parigi, 1954) trascorse la fase più brillante della sua vita a Saint-Malo in Bretagna, insieme a un «gruppo di amici intellettuali, pigramente intenti a pranzi, cene, escursioni e giochi di carte». Sembrerebbero le atmosfere del Grande Gatsby o dell’Età del jazz, con la stessa vacuità che si fa prima opinione e poi status. Ma dentro l’apparente “inutilità del bene”, Colette prova a ricondurre alla disciplina dell’aristocrazia la figlia ribelle, Bel-Gazou, e a combattere un corpo a corpo contro le tentazioni a cui la induce il figliastro adolescente, Bertrand il sedicenne. Sulle quinte di questa storia – della stessa estrazione decadentista e conflittuale de Il danno dell’irlandese Josephine Hart, storia assai simile sebbene molto più tragica – c’è l’acqua, l’elemento più importante della vita dell’autrice del romanzo. L’acqua che unisce, separa, fortifica, allena e dispera. L’acqua che dovrebbe rendere le cose più semplici, invece le complica come se la rifrazione ottica che avviene immergendosi sia in realtà un disturbo comportamentale, molto più frequente se affrancato dall’innocenza, o peggio se imbevuto di peccato.
Sulla scia del 150esimo anniversario della nascita di Colette, Solferino ha ripubblicato il romanzo di Valentina Fortichiari compiendo una scelta coraggiosa e semplicissima. Coraggiosa perché la cosiddetta editoria “di ritorno” (ovvero le riedizioni) in Italia non ha mai riscosso molto fortuna, tranne rare eccezioni (come pare sia già diventata l’edizione in corso della nuova Colette). Semplicissima perché la lettura del romanzo Lezione di nuoto (a cui forse troppo leziosamente, già dalla prima edizione, fu deciso di assegnargli un sottotitolo che avrebbe dovuto “sdoganarlo” ai più, Colette e Bertrand, estate 1920, col risultato però di annacquare le qualità narrative dell’autrice confondendolo quasi con un saggio) restituisce quell’universo di tentazioni e ammiccamenti scomparse dalla narrativa moderna, in cui tutto o è già risaputo o è già successo. Così la cottura di un polipo, un banalissimo polipo (pag. 69), diventa la metafora di cose viscide che poi scivoleranno, ma non nel momento in cui si leggono, che precipiteranno ma non quando crede il lettore. La Lezione di nuoto diventa lezione di scrittura, tensione, emozione e vocazione.
Valentina Fortichiari è la biografa ufficiale di Cesare Zavattini (da lui avrà preso ironia, forza, garbo e al tempo stesso comicità del nulla, ovvero del tutto intorno a noi) e di Guido Morselli. Chissà di un romanzo così cos’avrebbe detto il Morselli, lui che la “dissipazione” l’aveva preconizzata molto tempo prima che si verificasse, lui che al complicato gioco dei sensi non aveva rinunciato ma non se l’era nemmeno saputo spiegare fino in fondo. Lezione di nuoto non è una biografia, piuttosto una notizia di un reato. Questo in fondo è amarsi, abbandonandosi al peggio.
Davide Grittani