08 Maggio 2022

Il Selvaggio e la fanciulla disinvolta. Un racconto di Colette

Quando, verso il 1853, la tolse alla sua famiglia, che comprendeva solo due fratelli, giornalisti francesi sposati in Belgio, e ai suoi amici, pittori, musicisti e poeti, tutta una giovane bohème di artisti francesi e belgi, aveva solo diciott’anni. Una fanciulla bionda, non particolarmente bella o affascinante, dalla bocca grande e dal mento affilato, gli occhi grigi e lieti, che portava sulla nuca uno chignon basso di capelli volanti, che scivolavano dalle forcine; una fanciulla libera, abituata a vivere onestamente con dei ragazzi, fratelli e compagni. Una fanciulla senza dote, senza abiti o gioielli, il cui busto sottile si piegava con grazia sopra la gonna aperta; una ragazza dalla figura normale e dalle spalle rotonde, piccola e robusta.

Il Selvaggio la vide, un giorno, quando dal Belgio era venuta in Francia a passare qualche settimana d’estate dalla sua balia contadina, mentre lui visitava a cavallo le terre confinanti. Abituato alle sue serve presto conquistate e lasciate, sognò questa fanciulla disinvolta, che l’aveva guardato senza abbassare gli occhi e senza sorridergli. La barba nera del passante, il suo cavallo rosso come una ciliegia, il suo pallore da vampiro elegante non dispiacquero alla fanciulla, ma lo dimenticò nel momento stesso in cui lui prendeva informazioni su di lei. Lui apprese il suo nome e che la chiamavano “Sido”, abbreviazione di Sidonie.

Partigiano delle forme come molti “selvaggi”, mosse notaio e parenti, e in Belgio si venne a sapere che questo figlio di gentiluomini vetrai possedeva fattorie, boschi, una bella casa con portico e giardino, denaro contante… Spaventata, muta, Sido ascoltava, arrotolandosi tra le dita i boccoli biondi. Ma una fanciulla senza fortuna e senza mestiere, che vive a spese dei fratelli, non può che tacere, accettare la sua fortuna e ringraziare Dio. Lasciò dunque la calda casa in Belgio, la cucina nel seminterrato che sapeva di gas, di pane caldo e di caffè; lasciò il piano, il violino, il grande Salvator Rosa avuto in eredità dal padre, il barattolo del tabacco e le belle pipe di terracotta dal lungo stelo, le griglie del carbon coke, i libri aperti e i giornali spiegati, per entrare, giovane sposa, nella casa con il portico accerchiato dal duro inverno dei paesi stranieri.

Vi trovò un imprevisto salone bianco e oro al piano terra, ma un primo piano appena intonacato, negletto come un solaio. Nella stalla due buoni cavalli e due mucche si rimpinzavano di foraggio e d’avena; in quella casa si facevano il burro e il formaggio, ma le camere, gelate, non parlavano né d’amore né di dolci sonni. L’argenteria, punzonata da una capra ritta sugli zoccoli posteriori, la cristalleria e il vino abbondavano. Alcune anziane tenebrose filavano a lume di candela in cucina, la sera, e stigliavano e dipanavano la canapa della proprietà, per rifornire i letti e l’ufficio di tela pesante, indistruttibile e fredda. Un aspro schiamazzo di cuoche aggressive si levava e si attenuava, a seconda che il padrone si avvicinasse o si allontanasse di casa; fate barbute gettavano, sulla novella sposa, la cattiva sorte con lo sguardo, e qualche bella lavandaia abbandonata dal padrone piangeva con veemenza, appoggiata alla fontana, in assenza del Selvaggio che era a caccia.

Questo Selvaggio, quasi sempre uomo di buone maniere, trattò bene, per cominciare, la sua piccola civilizzata. Ma Sido, che cercava amici, una socievolezza innocente e allegra, in casa sua incontrò solo servitori, contadini sospettosi, guardiacaccia impiastricciati di vino e sangue di lepre, con addosso odore di lupo. Il Selvaggio parlava poco con loro, dall’alto. Di nobiltà trascurata, di quella conservava lo sdegno, la gentilezza, la brutalità, il gusto degli inferiori; il suo soprannome definiva soltanto l’uso di cavalcare da solo, di cacciare senza cani né compagni, di tacere. Sido amava la conversazione, la presa in giro, il movimento, la bontà dispotica e devota, la dolcezza. Abbellì di fiori la grande casa, fece imbiancare la cucina tetra, diresse di persona le ricette fiamminghe, impastò dolci all’uvetta e sperò in un primo figlio.

Il Selvaggio le sorrideva tra un’escursione e l’altra e ripartiva. Tornava alle sue vigne, ai suoi boschi spugnosi, si attardava nelle taverne di crocevia dove tutto è nero intorno a una lunga candela: travi, muri sporchi di fumo, pane di segala e vino in boccali di ferro… Dopo ricette golose, pazienza e cera per pavimenti, Sido, smagrita d’isolamento, pianse, e il Selvaggio si accorse delle tracce delle lacrime che lei negava. Comprese confusamente che si annoiava, che mancava un certo comfort, un certo lusso, ignoti a tutta la sua malinconia da Selvaggio. Ma quali?… Partì una mattina a cavallo, trottò fino al capoluogo – quaranta chilometri – e, percorsa la città, tornò la notte seguente, portando a casa, con una gran aria di fastosa goffaggine, due oggetti stupefacenti che potevano affascinare i desideri di una giovane sposa: un piccolo mortaio per macinare mandorle e impasti, in marmo lumachelle molto raro, e uno scialle di cachemire indiano.

Nel mortaio opaco, sbrecciato, io potrei ancora sbucciare le mandorle, mescolate allo zucchero e alla scorza di limone. Ma mi rimprovero di tagliare in cuscini e in borse lo scialle di cachemire dallo sfondo rosso. Perché mia madre, che era la Sido senza amore e senza biasimo del suo primo marito ipocondriaco, si prendeva cura di scialle e mortaio con mani sentimentali. “Vedi – mi diceva – me li ha portati quel Selvaggio che non sapeva far doni. Me li ha portati con gran fatica, legati sulla sua giumenta Mustafà. Mi stava davanti, le braccia cariche, fiero e goffo come un cagnolone che porti in bocca una pantofolina. E ho capito che, per lui, questi doni non avevano sostanza di mortaio o di scialle. Erano “dei doni”, oggetti rari e costosi che era andato a cercar lontano; il suo primo gesto disinteressato – e ahimè! l’ultimo  – per divertire e consolare una giovane moglie esiliata e piangente…”.

Colette

*Per gentile concessione si riproduce il capitolo “Il Selvaggio” dal libro di Colette “La casa di Claudine”, pubblicato da De Piante, finora inedito in Italia. La traduzione è di Paola Tonussi

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