25 Aprile 2022

“Nulla è banale nella mia vita”. Il romanzo ritrovato di Colette

Appena uscita per i tipi di De Piante la prima traduzione italiana di La casa di Claudine, romanzo scritto da Colette nel 1922. Ingiustamente trascurato dall’editoria italiana, il testo, che è una sorta di tempo ritrovato della scrittrice borgognona, arriva felicemente sugli scaffali italiani nella pregevole traduzione e cura di Paola Tonussi, raffinata anglista e grande appassionata di letteratura francese che, grazie alla sua penna sottile, ne rispolvera la dolcezza poetica e il tono color seppia della memoria mai perduta.

Che posizione ha La casa di Claudine nell’opera di Colette e come si rapportò la scrittrice nei confronti di questo volume tanto prezioso?

La casa di Claudine (uscita per Ferenczi nel 1922 e in una seconda edizione con cinque sezioni in più nel 1930) è incastonata tra il capolavoro acclamato da André Gide, Chéri, uscito due anni prima (con la coda della pièce teatrale), e un altro gioiello narrativo che è Le Blé en herbe, Il grano in erba, pubblicato a giugno 1923 per Flammarion. Un delicato fil rouge lega idealmente i tre romanzi: la contemplazione della fanciullezza e il conseguente, obbligato abbandono delle sue esuberanze e dei suoi entusiasmi per entrare nella vita adulta. Tema tipico di Colette, questo voltarsi indietro e ricordare “un mondo di cui ho cessato di essere degna”. Come dici giustamente, La casa di Claudine è il suo “tempo ritrovato”, composto da una trentina circa di frammenti lirici dalla scrittura “aleggiante” come “lo sguardo grigio” di Sido. Qui i personaggi di casa Colette sono attorniati da molte altre figure, che animano la vita del villaggio sulla collina in Borgogna, dal macellaio alla sartina, dal curato alle vicine di casa che intrattengono rapporti con Sido o il Capitano. È un romanzo più corale, se vogliamo, e l’arco temporale della narrazione – o delle narrazioni, multiple, variegate – è più dilatato: la bambina “Gabri” diventa donna, e uno dei frammenti della raccolta descrive sua figlia, Bel-Gazou, e il tesoro infantile della “nocciola vuota”.

La casa di Claudine conserva nel titolo un riferimento esplicito al passato recente di Colette (ricordiamo che Claudine fu il primo personaggio della scrittrice e che la portò al successo grazie a una serie fortunatissima di romanzi con protagonista la sfrontata e romantica sbarazzina inventata insieme al primo marito, Willy), eppure di Claudine non è più la storia. Perché allora ricordarla?

Ai suoi esordi narrativi Colette ha la “fortuna-sciagura”, come le ricorda Catulle Mendès, di “creare un tipo, un personaggio”: Claudine, appunto, la ragazzina in grembiule da scolara e pensieri da donna. Che è Colette e non lo è, innesta il passato in vicende ed episodi fantasticati, fonde esperienza e invenzione, a un certo punto pare ‘sopravanzare’ per veridicità e fama persino l’autrice. Un caso analogo a quello di Sherlock Holmes o dell’eroe byroniano: l’inventio fagocita la realtà. In ogni caso Colette non “firma” la serie delle Claudine. Lo fa per lei il marito Willy, che le ha suggerito di alterare qui e là il testo, di renderlo “più piccante”, più stuzzicante per i lettori parigini in cerca di turbamenti maliziosi. Oggi, particolari che appaiono quasi teneri. Colette però deve lottare affinché le venga riconosciuta la maternità delle Claudine, e al divorzio segue una disputa legale per i diritti d’autore. Solo dopo anni, quindi, lei può apporre in copertina il proprio nome accanto a quello di Willy, essere riconosciuta a tutti gli effetti l’“autore” della serie. Perciò riprendere il nome della sua eroina in grembiulino nel titolo de La casa di Claudine è come rivendicare a sé quel personaggio che le era stato “sottratto”, ribadire la propria creazione autoriale. Pur nel suo stile, sfaccettato, complesso, mai diretto: se pensiamo che l’epigrafe de La naissance du jour è “Immaginate, leggendomi, ch’io faccia il mio ritratto? Pazienza: è solo il mio modello…”. Uno specchio sopra l’altro, insomma… Comunque, scavando più in profondità nell’impulso letterario, credo ci sia di più … Claudine è in parte Colette: tornare – anche solo emotivamente – a far rivivere Claudine significa per lei ripercorrere i passi di sé bambina, rivedere visi e luoghi che aveva in parte abbandonato, presa da altro, da altri libri, da altri uomini, da impegni con i giornali o in teatro. Lei stessa lo dichiara: La casa di Claudine “è il mio romanzo più vero, più autobiografico…”. Credo che in questo romanzo Colette abbia voglia di tornare – per un poco – ad essere Gabrielle-Claudine, a ripercorrere le vie del paese natale, frequentare i luoghi della propria fanciullezza, ritrovare le ombre di Sido, sua madre, del Capitano suo padre, dei bizzarri e geniali fratelli Achille, Leo e Juliette. Una piccola gemma proustiana…

La casa di famiglia, il giardino, il padre scrittore mancato che ha perduto una gamba combattendo in Italia, Saint-Sauveur sono nomi e luoghi ricorrenti di un’infanzia qui ricordata forse come non mai da Colette. Dobbiamo considerare La casa di Claudine più un testo biografico di un mondo introiettato o una vera e propria autobiografia?

Il romanzo è sicuramente un’elegia, un canto per coloro che non ci sono più, la mitica Sido in primis. Quindi non è una biografia secondo canoni classici ma si tratta di pagine biografiche di un mondo che, al momento in cui Colette si pone a scriverle, ha preso toni mitici. Prova ne sia che Colette riprenderà a parlare di Saint-Sauveur, della famiglia e della casa natale, di Sido, del Capitano e dei “selvaggi” nell’omonimo Sido (che raccoglie altri frammenti lirici su di lei, sul padre e i fratelli) e poi ne La naissance du jour, La nascita del giorno. La naissance, anzi, esordisce proprio con il rifiuto da parte di Sido di raggiungere la figlia a Parigi in una delle sue rarissime visite – Sido è ormai anziana, siamo nel 1929 –, perché il suo cactus rosa sta per fiorire e lei non può davvero allontanarsi da casa e perdersi la fioritura… Il mondo di Colette è sempre introiettato e rivisitato da un senso di nostalgia dolce-amara: niente è solo gioioso, niente è solo straziante, con Colette. Le sfumature nella sua scrittura valgono più dei toni puri, anche i più sgargianti… Forse, una vera biografia di Colette è racchiusa nell’adesione totale e immediata ai sensi: negli odori della campagna, i suoi colori – i fiori, i boschi, l’orto e il giardino –, il suo amore commovente per gli animali e la capacità di capirne istinti e bisogni, linguaggio e vitalità, l’inesauribile desiderio e la passione mai sazia per la vita in ogni sua forma ed espressione. L’insegnamento semplice e senza tempo di Sido: “Regarde!”: “Guarda!”.

Concluderei con un riferimento all’introduzione dove viene ricordato come con La casa di Claudine nasca il mito di Sido, la madre di Colette, figura inespugnabile nella vita, lo fu anche nell’opera?   

Sido la madre è, forse, il personaggio più grande di Colette, sicuramente il più forte da un punto di vista emotivo e quindi narrativo. Il più imprendibile, mai scontato. Che riverbera e rivive nella figlia costantemente. Sido è una donna di una modernità strepitosa in un’epoca in cui alle donne si lasciava un ruolo spesso marginale, in casa e nel mondo: ma Sido, capitata nel remoto villaggio borgognone con il matrimonio, cresciuta in Belgio in una famiglia di intellettuali e di artisti, supera la propria epoca con suprema nonchalance. Ha in sé un fresco senso nuovo di libertà, che vive e che insegna alla figlia, indipendenza di giudizio, coraggio di andare contro corrente e seguire unicamente le proprie leggi. Con attaccamento ardente alla vita, si dedica alla cura indistinta di bambini, piante e animali, “come una nutrice terra feconda”. Da lei Colette impara a sentirsi unica – “nulla è banale nella tua vita” –, assorbe la passione per gli animali, il senso della libertà, la forza di pensarla sempre a modo proprio, coûte que coûte. E sempre da lei impara ad essere un “cercatore di tesori”: “Sapeva – dirà sua figlia – che da piccola ero già alla ricerca di quel colpo, di quel palpito più svelto del cuore, di quel fiato sospeso che è la solitaria ebbrezza del cercatore di tesori. Un tesoro non è soltanto ciò che è custodito dalla terra, dalla roccia o dalle onde. La chimera dell’oro o delle gemme è solo un miraggio informe: a me preme soprattutto svelare e disseppellire quello su cui nessun occhio umano si è posato prima del mio…”. Così in Sido. Dove il mito è stabilito. La casa di Claudine ne racconta la formazione in leggenda, il “disvelamento” in meraviglia.

*L’intervista è a cura di Cinzia Bigliosi

 

Gruppo MAGOG