24 Giugno 2020

“Rinunciare a tutto, disprezzare tutto, scrollarsi di dosso tutto”. Giovanni Climaco come disciplina estetica. Una regola per gli scrittori

Questo tentativo potrà, ai molti, sembrare fuori luogo e privo di fondamento: affrontare gli insegnamenti di Giovanni Climaco, essenzialmente rivolti ai monaci, in una prospettiva antropologica, etica ed estetica legata alla scrittura profana è infatti un’operazione che presta il fianco a molti rischi. Tuttavia, non mi pare del tutto fuori luogo provare a segnare alcuni punti, non certo in modo sistematico, che possono essere utili a quella forma di ascesi – nel senso antico e concretissimo del termine, che significa esercizio – in cui anche la scrittura dovrebbe, a mio avviso, ricadere. Il nostro tempo letterario mostra esattamente l‘opposto. E questo è un altro motivo valido per rischiare questo parallelo, senza tuttavia cadere nella parificazione di questi due mondi, quello dellʼopera letteraria e quello del percorso spirituale. Proverò dunque a commentare alcune profonde intuizioni di Climaco presenti in una delle sue opere per me più significative e sconcertanti, vale a dire La Scala.

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Climaco usa in maniera quasi sistematica un linguaggio fortemente ossimorico e spesso paradossale, capace di mettere in crisi ogni certezza acquisita, ogni posizione raggiunta, favorendo così uno spaesamento duro, a volte crudele, ma capace di rompere ogni sicurezza e, soprattutto, di mostrare ʻcome funzioniamoʼ nellʼerrore e nel negativo scambiato per bene. Tuttavia mi pare di poter dire che non esiste una divisione dualisticamente intesa tra bene e male, giusto e sbagliato ma, piuttosto, una continua decostruzione della loro tendenza a farsi idoli, da una parte e dall’altra, rimettendo in modo il senso critico e l’interrogazione, l’ascolto e l’attenzione, vera e propria preghiera laica, quest’ultima, come aveva ben intuito Walter Benjamin. E da queste basi che possiamo partire con alcune brevi analisi del testo di Climaco.

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Una delle prime dichiarazioni del nostro autore rivolge l’attenzione ai “maestri” e ai “modelli” da seguire, cosa che è naturalmente presente anche nella pratica estetica della scrittura. Egli scrive: “apprestiamoci a tendere la nostra mano indegna, attraverso un’obbedienza cieca, a questi autentici servi di Dio che con la loro devozione ci tiranneggiano e con la loro fiducia ci fanno violenza: ricevendo da questi dotti la penna dell’insegnamento, immergendola nell’inchiostro della cupa e splendente umiltà, e posandola sui loro cuori lisci e candidi, come su fogli o piuttosto su tavole spirituali, per tracciarvi le parole divine”.

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Sono parole che, soprattutto ad un orecchio contemporaneo, risultano ruvide e forse inaccettabili: “obbedienza cieca”, “devozione” che “tiranneggia”, “fiducia” che “fa violenza”… Climaco sembra qui richiamare il lavoro dell’umiltà, quella di affidarsi ad un maestro capace di “violenza” nei nostri confronti e a cui si deve, appunto, “obbedienza cieca”. È così difficile, oggi, non solo trovare dei veri maestri in campo letterario (ma non solo), ed è così difficile, qualora si abbia la fortuna di incontrarne qualcuno, abbandonarsi davvero ad essi, perché la nostra idea di libertà e di indipendenza, unita alla scarsa propensione al duro lavoro su di sé, ci impedisce non solo di farci “figli” e “discepoli” in un modo che non sia quello interessato a secondi fini autopromozionali, ma anche di creare e lasciar essere i maestri stessi: non esiste infatti maestro se non per mezzo del suo discepolo e viceversa. Ecco perché queste parole del tutto fuori moda sono così tempestive e necessarie, ed ecco perché ci sembrano quasi del tutto irricevibili se non come una piatta e banale forma devozionale. Ma è proprio nell’ossimoro e nel paradosso che incontriamo la verità della pratica della paternità spirituale, così come quella letteraria: la “violenza” è agita dai padri tramite la fiducia; mentre la loro devozione ci tiranneggia. Violenza e tirannia sono quindi necessarie affinché il buono e il bene dell’insegnamento ci liberino dalle nostre chiusure egoistiche, dalla facilità con cui ci richiudiamo nelle nostre rappresentazioni di noi stessi che, invece, devono essere infrante. C’è qui allora una profondissima conoscenza dell’animo umano, del suo funzionamento e della sua tendenza difensiva. Violenza e tirannia, quindi, ci aprono come un cesareo, ci spingono verso la creazione – non certo verso la mera sottomissione. Questa conoscenza dell’uomo ci dice che anche l’umiltà è fatta di contraddizioni e di infinite vie di fuga del tutto interessate e per niente umili: essa è infatti “cupa e splendente”. Ci viene quindi chiesto di fare il vuoto, di farsi carta bianca pronta ad essere incisa dalla “penna dell’insegnamento”: prima la cancellazione, poi l’incisione – entrambe operazioni dolorose perché creano spazio, ci aprono e ci penetrano abbattendo le nostre difese. Solo attraverso questo lavoro, questo esercizio/ascesi la parola può prendere forma e, da sottolineare, non come qualcosa che dipenda solo da noi, ma come l’intervento di una mano altra, chirurgica, che occorre imparare ad accettare e ad accogliere con grande fatica. I veri maestri, insomma, i padri autentici, non ci riempiono di significati, di concetti o di modelli di rappresentazione ma ci svuotano e ci liberano proprio attraverso la loro “tirannia” da ogni possibile idolo senza vita, primo fra tutti quello del padre o del maestro stesso. La tirannia libera e la violenza è ancella di umiltà e amore: un amore che non crea legami di dipendenza ma che indica una pratica concretissima, un fare pratico e liberatorio che ci mette sulla via della singolarità relazionale.

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E che si tratti di un lavoro di radicale e anche durissima liberazione e lo dice l’immagine stessa che usa Climaco: “…liberare Lazzaro, ossia la nostra mente, dalle bende dei peccati, e ordinare agli angeli che lo servono: scioglietelo dai vincoli delle passioni e lasciatelo andare verso la beata impassibilità”.

Se leggiamo questa sconvolgente metafora, anche al di là dei suoi richiami prettamente religiosi, vi ritroviamo il gesto del maestro o padre spirituale capace di liberarci dal sepolcro della nostra morte, di una morte in vita che è autodifesa e cura di sé eccessivamente immunitaria, tanto da trasformarsi in una malattia auto-immunitaria che porta all’immobilità della morte;  eppure le bende che avvolgono il cadavere sono frutto di cure amorose, tentativo di preservare i resti umanissimi di ciò che è morto: anche questi sono i “vincoli delle passioni”, quando si trasformano in lacci immobilizzanti, quando, senza che ce ne accorgiamo, ci seppelliscono e stringono ai “lacci” delle relazioni, in primis quella con il maestro stesso che, infatti, è presente proprio nel districare queste bende e nel disseppellirci dalla nostra tana fattasi tomba confortevole e quieta. Non vale anche per i legami, reali o letterari, in cui siamo immersi anche quando parliamo di scrittura e di creazione artistica? Non rischia l’opera stessa di trasformarsi nella celebrazione funebre di un monumento museale dal quale non sappiamo più staccarci e con il quale ci identifichiamo senza riserve? Viene in mente l’invito evangelico: “lasciate che i morti seppelliscano i morti” – lasciate che chi si imprigiona nell’identificazione dell’opera cada nella fossa come ex-crementum, proprio quando crede invece di innalzarsi, con il suo nome, agli onori del plauso letterario, piccolo o grande che sia.

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Questa spoliazione, questo liberarsi di tutto, delle bende con cui ci fasciamo, del testo – nostro e di altri – e dei suoi commenti, non dimentichiamolo, è in vista di una nuova nascita. Climaco ci dice: “Quanto però a coloro che intraprendono questa lotta, dovranno rinunciare a tutto, disprezzare tutto, ridersi di tutto, e scrollarsi di dosso tutto, in modo da porre un buon fondamento!”.

Ed è straordinaria proprio questa “rinuncia a tutto”, questo vuoto che diventa “fondamento”: l’origine di ogni opera non è l’accumulo di saperi e di cose, non è la costruzione di un proprio “stato” ma il vuoto, uno spazio aperto, difficilissimo ma liberante – che nasce proprio dal confronto serrato e agonistico con l’opera e il fare altrui, un vuoto che nasce da un pieno di conoscenza e frequentazione, non certo dall’indifferenza e dalla non lettura o studio.

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Se abbiamo ben compreso quanto detto a proposito del maestro/padre spirituale non troviamo in questa dichiarazione alcuna incoerenza, poiché anche il padre spirituale ci svuota, ci mette con le spalle non al muro ma al vuoto – un vuoto vivo, semiogenetico che, tuttavia, non esclude la relazione con la tradizione che ogni padre/maestro rappresenta, anche in letteratura. La stessa tradizione, quindi, non è mai l’accumulo di saperi, forme, tecniche ma un fare, un mettere continuamente al presente questo confronto che ci rende umili nel senso etimologico del termine: la tradizione si trasforma in humus e ci fa humus, invitandoci a nascere con un “canto nuovo” ogni volta. La tradizione, paradossalmente, è questo canto nuovo, questa perenne rigenerazione. Altrimenti è solo museo e sepolcro.

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È chiaro, quindi, che ciò a cui si deve “rinunciare” con “disprezzo” è l’opera propria, la propria produzione estetica in quanto “sepolcro” e “fondamento” della propria identità e del proprio ego: l’opera va lasciata cadere dopo l’intensità in atto del creare: quando quest’ultimo diventa creato, occorre il più possibile staccarsene, lasciarlo gratuitamente al suo destino, dal momento che, qualora lo usassimo come scudo a nostra difesa, inevitabilmente si trasformerebbe in una pietra tombale con tanto di nome e cognome. Ancora una volta, allora, “lasciate che i morti seppelliscano i morti”.

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Questo gesto del lasciare l’opera potrebbe essere simile al passaggio dal “mondano” al luogo della prova ascetica che Climaco identifica naturalmente con il monastero. Ed ecco cosa dice proprio di questo: “Coloro che, vivendo nel mondo, si consumano in veglie, digiuni, fatiche ascetiche e mortificazioni, quando si separano dagli uomini ed entrano nella vita monastica, come in un luogo di prova o in uno stadio, non continuano più l’ascesi di prima, che così risulta finta e falsa. Ho visto molte e varie piante di virtù piantate da coloro che vivono nel mondo, innaffiate dalla vanagloria, come da un canale sotterraneo e fangoso, sarchiate dall’ostentazione e concimate dalle lodi degli uomini; poi, però, una volta trapiantate in una terra deserta, inaccessibile alle persone del mondo e senz’acqua – senza cioè quell’acqua fetida della vanagloria – subito si sono seccate”.

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Insomma, quando le “virtù” delle opere non sono più a nostra portata per riscuoterne gli interessi, quando non hanno più un pubblico che possa confortarci della loro bontà, una bontà con cui ci identifichiamo come proprietari, ecco la prova della verità o meno di quella che viene chiamata vocazione poetica: non c’è vera vocazione poetica senza questa prova del distacco e dell’abbandono dell’opera; il che non significa che l’opera sia qualcosa di negativo: essa, però, lo diventa nel momento in cui si riduce a stampella del nostro io, a ruolo e a proprietà. Quando invece nessuno vede, nessuno loda – quando siamo nel nostro deserto, in quel vuoto profondo, possiamo forse comprendere intimamente se è davvero la nostra vocazione. Le lodi e le critiche del “pubblico” vanno bene se non diventano lo scopo quasi unico del fare poetico: non si tratta di negare la richiesta di essere ascoltati e letti – altrimenti tutto si muterebbe in un altro tipo di sepolcro, opposto ma altrettanto difensivo – ma di relativizzare la nostra dipendenza dall’approvazione degli altri. Si tratta di essere nell’opera e non di servirsi dell’opera.

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Tutto questo presuppone quello che la tradizione monastica antica chiama xeniteia, non un distanziamento difensivo ma, piuttosto, un essere dentro da “stranieri” anche nei confronti di se stessi: “Straniero è colui che vive, in piena coscienza, come un uomo di lingua straniera tra persone di un’altra lingua”.

Lo straniero, in questo caso, è colui che non presuppone proprietà personali, che siano esse materiali o spirituali – nel nostro caso estetiche; ed è interessante che l’esempio di Climaco cada proprio sulla lingua – la cosa che più di altre diamo per scontata sia come proprietà che come spazio relazionale di una facile comunicazione. Trattare anche la propria lingua, letteraria o meno, come qualcosa di straniero, credo sia una delle caratteristiche della poesia e della scrittura quando abbandona la falsa sicurezza della comprensione, quando riesce a stupirsi di una sillaba o di una torsione sintattica, di un ritmo significante che la libera da quella eccessiva familiarità che crediamo di avere con essa. Infatti, “la troppa familiarità (parrhesía) è simile a un violento scirocco che, quando arriva, tutti lo fuggono e distrugge i frutti degli alberi. […] nessun’altra passione è più nociva della troppa familiarità: è la madre di tutte le altre; il monaco operoso deve guardarsene, anche se vive solo nella sua cella” (Apoftegmi, Agatone I).

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Ciò che crediamo di solito legato alla quiete e alla sicurezza si rivela, nelle parole di Climaco, come il suo contrario: un “violento scirocco” che “distrugge i frutti”; qualcosa che devasta proprio perché sembra il suo contrario. Trattare la lingua e l’opera come qualcosa di familiare, maneggiabile a piacere, sicuro e di cui ci sentiamo padroni non fa altro che disperderci con i nostri “frutti” – mentre “l’estraneità”, l’essere “stranieri” ci avvicina, seppure con fatica, al nucleo vivente della singolarità, al momento auororale e sempre nuovo, e per questo “straniero”, della nostra esistenza e della nostra opera. E questo vale anche nei confronti dell’altro, nel nostro caso del lettore (così come per i padri/maestri): non si tratta di rendersi più facile la via, così come non si tratta di rendere più facile la via al lettore; al contrario, se veramente si ha rispetto di queste due figure, quella del padre/maestro e quella del lettore, non le si liquida con un pacchetto già confezionato di significati, come cadessero dall’alto della nostra comprensione, ma si invita l’altro ad entrare nella dinamica in atto del farsi del senso, nella sua difficoltà, nei suoi ossimori, nella sua instabilità e povertà, proprio come accade nel rito, vale a dire in quelle forme capaci, ad un tempo, di essere partecipazione attiva e semiogenetica. Il resto è solo rappresentazione, il resto è solo “familiarità” distruttiva in quanto consolatoria.

Andrea Ponso

Gruppo MAGOG