Oggi, cari lettori, vi scrivo dalla stanza-studio. Il silenzio attornia il mio sguardo verso il volto e lo sguardo di Clemente Rebora. Non c’è dubbio: i morti continuano a parlarmi come se fossero vivi. A dirmi cose che nessun altro in vita potrà mai custodire così bene. I poeti son più vivi che mai. Almeno, quelli che hanno dato tanto, che hanno dato tutto, ottenendo poco o nulla in cambio. D’altronde ‒ lo si sa ‒ la vita è una lotta quotidiana: niente quasi mai ti verrà regalato.
Allora, cerco in quello sguardo deciso del poeta, in quegli occhi che puntano verso di me, un aiuto al mio senso. E lo trovo (costantemente lo trovo), se solo ho il coraggio di sfogliare le pagine piene di versi che Rebora ci ha lasciato.
Una in particolare mi rammenta ciò che vado dicendo ormai da molto. Ovvero, che la poesia deve stare in mezzo alla gente, in quanto è della gente che viene aiutata dalla poesia stessa. Come l’acqua disseta il fiore, così i versi del poeta abbracciano la ferita di chi vuole camminare ancora, nonostante tutto.
Dunque è da uno dei frammenti lirici che trovo conferma a ciò che dico:
LVI
E qui, senza riparo né scampo,
senza inganno né fuga,
io vivo con voglia nel tempo;
e del sangue di tutti è il mio polso.
Come canto in melodia,
come nota in armonia,
nell’amor della gente mi paleso:
e vil mi sembra quando con tormento
la voce si smarrisce appena mia.
Nel mondo, dunque, dove a volte o spesso viviamo indifferenti a tutto e a tutti, qualcosa ancora può sovvertire il cuore; renderlo migliore, seppur nell’attimo di un bagliore imperturbabile e presente. Ecco perché quindi non dovrei mai venire meno alla lettura e alla scrittura. Non solo per il bisogno di eccellere. Ma anche e soprattutto ‒ inquieto ‒ quale pioggia feconda, tanto attesa e pur temuta, unica in grado di dare forse nuova vita nell’attimo fuggente di un battito cardiaco:
Come vena profonda alle radici,
come pioggia feconda,
rinascer tento negli altri felici:
e torvo asseto quando la rinuncia
chiuso mi rende dove aperto fui.
Come mamma nella fame
tutto ai bimbi dona il pane,
così m’è grato confortare altrui
mentre rotolo dentro.
(Giorgio Anelli)