Clarice Lispector ha il genio dell’ossessa: sviscera, con razionalità esagitata, un dettaglio, uno squarcio, una scena. S’infogna nel particolare, lo scassa da dentro. Bellissima, inquieta e sprezzante, è appassionata alle vite degli altri, che prende a rasoiate; la sagacia è spietata, l’arte della scrittura è stillicidio di veleni, Clarice Lispector complica l’ordine del mondo in una infinita variante di equazioni cabbalistiche. In effetti, la Lispector non guarda: sottrae. Una sorta di abilità da miniaturista – pari a quella di chi colleziona falene, catalogando in album la fragilità, l’icona effimera del mondo – contraddistingue la Lispector ‘cronachista’. Scrisse per l’inserto del “Jornal do Brasil”, “Caderno B”, dal 1967 al 1973: un periodo – di cui è testimonianza la raccolta di Todas as crônicas – punteggiato da alcuni dei suoi libri più grandi, da A Paixão Segundo G.H. (1964) a Água Viva (1973). Più che altro, le ‘cronache’ dissezionano ricordi, residui del pensare, frammenti quotidiani che sconfinano sul labbro, irti di spini, felici nel sangue. Nata in Ucraina nel 1920, trasferitasi in Brasile un secolo fa, tra gli scrittori estremisti del secolo, la Lispector muore un giorno prima di compiere 57 anni, era il 9 dicembre. In questa pagina, abbiamo estratto alcune sue ‘cronache’, arcane. Amava Edgar Allan Poe.
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Gioco a pensare
L’arte del pensare senza rischi. Se non fosse per i camminamenti dell’emozione a cui ci conduce il pensiero, pensare sarebbe classificata come una delle forme dello svago. Non si invitano amici a questo gioco, perché il pensare implica troppe cerimonie. Meglio concedergli una rapida visita, come chi è distratto e si pone al pensare sbriciolando qualche parola. Un gioco leggero. Il pensare profondo – il grado massimo di questo gioco – richiede la solitudine. Arrendersi al pensare comporta grandi emozioni: osiamo pensare davanti a qualcuno solo quando la fiducia è tale da sciogliere ogni disagio. Molto si esige da chi ci vede pensare: un cuore grande, amore, comprensione, l’esperienza di essersi dato pure lui al pensare. Bisogna ascoltare il silenzio che giace sotto le parole. No, non è vero. Ci vuole qualche cosa di più. Nel caso del pensare come gioco, l’assenza di rischi lo rende disponibile per tutti. C’è qualche rischio, è ovvio. Giochi e te ne vai, con il cuore triste. Ma in generale, prese le precauzioni intuitive, non esistono pericoli. Come hobby ha il vantaggio eccezionale di essere portatile. In certe ore del pomeriggio, ad esempio, quando una specie di risacca svuota la casa di luce, mentre la città rabbrividisce dal lavoro, e siamo soli a casa e nessuno lo sa, in quei momenti, il solenne istante della dignità se lavorassimo in un’officina o in un’azienda di vestiti, si pensa.
Ad ogni modo, inizia quando vuoi. Di notte, è meglio di no. Una volta, per dire, quando stavo mandando a lavare dei vestiti, ho cominciato a scrivere una lista. Avevo un quaderno pulito. Improvvisamente, la voglia di non essere seri… Eccolo, il primo segno del pensare come gioco. Ho scritto una lista dei sentimenti. Un altro segno del gioco è non preoccuparsi di non capire; nulla si perde nel non capire. Così ho cominciato una lista dei sentimenti dai nomi ignoti. Se ricevo un regalo da uno che non mi piace, come chiamo quel sentimento? La nostalgia per qualcuno che non ci piace più, quel cauto risentimento, come si chiama? Una fatale pigrizia ci illumina, come se nella stanza fosse esploso un miracolo: come si chiama? Ma devo avvisarti. A volte iniziamo a giocare col pensiero, finché il gioco non si impossessa di noi. Non è bene. È così, ed è appassionante, fino alla lacerazione.
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Una ragazza tranquilla
Aninha è una ragazza tranquilla di Minas Gerais che lavora a casa mia. Quando parla, la sua voce è soffusa. In verità, parla di rado. Non ho mai avuto una domestica di nome Aparecida, e ogni volta che chiamo Aninha la chiamo così, Aparecida. Perché è un’apparizione silenziosa. Una mattina stava riordinando un angolo della stanza, io ricamavo nell’altro. All’improvviso – no, non all’improvviso, in lei niente è improvviso, tutto è in continuità con il silenzio – ha detto, “La signora scrive libri?”. Un po’ sorpresa, ho risposto di sì. Mi ha chiesto, senza interrompere il lavoro, se avessi potuto prestargliene uno. Ero confusa. Le ho detto che non le sarebbero piaciuti, che i miei libri sono piuttosto complicati. Senza interrompere il lavoro, con una voca ancora più rarefatta, ha risposto, “Amo le cose complicate. Non sopporto l’acqua con lo zucchero”.
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Lezioni di piano
Mio padre voleva che le sue figlie studiassero musica. Lo strumento prescelto era il pianoforte, acquistato con molti sacrifici. Non potevamo avere una maestra più grassa. Era davvero obesa e aveva mani minuscole. Il nome le donava: Signora Pupu. Le lezioni di piano erano una tortura. Di quelle lezioni, mi piacevano soltanto due cose. La mimosa che appariva, impolverata, alla curva del tram: la attendevo con ansia. L’altra: inventare musiche. Preferivo inventare allo studio. Avevo nove anni, mia madre era morta. Inventai la prima melodia, la ricordo ancora. Perché proprio l’anno in cui è morta mia madre? La musica è divisa in due parti: la prima è lenta, la seconda un po’ militare, un po’ violenta, è una specie di ribellione, suppongo. Quando la Signora Pupu interpretava Chopin, che mi piace così tanto, mi annoiava. Al contrario, ero felice se condivideva i suoi dolci, che divorava con avidità.
Ero tanto pigra che chiedevo a una delle mie sorelle di suonare gli alti, mentre io mi limitavo ai bassi. Per fortuna a mio padre non è venuto in mente di farmi studiare il violino. Suonavo a orecchio, ma era una delle mie sorelle ad avere un talento autentico. Lasciò la Signora Pupu per Ernani Braga, maestro del Conservatorio di Recife. Le propose di diventare una pianista. Non so perché abbia rifiutato. Di notte, mio padre ci chiedeva di suonare. Ricordo che un pomeriggio, svegliato dalla radio, chiese che musica fosse. Era Beethoven.
Una delle mie sorelle conserva un regalo della Signora Pupu: una bambola di porcellana, rivestita di seta, per infilare gli spilli. Delle tre, è la più nostalgica. Della Signora Pupu ricordo più che altro la mimosa. Chi avrebbe potuto vivere in quella casa? Più che alle lezioni di piano, ero interessata ad altre cose, alla Signora Pupu, ad esempio. Divagavo. Come poteva una signora tanto grassa avere mani così piccole e delicate, che volavano sulla tastiera? Pensavo alla sua morte. Alla bara, enorme, che avrebbero dovuto comprare. Era sposata? Come avrebbe potuto. Nella mia ingenua ignoranza, queste erano ragioni sufficienti per distrarmi dalle lezioni. La casa della Signora Pupu aveva una scala all’ingresso, che portava alla stanza delle lezioni. Ho studiato anche con Ernani Braga: diceva che le mie dita sono fragili. Preferisco tacere: è morto pure lui. Le mie dita non sono fragili. Ho forza, lo so. La mia forza è nella morbidezza di queste dita fragili e delicate.