18 Dicembre 2022

“Il mio cuore è bianco e non si lamenta”. Il poema impossibile di Juan Eduardo Cirlot

“…Per l’affezione alle cose inanimate non si usa il termine philia: esse, infatti, non possono ricambiarci l’affezione, né noi possiamo volere un bene per loro”

(Aristotele- Etica Nicomachea, libro VIII)

Non sono il primo ad immaginarla questa storia d’amore; questo subìto incanto è d’un pomeriggio d’estate del 1966, e come in tanti romanzi o film, emerge dal buio complice di un cinema. È a Barcellona, presumibilmente in una calda giornata dell’estate spagnola, che Juan Eduardo Cirlot acquistò il biglietto per vedere The Lord of War (1965) di Franklin J. Schaffner,un insolito film per i suoi tempi. Cirlot, intellettuale cinquantenne, critico d’arte, musicista, poeta d’avanguardia, fanatico dei simboli e collezionista di spade non fu probabilmente consapevole di ciò che gli sarebbe successo di li a poco. Quello che è certo è che in quella sala, sicuramente non troppo frequentata, faceva un caldo insopportabile: il fumo denso, le poltrone di velluto rosso; in quella sala, in quel preciso momento, forse proprio per l’arsura, mentre la pellicola scorreva, la visione dell’attrice Rosemary Forsyth nuda, pudicamente emersa dalle acque di una laguna, fu uno shock così radicale per il poeta da modificarne per sempre il modo di vivere e di sentire. Non sappiamo se fu veritiera epifania, se fu esattamente da allora che Cirlot provò quello strano e profondo amore per un’immagine, per l’immagine melusina di quella venere celtica sorta dall’acque, B-R-O-N-W-Y-N… Non sappiamo se allora fu così consapevole della strana passione che cominciò a possederlo, di questo Aτη assennato, amoroso.

Il risultato fu la realizzazione di un ciclo poetico straordinario, sedici libri votati alla stessa musa. Una delle più affascinanti avventure poetiche della poesia spagnola del Novecento, in Italia pressoché sconosciuta. La raccolta, naturalmente, non è mera descrizione verbale delle immagini del film, mera attuazione del dispositivo retorico; siamo davanti a un’esegesi simbolica, un’indagine sulle segrete analogie che si instaurano tra personaggi, i fatti e gli archetipi mitici. Il film è basato su un’opera teatrale, The Lovers di Leslie Stevens, e racconta dell’arrivo in un feudo sotto il dominio dei Normanni e colpito dalle incursioni dei Frisoni, di Chrysagón de la Cruz insieme al suo seguito. Bronwyn è una contadina il cui matrimonio con uno dei servitori del Signore è vicino. Il suo primo incontro con Chrysagón segnerà il destino di entrambi. Consapevole del potere che ha sulla sposa la prima notte di nozze e ignorando i consigli dei suoi uomini, decide di esercitare il diritto di pernada. L’usanza prevede che la fanciulla promessa sposa sia consegnata dal padre al Signore e torni da lei non appena sorga il sole, tuttavia, Chrysaógn si rifiuta di far tornare Bronwyn, provocando l’ira degli abitanti del villaggio che hanno stretto un patto con i Frisoni. 

Infine, il giovane principe frisone, tenuto in ostaggio dai Normanni, ne impedisce l’annientamento. Ma Chrysagón non potrà sfuggire all’ira del giovane sposo. L’elemento relazionale e le complesse analogie che i simboli introducono tra i diversi ordini della realtà, legano altresì i vari aspetti dei rispettivi linguaggi artistici, cinematografici e letterari, indirizzandoli verso una sintesi che fa del Book of Bronwyn un’opera proteiforme e prematura che si alterna versi e prosa, parola e immagine. Un’opera in cui l’endecasillabo convive con permutazioni, calligrammi o poesie fonovisive. I ritmi del metro allitterativo germanico fanno rima con le immagini visionarie del surrealismo. Mitologia celtica con misticismo sufi. Il medioevo con il 20° secolo.

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Del ciclo Bronwyn (1967-1972)

A bronwyn-daena

Le tracce delle tue dita
non si vedono nella torre.

Eppure leggo senza riposo, nella solitudine dell’eremo, insieme al mare i segni antichi dove fosti fino all’anno mille, per boschi, paludi, rami e foglie o calpestata argilla.

Dentro al cuore c’è la morte
come una runa bianca di cenere

Avvicinati attraverso il campo bianco o per il verde campo o per il campo nero, però vieni.

Fermati davanti alla tomba
dove noi siamo.

[…]

Le piante come te sono verdi
lontano dalla cenere che mi allontana
per sempre senza ferro.
La morte è il pantano delle croci,
Bronwyn.

[…]

Che le orchestre cieche del martirio
finiscano con i boschi, i fuochi
di questo incendio finale, sacramentario.
Bronwyn,
se non posso essere te, se non possiamo
essere angeli,
perché la nebbia è grigia sopra il mare grigio?

[…]

Le rovine delle rune sulla scogliera
parlano di me che fui di questo mondo,
dove il mare e la terra e la nebbia
si fondono e confondono.
La vita era un’assenza inesauribile,
un labirinto di grigi serpenti,
una palude di tenebrose rose.

[…]

Prendi il mio oscuro anello immemorabile,
la mia armatura disfatta si disfa
e dalla cotta morta escono fuochi
azzurri, Bronwyn; posso vederli, tremano.
Lancio il guanto di ferro, sono il servo tuo.
Il mare che mi accompagna per un mare
d’ombra si disfa nel vuoto.
Sono stanco di essere morto ed essere.

[…]

Bronwyn;
è un mare di cenere, sta salendo.
Le nostre ali non esistono per la notte.
La testa è di cera,
gli occhi sono spazio.
Ti lascio fra gli alberi del mondo
e questo coro di grida che insegue
la mia statura maledetta.

[…]

Si avvicinano le dorate processioni
che censiranno il mio corpo in una lastra.
Tuttavia lascia che ti contempli,
mentre cambiano di senso i miei occhi
convertendosi in musica bluastra.
Bronwyn, l’orizzonte è una casa:
(l’immagine incendiata di una casa)

[…]

Di terrore è la terra, però io cerco
un fiore d’inaccessibile cristallo.
Dammelo con i tuoi occhi dal lago
dove bianca appari,
corpo resuscitato non abbandonare
questa ferita mano.
In occidente anche il mare finisce.

[…]

Il mio signore m’inviò insieme alle onde?
Il mio rumore, la mia armatura sono un dono necessario?
Dovevo morire insieme alla porta
del giardino degli alberi dorati?
Devo vivere morto mentre so
che il cielo è una rete di grigia pietra?

[…]

È la mia spada dell’anno mille che piange,
non io.
Il mio cuore è bianco e non si lamenta.

Traduzioni da: Juan Eduardo Cirlot, El peor de los dragones. Antología poética 1943-1973, Siruela, 2016

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