Un anno prima di partire per la Francia Cioran aveva scritto: «Chi si distacca dalla propria nazione diventa un fallito». È proprio in questa nuova veste di diseredato che Cioran inizia a Parigi la sua nuova esistenza di apolide. Tra vaghi propositi di ricerca filosofica e incerte borse di studio, si ritrova in realtà a vivere d’espedienti nel Quartier latin, accanto agli espatriati di ogni dove, deambulando senza meta nel ventre d’una città «che vi culla di illusorie promesse di felicità per meglio divorarvi».
In una corrispondenza da Parigi per il giornale romeno «Cuvântul», Cioran ritrae i frequentatori del celebre quartiere, delineando per la prima volta quella concezione estetica, vagamente romantica, del fallimento che diventerà uno dei tratti fondamentali e originali del suo pensiero. «L’assenza di riserva interiore e il desiderio di esaurire freneticamente la vita fanno, presto o tardi, di quasi tutti gli abitudinari del Quartiere dei falliti. Ogni volta che osservo quelle ombre umane, studenti romeni, polacchi, spagnoli o cinesi (hanno tutti la vocazione dell’insuccesso), so fin troppo bene ciò che li ha spinti allo scacco. Non è forse caratteristico trovare i falliti soprattutto nella metropoli del mondo e nelle piccole città di provincia? La vita non si realizza né nell’infinito né nel finito […] Qui si è infelici gradevolmente. È il segreto di Parigi, quella poesia conferitagli da individui maledetti erranti di caffè in caffè, posseduti da una noia avida, è il vuoto profumato di Parigi».
Pur essendo Parigi la ville de l’échec par excellence, la cornice ideale di un’agonia, Cioran non cede alle tentazioni suicide d’un Nerval o del Malte di Rilke, piuttosto, sulla scia di Baudelaire ed Heine, egli vuole assaporarne sino in fondo il fascino amaro, decadente, farne «lo spazio ideale della propria solitudine», «irrorare la noia di poesia». Insomma, vuole «abbandonarsi esteticamente all’infelicità».
Se Baudelaire ci ha donato lo sguardo per cogliere le specie botaniche che germogliano dal male, Cioran, ammaliato dal «crepuscolo irresponsabile» di Parigi, ci mostra l’essenza poetica del fallimento e, se si vuole, l’intimità originaria tra il naufragio esistenziale del poeta e la scaturigine del canto. Quasi che l’ispirazione lirica presupponesse, reclamasse in un certo senso, l’esperienza dello scacco, con cui sembra condividerne lo spazio a una dimensione: l’incompiutezza.
Il canto d’Orfeo, sorgente eterna del dire poetico, è, innanzitutto, canto dell’assenza, lamento della mancanza, lacerazione interiore di fronte all’irreparabile perdita. Non si dà poesia nella pienezza dell’essere, ma unicamente nel suo venir meno. È l’impossibilità stessa della vita, la sua straziante invivibilità, a farsi musica, parola, nell’incessante dileguare fantasmatico dell’oggetto desiderato. Iniziato alla scienza della caducità, alla geometria dei sospiri, il poeta, cantando gli esseri e le cose, li salva dal loro immediato svanire, conservandoli nella provvisoria immortalità della parola. Vivendo in intimità con la morte, il poeta si annulla per essere in tutte le cose, diventando puro sguardo sul mondo. Il prezzo pagato per la superba inutilità della sua arte è altissimo: la perdita d’identità e il fallimento umano agli occhi della società, di cui lo smembramento di Orfeo ad opera delle Baccanti ne è l’eterno simbolo.
Se da un lato l’esistenza del poeta implica sempre la realtà dello scacco, dall’altro è possibile leggere l’equazione anche al contrario: il fallito autentico che accetta consapevolmente e fieramente la propria disfatta, approda a suo modo a una dimensione poetica dell’esistenza. Anch’egli s’installa nell’incompiutezza, sebbene vi giunga percorrendo altre strade, privo del concorso delle Muse: «Fallire la propria vita significa accedere alla poesia – senza il supporto del talento», sentenzia Cioran nei Sillogismi dell’amarezza.
Non avendo conosciuto la grazia e la maledizione della poesia, ma solo «il rimpianto di non essere poeta», costretto a brancolare «al di qua dell’ispirazione», ad accasciarsi «alle soglie del canto», Cioran è condannato a frequentare i poeti da «amico», o meglio, da «parassita», pronto a saccheggiarne la materia, traducendo nell’aridità impersonale della prosa le loro folgoranti visioni.
Del resto, la sua sin troppo modesta aspirazione di allora sarà di essere nient’altro che «un pensatore pessimista da boulevard», un flâneur melanconico, immerso nella nebbia azzurrognola di Parigi, tra le strade strette e fumose del Quartier latin. Un solitario, insomma, che rimugina sulla vacuità della vita, nel silenzio monacale di una delle «mansarde della terra», tappezzata «dalla patina grigia delle insonnie ospitate». Proprio in quelle petites chambres d’hôtel la poetica dell’échec ispira a Cioran le pagine più liriche del suo primo libro francese, quel Précis de décomposition dove non disdegna di ritrarsi sotto l’effigie del fallito.
Tuttavia, è proprio la travagliata gestazione del Précis, in cui il lirismo vulcanico romeno si raffredda e si cristallizza stilisticamente a contatto con i rigori sintattici della lingua francese, a portare a compimento quello che era stato il sogno di Baudelaire: «il miracolo di una prosa poetica, musicale senza ritmo e senza rima, flessibile e aspra quanto basta per adattarsi ai movimenti lirici dell’anima, alle ondulazioni della fantasticheria, ai soprassalti della coscienza».
L’articolo che segue, a tutt’oggi ancora inedito in Italia, è tra i primi scritti da Cioran nella lingua d’adozione e fu pubblicati nel settimanale francese «Comœdia», il 16 gennaio 1943. Curiosamente l’autore, ancora incerto sulla sua nuova identità, si firma Em. Cioran. (Massimo Carloni)
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MIHAIL EMINESCO
Non può esserci compimento alla vita di un poeta. È da tutto quanto non ha vissuto che gli viene la sua potenza. Più il contenuto dell’istante è nutrito d’inaccessibile, più il poeta è in grado di esprimerne la sostanza. La quantità di resistenza che la vita oppone alla sete di vivere determina la qualità del respiro poetico. L’espressione si condensa nella misura in cui l’esistenza ci sfugge, e il peso della parola è proporzionale al carattere fugace del vissuto.
Eminesco, è il più grande poeta romeno, è una delle illustrazioni più probanti del fallimento implicito in ogni esistenza poetica. La sua vita non è che una sequela di miserie accompagnate dal presentimento della follia che doveva infine coronarle. Narrare quella vita sarebbe del tutto inutile, giacché era necessaria, e dato che le circostanze favorevoli non inficiano in alcun modo la sua purezza negativa. A che pro fare la storia d’una fatalità, quando questa sarebbe stata la stessa in qualsiasi situazione del tempo e dello spazio? La biografia ha un senso solo quando essa evidenzia l’elasticità di un destino, la somma di variabili che comporta. In Eminesco è l’idea monotona dell’irreparabile che sin dai primi versi lascia prefigurare ciò che doveva seguire, rendendo inutili gli scrupoli biografici. Solo i mediocri hanno una vita. E se hanno inventato le biografie dei poeti, è per supplire alla vita inutile che non hanno avuto.
In Romania si è scritto molto su Eminesco e in particolare sul suo «pessimismo», sull’influsso di Schopenhauer e del buddhismo nella sua opera. In effetti, pessimista lo è stato, e sin dall’inizio fa pensare a un Leopardi o a quel bizzarro portoghese, Quental. Tuttavia, significa mancare l’essenza della poesia o sbarazzarsi troppo facilmente delle difficoltà che essa suscita, qualificarla come «pessimista» – come se potesse esserci un altro tipo di poesia! Si è mai visto un canto di speranza che non ispirasse un certo disgusto? Il motto di Valéry: «Gli ottimisti scrivono male», indica, in fondo, che ci sarebbe un’affinità necessaria tra il sogno e l’assenza. Come cantare una presenza quando il possibile stesso è infirmato da un’ombra di volgarità? Tra la poesia e la speranza l’incompatibilità è definitiva. Giacché la poesia esprime unicamente ciò che si è perduto o ciò che non è – nemmeno ciò che potrebbe essere. Il suo significato ultimo: l’impossibilità di ogni attualità. È per questo che il cuore del poeta è null’altro che lo spazio interiore e incontrollabile d’una fervente decomposizione. Chi oserebbe domandarsi quale fosse il suo sentimento della vita quando è attraverso la morte che egli si è sentito vivo?
Eminesco ha vissuto nell’invocazione del non-essere. E tale invocazione si svolge tra una sensazione materiale, che è il freddo della vita, e una sorta di preghiera, che ne è il compimento.
La Preghiera d’un Daco, uno dei poemi più disperati di tutte le letterature, è un inno all’annientamento. Vi si chiede la grazia dell’eterno riposo. E, per assicurarsi che niente lo leghi ancora alla vita e che niente ostacoli la sua brama del nulla, esige da Dio che maledica ogni uomo che abbia pietà di lui, che benedica il suo oppressore, che dia vigore al braccio che voglia ucciderlo, e che egli sia il primo degli uomini a cui tolga la pietra dove poggiare la propria testa.
A chi inciterà i cani affinché strappino il mio cuore
Donagli, Signore, una corona preziosa
Con chi lapiderà il mio volto
Sii benevolo, Tu Onnipotente, e donagli la vita eterna.
Solo così può ringraziare Dio di avergli accordato «la fortuna di vivere». Sparire irrimediabilmente nell’«estinzione eterna» gli sembra il compimento supremo.
In Mortua est si chiede: «Non è forse follia il tutto?» Gli uomini sono «sogni incorporati che corrono dietro a dei sogni».
Eminesco non ha trovato il sublime sotterfugio dell’estasi. Egli s’innalza dall’interiorità della morte al di sopra della vita. Nell’estasi si è al di là dell’una come dell’altra. È la soluzione di Shelley, che è riuscito a trascendere l’irriducibilità della vita e della morte, fondendoli in una musica irreale. Filosoficamente parlando, significa eluderle; poeticamente, significa salvarle in un’irrealtà più efficace della loro reale dissomiglianza.
In ogni forma d’estasi c’è qualcosa di divino; ma anche di adulterato.
Per sfuggire a una simile lucidità, un Hölderlin si cullava in una Grecia ideale dell’anima; egli vuole ingannarsi. Sentiva di essere condannato. E voleva far qualcosa per sfuggire al suo destino. Egli è grande perché non c’è riuscito. Non crollare sotto il proprio ideale per un poeta significa mentire. Più di tutti gli umani, egli è alla ricerca dell’illusione, senza avere mai la possibilità d’installarvisi.
Si potrebbe pensare che Eminesco abbia cercato di lasciarsi ingannare dall’amore. Eppure egli conosce l’illusione di ogni suo languore. Egli si abbandona alla passione solo per le sofferenze che gli ispira, per il suo smacco. Del resto non ha rimarcato che l’amore è la sostanza della poesia unicamente perché esclude la felicità? Per i cuori dissociati dal mondo, non può essere provato se non nella forma della felicità o della sventura. Che Eminesco abbia amato una donna posseduta da tutti, tranne che da lui, può dipendere da parecchie circostanze. L’importante è che non abbia ceduto alla degradazione della felicità. La sua anima non era abbastanza mistica da disertare nella felicità (Shelley), ma era forte quanto bastava per ricorrere alla sventura, in fondo una diserzione anch’essa. Per il poeta, quindi, tutto è possibile salvo che la vita.
Emil Cioran
*la cura del servizio è di Massimo Carloni