24 Febbraio 2021

"Non puoi immaginare quanto mi terrorizzi vedere le donne che ho conosciuto una volta. Sulle loro facce leggo la mia condanna". Indagine sulle donne e gli amici di Cioran da giovane

Emil Cioran. L’orgoglio del fallimento ci trasporta in modo fuggevole e fuggitivo nei vent’anni del rumeno. O meglio: tra i suoi 22 e 25 anni. Dire che si tratta di un periodo incantevole ma liminale, limitato, è dire il vero anche perché sopravvivono pochi documenti che ci facciano capire quel che è successo dopo.

L’orgoglio del fallimento infatti è un libretto che passa di scatto dai 25 ai 57. Nel mezzo il vuoto. Assistiamo Cioran in questo suo dialogo con l’amico dei tempi universitari, Arşavir Acterian, un giurista classe 1907 e con la sua sorella Jeni (notizie su di lei anche qui).

Cioran si presta di suo a essere integrato con le lettere private: tra le ultime abbiamo quella con Eliade per Adelphi e quelle al fratello raccolte da Archinto.

Ci sono delle circostanze fattuali a spezzare il dialogo tra i due nell’arco di tempo tra 1936 e 1968: Arşavir è incarcerato dal regime per rieducazione dal ’49 al ’53 e dal ’59 al ’64. I curatori del volumetto non ne dicono con chiarezza i motivi ma è facile immaginare in cosa potessero consistere, ogni vago dissenso lucidamente pessimista poteva portare in carcere.

Questo Arşavir Acterian è di origini armene e faceva parte della Guardia di Ferro assieme a Cioran a altri poi celebri (Eliade, Ionescu) o meno noti ma che comunque sono presenti a chi legge Cioran nei suoi Quaderni (Noica, Ionescu, Ţuţea e Vulcănescu). Questi ragazzi erano nati tra 1902 e 1909 e andavano al seguito del professor Nae Ionescu.

Si capisce che all’epoca crescevano più rapidamente di oggi e in certo senso a vent’anni erano vissuti o quasi. Ma di fatto erano ancora prima dello scollinamento, erano appena entrati nei vent’anni, nel santuario della vita. Poi, come si vede nello stacco cronologico di questo carteggio che riprende Cioran e Acterian a cinquant’anni, anche quel che rimane ha le sue cose buone, ma principalmente tutte ricordano ai nostri che non hanno più vent’anni.

L’amore, per cominciare. Anni fa si era saputo di questa passione di Cioran per una studentessa che gli aveva fatto perdere la testa e che infatti ebbe delle difficoltà a far stampare le lettere del suo idolatrato amatore, e non solo per una cogente differenza di età.

Al di là di questi episodi tardi resta il fatto che qualcosa doveva aver sentito da ventiduenne. Infatti la prima lettera del luglio 1933 che dice?

Amato Arşavir,

ti scrivo velocemente e su di una semplice cartolina, poiché i preparativi per una fuga dalla civiltà verso i monti non mi consentono di scriverti come vorrei. Partirò per un lungo periodo in direzione di vette affini alle alture dei miei stati emotivi. Mi sono armato di molti libri giacché, da qualche tempo, nutro una formidabile passione per la lettura, e ciò in conseguenza di alcune delusioni di genere intimo, amoroso.

Sappi, caro Arşavir, che solo le creature che ci hanno fortemente impressionato sono quelle che riaffiorano alla coscienza con maggiore insistenza, dopo aver a lungo abbandonato il contesto esistenziale in cui le abbiamo incontrate. Mi riferisco a te e ad alcuni miei amici ma anche a Puica Enăceanu la quale, grazie a uno strano fenomeno interiore, gode di una vivida presenza nella mia coscienza. Ha qualcosa degli angeli e delle madonne di Botticelli (…).

In questa lettera c’è quasi tutto: il culto romantico dell’amicizia, la rinuncia annunciata a inseguire i fantasmi della giovinezza anche quando riaffioreranno e poi quella comparsa nel giro di frase di Puica. Ci potremmo giurare, l’aveva snobbato e lui fa lo gnorri, persiste a esaltarla per incensarsi da solo e andare via dalla città, sui monti, a scrivere Al culmine della disperazione. Appunto.

*

Queste lettere tra Cioran e Arşavir si equlibrano con quelle indirizzate alla sorella di Arşavir, Jeni. È più che un incontro di solitudini, è il nodo stretto tra due bisogni, due necessità convergenti e per questo sacrosante. I bisogni a vent’anni non si avvertono tanto perché si è ancora forti, si sopporta meglio la sofferenza in quanto ci si mantiene saldi nell’io e, soprattutto per i maschi, si resta concentrati sulle zone centrali del nostro orizzonte corporeo. (L’argomento delle femministe è sempre valido: non mandate sangue al cervello, banalmente)

Ma ciò non toglie che si possa essere mistici anche nella carnalità: non è un assoluto, riguarda solo i vent’anni smodati e tenaci che cercano di tenersi aggrappati a quel che già sparisce, all’amicizia romantica.

Basta che un’estate finisca e Cioran scrive a settembre:

Caro Arşavir,

è da molto che non ricevo più tue notizie. Non riesco a immaginare cosa tu stia facendo. Non so perché ma ho l’impressione che tu stia già facendo, o sia prossimo a fare, il servizio di leva. Nella distanza di spazio e tempo l’intimità del tuo essere ha acquisito, probabilmente ai miei occhi, una rigidità esemplificata dall’immagine rozza e volgare dell’ambiente militare (…).

*

Veniamo alle lettere scambiate con Jeni che sono su un altro registro: “ero pronto a partire verso il sud della Francia e non pensavo affatto che un segno di vita avesse potuto rischiarare i miei sogni affranti – sino all’arrivo della tua lettera, d’una gentilezza così delicata e d’una profondità umana così toccante” le scrive da Parigi il 28 marzo 1938.

Com’era prevedibile, con una donna Cioran si apre più e meglio, si effonde, sentite l’uomo che cerca un rifugio: “La vita che conduco a Parigi mi spinge ogni giorno verso un tracollo psichico e mi impedisce di dar seguito ai miei sentimenti e ai miei pensieri. Non avrei mai creduto di essere capace di tanto fallimento e che la paura dentro di me mi avrebbe spinto a tanta dissolutezza e a tanto vuoto (…) Sento di non poter più avere amici, di non poter avere nessuno. Solo la lebbra potrebbe placare la mia sete di solitudine. E pensare che continuo a corteggiare le donne, a parlare di matrimonio, a ‘innamorarmi’ e disamorarmi” le scrive a 28 anni, il 28 novembre del ’38. Solo con una corrispondente femminile poteva usare quel trucco ironico di scrivere il verbo innamorarsi tra virgolette.

Tutto molto commovente perché è appena finita la corrispondenza col fratello di lei e Cioran si sente con questa donna fragile che raccoglie il testimone. Ecco, se un rilievo si può fare ai curatori delle lettere è che magari disporle in ordine cronologico e non per corrispondenti avrebbe dato un taglio biografico più emotivo, più intensamente psicologico alla raccolta.

Nelle lettere a Jeni, a “Jenny” c’è però un risvolto negativo di questa richiesta di affetto. È l’autocompiacimento: “Mi è dispiaciuto non essere riuscito a parlare di più con te a Bucarest” le scrive il 15 gennaio 1940 e lei annota con sano realismo nel suo diario personale “La verità è: di che avremmo potuto parlare? Della tristezza della vita e della morte?!? Grandioso! Dice che ho raggiunto un grado quasi inconcepibile di lucidità in una ragazza – soprattutto in Romania. La frase è quasi divertente ed eccessiva, come molte delle affermazioni di E.C.”

Eccessiva è davvero la prosa rumena di Cioran. La avvertite quando le scrive tra i 28 e i 29 anni: “Nessuno tra i miei conoscenti immagina quale dramma mi spinga verso un’esistenza da nomade e quanto tormento si celi dietro l’inquietudine che mi ha colto e di cui vado fiero (…) Pochi avranno avvertito come me il bisogno di incontrare persone comuni, come pure un certo tipo di dongiovannismo sorto dalla disperazione, dal disgusto e dal vizio (…) In pratica non sono granché. Non sono e non voglio essere uno scrittore. Riconosco di avere dell’arte nell’anima, compromessa dal bisogno di assoluto, dalla pigrizia e dalla noia; chissà se un giorno arriverà mai il mio momento” – quando dice questo Cioran sta invocando la sciabola della maturità sul suo collo.

Vuole invecchiare. Eccolo accontentato, arriverà alla sua matura età a ripetere parola per parola le idee di quando aveva meno di quarant’anni.

La cosa sorprendente è che nei Quaderni ribadirà a più riprese che la sua opera migliore è anche la più precoce, è la giovanile Lacrime e santi. Nelle interviste, come in quella molto ben fatta per la televisione francese nel 1975, tornerà su questo suo bisogno ancestrale di avere a che fare con l’uomo della strada: Ci sono grandi scrittori che non hanno capito niente, uomini con un grande talento che non valgono niente: invece puoi incontrare qualcuno al bar che è una rivelazione, un uomo che si è confrontato con grandi problemi –la portiera inquieta è più interessante del filosofo sicuro di sé. Ho imparato moltissimo nella vita dal contatto con tanti tipi di persone, posso dire di non aver frequentato degli intellettuali, amo parlare con gli sconosciuti, amo il popolo se vogliamo, questo mi viene dal fatto di essere rumeno.”

Quello che altri definirebbero come populismo in Cioran è un esercizio per diventare flemmatico e scettico, per far scorrere i getti di lava lontani da quel cervello giovane e romeno, è la maturazione interiore che si fa segno e stile: “Hai uno stile ed è una cosa misteriosa, perché non si può definire, ma sicuramente si può sentire. C’è una sorta di irrealtà in tutto ciò che è letteratura, è ciò che si chiama ‘mancanza di necessità’ nel commercio quotidiano. Incontrate un tizio che non vedevate da tempo, parlate con lui per ore, poi più niente. Incontrate altri tizi che non vedevate da tempo e tornate a casa sconvolti. Questa è l’originalità degli uomini.”

Originalità equivale a prescindere dalla giovinezza. A un certo punto, maturare il distacco.

*

Cioran non ha conservato tutte le lettere che riceveva. Ha fatto eccezione per quelle che gli scriveva “Jenny” quando entrambi erano sotto i trent’anni. Come questa, bellissima, che lei gli scrive il 23 luglio 1938: “Caro Emil, sono molto contenta che tu abbia pensato di scrivermi. Mi parli dell’assoluto del mare. Sì, ne ho fatto esperienza; un anno fa sono stata dinanzi a esso per due mesi. Ci sono andata tormentata da una disperazione inaudita e con la vaga speranza che avrei trovato lì la forza per porre fine ai miei giorni. Come puoi constatare alla fine non ce l’ho fatta, probabilmente per altri motivi, ma soprattutto perché dinanzi al mare qualsiasi disperazione muta in malinconia. (…) Ovviamente la sofferenza non è svanita ma si è aggiunta innegabilmente una tenue voluttà. La bellezza del mare avvolge tutto in una sorta di poesia e affievolisce qualsiasi violenza.”

E con questo finisce la gioventù, incomincia la caccia agli spettro. Quando arriva bisogna mandarlo via.

***

Parigi, 14 dicembre 1973

Mio caro Arşavir (…)

È un’ottima notizia quella che mi dai sul diario di Jeni che hai ritrovato. L’importante è che esista e che tu l’abbia trascritto. Smuovi cielo e terra ora per farlo pubblicare. Peccato che non l’abbia scritto in francese! Qui, e questo è un bene, qualsiasi cosa sia una confessione diretta, una notazione intima, interessa più del romanzo, questo cadavere letterario.

I dettagli proustiani riguardanti Puica non mi hanno sorpreso. Non puoi immaginare quanto mi terrorizzi vedere le donne che ho conosciuto una volta. Sulle loro facce leggo la mia condanna. Il loro sguardo è un verdetto. La morte è più sopportabile rispetto alla prefigurazione della morte, al tracollo dei lineamenti, alla scomparsa del fascino di un tempo. Morire giovani è senza dubbio una disgrazia; ma vivere quando la vita non è altro che trascinarsi negli anni, sperimentare il decadimento fisico, accrescere il numero di rifiuti grotteschi che riconosciamo solo dal loro nome (…)

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Rewind. Puica era quella che nella lettera citata all’inizio, quarant’anni prima, “ha qualcosa degli angeli e delle madonne di Botticelli”.

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Queste vicende di idealismo giovanile e spietato mi hanno fatto ricordare di Rudin, un romanzo breve di Turgenev incentrato sulla perdita dell’innnocenza e cioè della saggezza. Non voglio dire nulla della trama perché in fondo l’avete già scoperta con uno sguardo su Cioran giovane.

In ogni caso il libro è stato trasfigurato così da quel letterato di strada che era Roberto Bolaño:

Quando avevo diciotto anni lessi un libro di Ivan Turgenev la cui storia mi perseguitò per i diciotto anni successivi. Il protagonista, Rudin, dubita che l’amore della sua allieva possa sopravvivere alle ristrettezze quotidiane di una vita di espedienti, anche se quella vita dovesse svolgersi a Parigi e a Venezia o fra Parigi e Ginevra. E poi dubita di sé, perché una cosa è predicare il cambiamento, tanto politico quanto dei costumi, e un’altra metterlo in pratica.

“Poi valuta la possibile reazione del padre della ragazza, che lo apprezza come precettore e come intellettuale e che non esiterà, quando verrà il momento, a muovere le sue influenti amicizie di Mosca (o San Pietroburgo) per trovargli un lavoro migliore e dargli la possibilità di costruirsi un futuro solido e forse addirittura brillante, ma non sarà mai disposto a tollerare che sua figlia lo sposi.

Infine pensa a se stesso, a quello che sperava di ottenere prima di arrivare in quella casa (l’aiuto del ricco proprietario, eccetera), e a quello che otterrebbe se, dando ascolto al proprio cuore, fuggisse con l’ereditiera diseredata.

“Degli sconosciuti o forse degli amici lo portano [dalle barricate parigine dove è stato ferito, siamo nel 1848] nella sua povera stanza di straniero. Il vecchio agonizza parlando in russo e Turgenev ci fa intendere che non solo ha trovato il coraggio ma anche il ponte in fiamme che unisce parole e gesti. Fino all’ultima frase sperai, quando avevo diciott’anni, che comparisse a un tratto la sua innamorata di un tempo per stargli accanto nel momento della morte. Ma l’innamorata non ritorna più.”

Andrea Bianchi

*in copertina Cioran, Ionescu e Eliade a Parigi nel 1977

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