“La chiarificazione della nozione di libertà appartiene oggi ai compiti decisivi, se vogliamo adoperarci per la salvaguardia dell’uomo e del mondo”.
Joseph Ratzinger
Scalo a Xi’an; ieri sera sono partito da Milano un’ora in ritardo, verso le 9 e 30. È mattina o già sera? Sono quasi le cinque di pomeriggio, in Italia è ancora mattina.
Xi’an, la zona intorno, dall’aereo in decollo appare come un alternarsi di appezzamenti di terra e quartieri di palazzi e palazzi, tutti uguali, tutti squadrati e funzionali, di venti o trenta piani, collegati da ampie strade… poi, catene di montagne, in cima a cui qui e là file di pale eoliche. In lontananza, due camini e due funghi di una centrale elettrica, che mandano fumo che si sperde da una parte, a cannuccia. Ancora montagne, a perdersi, in venature, come quelle sulle carte topografiche — poi, lo stesso, poco sopra, ma di nuvole… Che si appiattiscono sempre più, ora sono un arcipelago nel mare, che, al tramonto, si fa sempre più piatto e quieto, assottigliandosi…
Pechino di sera è un accampamento di luci, sembra geroglifici, microchip sparsi nel nero; che festa è, oggi? Da due o tre parti spuntano piccoli fuochi d’artificio, di quelli da sparare in casa. Sarebbe bello scrivere sempre così, imitando le onde del mare… sperdersi sul grande tratto di sabbia sulla battigia, creare confini, luoghi dove la norma è il passare.
Sono come incastonato nella notte cinese, ancora sotto il fuso italiano, sono le 2 e 40; di nuovo sei ore in anticipo.
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Prova, in effetti, a sederti, con calma, e a sciogliere questi nodi. Ti si consumano le mani. Prima, stavo cercando di arrotolare un lungo filo rosso per stendere i panni – me lo ha dato un’amica, qui, del mio studentato, per le lenzuola, non avendo stendini più grandi – e pensavo che il nostro cuore, fatto di vecchi, intricatissimi ricordi, non dev’essere molto diverso.
Devi iniziare da un capo, poi scorrendo ti accorgi che i nodi sono troppi, e allora devi disfare anche quelli dall’altro capo, e piano piano… Al primo tentativo di arrotolarlo, sbagliato, mi sono accorto di aver creato ancora più nodi di prima. E allora rimettiti… al secondo — piegare ripetutamente la corda in due — sono riuscito a dargli un senso e, allora, a posarlo, mi sembrava di maneggiare un cucciolo, un neonato.
Quando la vita arriva ad uno di questi capi – avvolto dal cuore-corda, da impedirti di alzarti, camminare –, mi ritrovo spesso a fare così: a sedermi e a scrivere pensando a qualcuno che mi vuole bene, facendo piano piano ordine dentro di me; aprirsi non è facile, è come con la corda di più sopra: all’inizio sembra impossibile, perché ci si accorge che servirà più tempo di quanto si pensasse… allora ci si stufa in fretta, si vorrebbe mollare tutto, darsi degli stupidi, degli idealisti – ma chi ha tempo di leggere tutta questa roba, e perché dovrebbe?, ecc. –, e tornare a vivere come prima, come se nulla fosse.
In questi giorni, come tanti anni fa, ho scritto di nuovo pensando a mio fratello, come in una lettera. Ma sembra, più che altro, che lo stesso cercare la condizione per questo gesto – isolarsi, sedersi a trovare i capi della corda (si pensi alla radice latina della parola “cuore”…), mettersi come davanti a uno specchio, di per sé aiuti…
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Di fatto, è questo lo stile di scrittura che prediligo, per una ragione o l’altra, da quando ero ragazzo. Scoprire la propria interiorità, come in N. G. Dàvila: “Le frasi sono pietruzze che lo scrittore getta nell’animo del lettore”, sondarne l’ampiezza, le profondità.
Diventare grandi; rintanarsi in un eremo di banalità.
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A volte, certi pensieri, immersi nell’intrico, risalgono a talmente tanto tempo indietro… ci vogliono anni per ritrovarne il capo. Forse, ci vuole una presenza, uno sguardo — o un indizio — esterni, per capirlo. Qualche giorno fa, tornato a casa dei miei, ho trovato un vecchio testo, risalente a quando era appena cominciata l’estate della maturità, non avevo ancora diciotto anni (ne ho trenta).
Già allora, il mio problema, a quanto pare, era di non riuscire a scrivere: già lo intendevo come sinonimo di vivere; scrivevo, in quel primo tentativo di romanzo mai abbozzato e, come gli altri, mai terminato, a proposito di un mio alter-ego: “Chi se ne importa della libertà. Non riusciva più a scrivere!”
Il racconto iniziava così – “L’università era alle porte ed il maturato Umberto Cussope si stava dolcemente smarrendo” –, e forse, penso, nient’altro ho tentato di continuare a fare, da allora.
Mi stupisce leggere di come vedessi, allora, quell’ultimo strappo di totale libertà che erano le vacanze dopo la maturità, di quanto fossi consapevole di quello che era stato, per me, quel periodo alle superiori e di cosa rappresentasse quell’estate. “Terrore ed estasi. Paura e piacere”, dicevo di “quello spaventoso mare di libertà”.
Avevo capito che la letteratura è “la malattia esasperante dell’esagerazione”; e scrivevo già, di quel personaggio ragazzo come me:
“È come in bilico sull’orlo di un crepaccio, come incrociando gli occhi inaspettati della ragazza sulla quale si è violentati la propria sanità mentale per mesi interi, come se si tornasse bimbetti, a dondolare su un’altalena: si hanno le farfalle allo stomaco. Le farfalle, dopo i pugni.
Così pare infinitamente più comodo farsi novecentesco inetto, ed aspettare e vedere il tempo che scorre e ci consuma, che consuma i tre mesi di inoperosità, ed abbonarsi gratuitamente al tappeto volante, al lasciapassare dell’inettitudine e del non-vitalismo, che ti scarica direttamente al momento in cui le soglie dell’università saranno varcate, e di nuovo, la vita potrà prendere il suo ignorante, rassicurante, effimero quotidiano corso.”
Che pena mi faccio, che mi fa quella domanda che avevo davanti, tormento: che farsene, della libertà?
Ma non è questa, la domanda?
Concludevo già, poco dopo: “È inutile, non si ha l’anima in pace finché non ci si vergogna.” Una pagina, di queste, mi fa pena, l’altra mi fa sognare: avevo sprazzi di innocenza e di serio desiderio di poesia.
“Ma non era un perdigiorno, lui, aveva ben saldi i piedi nella propria realtà. Solo che quando era lì con l’IPhone in mano, al buio, e pensava a tutt’altro, non poteva che tradire ogni sua aspettativa, era anche lui, sì, lo era, un animale vergognoso e limitato. Era anche lui un sognatore. Il fatto, è che la realtà aveva, al suo palato, un gusto così dolcemente fiabesco”…
Camminando per le strade di campagna, quell’estate, ebbe una “illuminazione narrativa”, “tutto si faceva millenario narratore, ogni cosa gli narrava orribili e magnifiche vicende, eroiche gesta”, “tutto doveva essere magicamente concatenato, all’improvviso, il fuori ed il dentro, l’uomo ed il mondo, quelle antinomie scomparivano perché capiva che non esistono: era lì, durante quell’illuminazione narrativa, che pensava alla sua tracotanza, alla nostra effimera limitatezza e si sentiva colpevole, e si vergognava e tornava nuovamente a mettersi l’anima in pace.”
Dichiarava il suo amore per la letteratura:
“Cosa c’è di meglio della letteratura, si chiedeva. Cos’è meglio di una buona, una semplice, un’elegante terzina. Di un elegante paragrafetto, pieno di virgole, di punti, di punti e virgole ed esclamazioni, e dubbi ed emozioni, e sincere confessioni.
Cosa c’è di più riflessivo, di più frivolo, di più composto e di più casinaro.
Cosa?”
E poi, “cosa c’è di meglio di una Signorina Felicita?” Ero proprio smarrito — lo dicevo del mio alter-ego; e tuttavia, continuavo testardo ad affermare: “A maggior ragione doveva mettersi a scrivere”. Scrivere: lottare con il Tempo. “Si era tutti insieme al mare, infatti, e tutti non pensavano che a divertirsi e ad assassinare i domani. Anche lui lo faceva, al contrario degli altri con pessimi esiti. Il domani proprio non gli riusciva di ucciderlo.”
Mi sorprende anche che allora affermassi di voler far parlare “l’Uomo, … le sue debolezze”: “è un uomo qualsiasi, un uomo di quest’epoca … è quest’uomo qualsiasi che vi parla”. “Ecco chi vi sta parlando: un diverso.” (E subito ironizzavo: “Scritto storto perché, in quanto a diverso, è da scriversi diversamente.”) “Quando leggiamo parliamo con l’Uomo, con il diverso dentro di noi. Parliamo con noi stessi, diversi a nostro modo. Uomini a nostro modo.”
Sempre tra il serio e il faceto, scrivevo che l’uomo è “L’animale che caga a gambe accavallate. … Un animale così strano. …altro non è in fin dei conti l’uomo, ed il suo amore, e la sua arte, che un animale che caga, ma cerca di farlo a gambe accavallate”, e in fondo, finivo per dirmi nient’altro che “uomo, è un uomo anche lui, lo è soprattutto lui stesso.”
Non ho finito quel racconto. L’ultimo paragrafo, dopo pagine riprese e interrotte, era: “Così la fine non potrà che essere l’inizio, con in mezzo una grande divagazione, una grande divagazione che, così diceva qualcuno, forse ha colto il centro, il punto dolente, l’interno, le viscere, che l’ha sviscerato, il centro, o forse, no.” Cioè, ancora a mani vuote, dovevo, dovevo andarmene.
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Che immagine potente, il piccolo confessionale in legno dove confessava Felice Maria Cappello, il “gesuita della misericordia”, come lo chiamano, conservato come una reliquia, nella Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, a Roma. Ci sono passato una sera, di passaggio per la capitale; nella chiesa una lenta e soffusa melodia di pianoforte; per illuminare la bellissima volta affrescata, bisogna, a turni, dare una moneta.
Ai piedi della tomba del religioso, a un passo dal confessionale, c’è un librone aperto con una penna di fianco, e penso che continui a confessare anche così, Padre Cappello. Anche io scrivo qualche cosa, dopo un po’ di tentennare – invisibili occhi che mi guardano: e se una persona leggesse subito dopo quel che ho scritto? –, confesso lì per lì la mia rabbia, poi me ne vado trattenendo le lacrime.
Mi viene in mente un bel detto latino, che ho letto un po’ di tempo fa nello stemma del Cardinale John Henry Newman (1801–1890) (a forma di cuore e con al suo interno tre cuori), cor ad cor loquitur, “il cuore parla al cuore”, appunto (di questo santo ricordo una bellissima poesia, “Guidami tu, luce gentile”, e The Idea of the University, osannato da Simon Leys). Che sorpresa, scoprirla citata in una recente enciclica di Papa Francesco, Dilexit nos — qualche giorno dopo aver scritto queste stesse parole –, dedicata proprio all’”amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo”.
A volte capitano simili coincidenze (un’altra è il libro che mi capita di trovare, a due euro in una bancarella — in una delle prime edizioni Einaudi, ben rilegato e dalla copertine rigida –, Un cuore arido, di Carlo Cassola, autore che anni fa ho amato, con La ragazza di Bube e Monte Mario, libri tanto esageratamente sinceri… come questa storia di un amore estivo, tra il giovane soldato Enrico e – dal risvolto – “Anna, una di quelle semplici figure femminili che la sottile poesia di questo scrittore sa far vivere con una struggente adesione alla realtà.”).
“In questo mondo liquido”, scrive il papa, “è necessario parlare nuovamente del cuore; mirare lì dove ogni persona, di ogni categoria e condizione, fa la sua sintesi; lì dove le persone concrete hanno la fonte e la radice di tutte le altre loro forze, convinzioni, passioni, scelte. Ma ci muoviamo in società di consumatori seriali che vivono alla giornata e dominati dai ritmi e dai rumori della tecnologia, senza molta pazienza per i processi che l’interiorità richiede.”
E poi:
“Nell’era dell’intelligenza artificiale, non possiamo dimenticare che per salvare l’umano sono necessari la poesia e l’amore. Ciò che nessun algoritmo potrà mai albergare sarà, ad esempio, quel momento dell’infanzia che si ricorda con tenerezza e che, malgrado il passare degli anni, continua a succedere in ogni angolo del pianeta. Penso all’uso della forchetta per sigillare i bordi di quei panzerotti fatti in casa con le nostre mamme o nonne. È quel momento di apprendistato culinario, a metà strada tra il gioco e l’età adulta, in cui si assume la responsabilità del lavoro per aiutare l’altro. Come questo della forchetta, potrei citare migliaia di piccoli dettagli che compongono le biografie di tutti: far sbocciare sorrisi con una battuta, tracciare un disegno al controluce di una finestra, giocare la prima partita di calcio con un pallone di pezza, conservare dei vermetti in una scatola di scarpe, seccare un fiore tra le pagine di un libro, prendersi cura di un uccellino caduto dal nido, esprimere un desiderio sfogliando una margherita. Tutti questi piccoli dettagli, l’ordinario-straordinario, non potranno mai stare tra gli algoritmi. Perché la forchetta, le battute, la finestra, la palla, la scatola di scarpe, il libro, l’uccellino, il fiore… si appoggiano sulla tenerezza che si conserva nei ricordi del cuore.
Quando ognuno riflette, cerca, medita sul proprio essere e sulla propria identità, o analizza le questioni più alte; quando pensa al senso della propria vita e pure se cerca Dio, quand’anche provasse il gusto di aver intravisto qualcosa della verità, tutto ciò esige di trovare il suo culmine nell’amore. Amando, una persona sente di sapere perché e a che scopo vive. Così tutto confluisce in uno stato di connessione e di armonia. Pertanto, di fronte al proprio mistero personale, forse la domanda più decisiva che ognuno si può porre è questa: ho un cuore?”
Ce l’ho, in effetti, un cuore? E piange, un cuore?
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Questo è quel che sento di avere imparato in questi anni di solitudine e ascolto sulla pagina di tutto me stesso: che se c’è una cosa che il cuore vuole, è di non stare da solo; non avere una spalla su cui piangere, ma cercarla e sapere che da qualche parte c’è (cos’altro significa, quel romanzo di Natsume Soseki — di cui Simon Leys diceva: “non conosco altri romanzi scritti nel nostro secolo che posseggano una tale misteriosa semplicità – una stessa sottile e straziante purezza” –, Kokoro, sovrapposizione di testamenti…).
Eppure, quanto vane suonano, ad ascoltarle, queste parole, ipocrite; ma davvero, è che non ho altre vere ragioni per essermi ancora messo qua a dedicare a chiunque leggerà questo momento di riflessione, se non la vecchia rabbia dello scrittore irrealizzato, e di non restare da solo. Sono convinto che sia così, quello che temiamo di più è di rimanere soli. Ho coltivato questa convinzione negli anni, scrivendo un numero indefinito di parole vane, praticando questo ascolto di “quello che esce dall’uomo” (Mc 7,20)…
E il cuore diceva: io non vivo semplicemente per stabilire una verità, io voglio di più, io voglio essere, voglio diventare qualcuno, fare qualcosa di bello e reale, duraturo appunto, vivere in verità, avere un impatto reale — quel che scrivo non è un semplice discorso, un determinare in astratto l’esattezza di questa o quella informazione, quel che vivo non è una sceneggiata, io non sono affatto una comparsa!
Questo quello che dice — non per forza ancora quel che sente. Quel che vuole seriamente e profondamente. Infatti, il cuore è stanco, a fine giornata, e il senso, faccio ancora fatica a trovarlo… non lo si trova, sfugge, è schivo, mi frustra… esco di casa, il mondo mi prende nel suo gorgo infinito, mille decisioni da prendere mi assalgono, e io mi sento stanco, sfinito, impotente, degno di biasimo… e l’amaro dei rimorsi sale in bocca: se avessi fatto questo, non quello…
Se… e nulla consola, nemmeno la musica, nemmeno le parole di un romanzo, di una poesia, nulla, nemmeno una goccia di eterno, di vita piena, in nessuna di queste parole, e sembra di annegare.
Quanto è grande e quanto spazio occupa il nostro ego? Io, io, io… Non importa quante maschere potrà mettere su, un ego, quanti sorrisi potrà montare, e parole gentili: se è ferito rimarrà tale, il dolore gli farà fare cose di cui non sapeva avere la volontà, e quando meno se l’aspetta, una goccia di fastidio lo farà scoppiare in un grido rabbioso, in un gesto violento, spaventandosi, specialmente se la maschera che indossava era quella del buonista, di quello che sa benissimo di aver sacrificato tanto nella propria vita, e che ha avuto davanti agli occhi ogni giorno quella domanda: Quando? Quando arriverà, il mio momento… e la risposta ogni volta straziante: mai…
La vita ci costringe a tornare a chiederci a noi stessi con umiltà, ma io chi sono? E cosa posso fare effettivamente? Può essere umiliante, per me lo è. E allora, siccome lamentarsi a lungo andare è assurdo e insostenibile, si torna umilmente — a scapito del filo dei nostri lunghissimi pensieri — a quella consapevolezza del poco che siamo effettivamente in grado di fare, come scriveva un pensatore solitario, già citato, N. G. Dávila:
“Possiamo soltanto spolverare la stanza nella quale forse si poserà un’orma immacolata.”
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La vita come una pagina bianca, come un’opera d’arte. Fare qualcosa di unico, sapendo di non essere gli unici a poterlo fare.
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Oltre a essere il secondogenito, nella vita ho avuto ben più di qualche privilegio (ma “la vita è un dono”, mi ha detto un amico…). Da adolescente ho vissuto in un collegio, a Torino, i miei mi mandavano a imparare l’inglese all’estero, a fare le “summer schools”; al quarto anno di liceo sono andato a studiare per sei mesi a Phoenix, Arizona, negli Stati Uniti; poi, ho potuto studiare in Cina, viverci per anni, e a Londra… ho viaggiato per il sudest asiatico, avevo visto, già alle superiori, qualche capitale europea…
Non importa se involontariamente, se per caso, o per caratteristiche congenite — sono, dicono, un portatore di leggere forme di disturbi specifici dell’apprendimento — o meno: negli ultimi anni, e ripetutamente, mi sono messo in una posizione, per provare, almeno in parte, sulla mia pelle che cosa significhi essere ignoranti e poveri, oggi, in una società avanzata come la nostra; abbastanza per capire che non avere una buona educazione (non importa se scientifica o umanistica) e sufficienti risorse finanziarie, in questa società, equivale ad essere pari a zero, catalogabile fra le persone più fragili ed emarginate, inascoltati.
È d’uso pensare che tutto ciò, per altro, venga prima della famiglia, di qualsiasi comunità non chiusa attorno a criteri di conoscenza o denaro.
Per questo, forse, i continui allarmi, l’attacco, la protesta, la rabbia, il loro “delirio cosciente” (espressione di Lo Ta-kang), il dare la propria vita, negli ultimi due secoli, di tanti artisti, scrittori, intellettuali, studiosi — non so, presi così, a parte quelli già citati, tra quelli che mi sono più famigliari, Michaelstadter, C.S. Lewis, G.K. Chesterton, Simone Weil, Orwell, E. Pound, E. Mounier e J.-M. Domenach, Hai Zi… i nostri Svevo, Verga, e Pasolini, o più di recente Giulio Sapelli, Marco Guzzi, Simona Forti, Boni Castellane, per fare qualche nome, non voglio fare una lista della spesa — per denunciare l’intera cultura e sistema tecnologico ed economico della società moderna. Per questo, forse, il bisogno radicale di una protezione, da parte del cosiddetto “popolo degli abissi”, di uomini forti al potere, la demagogia…
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Vorrei parlare di questo problema con parole, prove migliori, ma non ho tempo, non è questo che conta (in effetti, la lingua è più vicina al cuore, e quante volte non riesco a frenarla?).
Posso, certo, citare G. Sapelli, intorno a un’idea che mi ha ispirato, quella della sussidiarietà — tra l’altro, uno dei “principi cardine” all’origine dell’Unione Europea:
“Siamo dinanzi a una lenta ma irresistibile rivoluzione; pacifica, fondata su molecolari trasformazioni che hanno al centro la soggettività della persona […] Si sta sgretolando il complesso statolatrico costruito sul diritto romano-germanico e sull’assorbimento della società da parte dello Stato, nodo decisivo per l’affermazione di costrutti nazionali atti a consentire l’avvento dei capitalismi europei e asiatici a fronte del primigenio libero commercio anglosassone, seguito dalla prima industrializzazione. Quel complesso aveva le forme del Leviatano, ma al suo fianco, non dimentichiamolo mai, apparve sempre Behemont, il mostro biblico del disordine, che sguazza nel fango dell’essere senza Dio, quel fango che Nietzsche descrisse ed esaltò con sconfinata brutalità. E non dimentichiamo che Behemont ispirò a Hobbes Behemoth, un’opera meno celebre ma altrettanto importante del Leviathan, dedicata al disordine e alla guerra civile scaturita dalla tensione escatologica, e non economica, che diede vita alla prima rivoluzione moderna. Essa è più che mai attuale e ben rappresenta il tempo in cui viviamo, di disordine, anomia, angosciosa attesa. Attendiamo che vi sia un’alternativa tanto alla dittatura, quanto al disordine: la sussidiarietà risponde al bisogno di un nuovo, benevolo ordine”.
(Giulio Sapelli, “La nuova grande trasformazione”, Giorgio Vittadini, Che cosa è la sussidiarietà: Un altro nome della libertà)
O Il desiderio di Silvano Petrosino (come anche Soggettività e denaro):
“…il desiderio è la fonte di ogni specie di animazione umana; non è una catastrofe, un disastro per l’uomo, ma la via d’eccellenza in cui significa e si mantiene in vita il suo esclusivo modo d’essere…”
“L’animazione umana è relativa a una pratica della parola che non a caso si realizza in un eccesso di parole, e più precisamente in uno stupefacente esercizio di nominazione; e infatti proprio il desiderio, che è ‘di niente di nominabile’, a essere all’origine degli infiniti nomi che affollano la scena umana. E nella misura in cui l’uomo è abitato da questo ‘niente di nominabile’ ch’egli non si arresta più nel nominare, fantasticare, sognare, elucubrare, eccetera: e impossibile comprendere alcunché della fantasmagorica, magnifica, grandiosa, stupefacente, terribile, spaventosa, irriducibile condizione umana – condizione di ‘un essente il cui essere è sempre altrove’ – se non ci si confronta con l’inquietudine parlante che il desiderio attiva all’interno di essa.”
(Silvano Petrosino, Il desiderio: non siamo figli delle stelle, Vita e Pensiero, 2019)
O ancora…
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Come se avere un cuore significasse mettersi in ricerca di quello degli altri, di un altro (forse, come quel tale che in pieno giorno andava, lume in mano, a cercare l’uomo, sbraitando?); tanto semplice, perché in fondo pare basti così poco per essere felici, e tanto difficile, perché sembra sconfinare nell’impossibile – la verità è vicina, troppo –, perché non siamo mai contenti e veniamo a sbollire il risentimento e l’insoddisfazione qui, da soli, sulla pagina, o chissà in che altro modo…
Certo, le idee mi tormenteranno di meno se le condividerò con qualcuno; ma in effetti, esse rimangono “assai costose” e, non basta una lettera — una lettera è soltanto un inizio; di cui comunque, tra un attimo non ricordo più. Come nel finale di quel romanzo di Kundera, L’identità: se spengo la lampada, chi mi dice che tu non ti trasformi improvvisamente in “un serpente, un ratto, o un altro uomo”…
“Lascerò la lampada accesa per tutta la notte. Tutte le notti.”
Andrea Corsi
Pechino, 18–24 febbraio 2025
*Il servizio è costellato dalle fotografie di Liu Zheng