09 Dicembre 2019

“Sono ignoto. Ospite: tutto è buono”. Che non ci sia più Pietro Cimatti in libreria è uno scandalo. Rimediamo

Pietro Cimatti tra i 25 e i 29 anni è stato capace di poesie che fratturano il pavimento oculare, passando dall’amore alla morte, dal tema del divino a poesie carnali, a testi con richiami storici, tutto però in un impeto di fuoco e fiamma. Le poesie di Cimatti sono fuochi che non si arrestano, quando inizi a leggere i suoi versi non puoi fare a meno di continuare a leggere, non ti puoi fermare e più vai avanti più ti riducono a cenere. Credo che un grande autore debba essere capace di fare questo, farti incendiare e ridurti a niente, ridurti alla coscienza di quanto poco sappiamo, di quanto siamo mediocri. Spingerci quindi a sprofondare ancora di più nella ricerca.

Tutto il mio amore è cenere. Mia madre
arde, la madre di mia madre e ancora
madri di madri ai talami di pietra
arsero. Io sento sciogliere le dita
sento tra pelle e sangue la ridente
gioia del fuoco, e gli occhi sono vetri
(dentro mi guardi e mi vedrai bruciare)

Cenere anch’io. Ti stringo, ultimo amore
perché tu gridi perché mi ricordi
che sei di fiamma. E gli occhi sono vetri
(dentro ti guardo, anche tu ardi, amore)

*

Questi sono solo i primi versi (dalla poesia Cenere e Rosa) che si incontrano aprendo questo libro. Io non ho nome (1958) procede per assoluti a partire dal titolo, direi estremamente chiaro, una presa di posizione decisa. Cimatti è uno che scrive estrapolando le parole dalla carne, pulendole dal sangue, te le porta alla luce, non te le porge con delicatezza, te le pianta davanti. Le sue parole fanno crescere abeti, ti confronti con alberi possenti e altissimi. Improvvisamente rimpicciolisci, appunto ritorni cenere, non hai nome neanche tu.

Cimatti non ha paura delle parole, le usa senza pietà e la sua poesia ha il carattere della profezia, ci parla una voce da un luogo vietato e inaccessibile. Pare che ci guardi da un punto remoto, ma più basso, sepolto nella terra, come un tunnel scavato pronto a franarci sotto i piedi. “O mamma possono i morti essere ancora sinceri?/ Perché di tante parole non dette di tante spezzate/ Restano dissepolte ombre ancora implacate/ Le oscuratamente perdute lungo le vie della vita./ O mamma possono i morti essere ancora sinceri/Dinanzi alla sfinge camusa agli angeli senza sorriso/ sciogliere nodi di enigmi che i vivi riposino in pace?”. Sono i morti infatti che si portano dentro la morte la sincerità, che non lasciano riposare i vivi in pace. Cimatti è capace di una verità nei suoi testi che apre insieme due porte, sta tra la morte e la vita, semplicemente, ci dice quello che vede con una lucidità quasi estranea. Eppure quel “o mamma” ce lo riporta all’uomo, al ragazzo che chiama il primo nome.

*

Ed è dal nome, dal primo suono che ci viene imposto, che bisogna partire per conoscere, annullandosi, estraendosi dalla parola. “Uomo ancora. Nascendo m’hai chiamato/ con un nome (se i nomi vanno persi/ sul lividir dei marmi abbandonati/ altri nomi sian dati) e m’hai chiamato./ Uomo. (…) Pietro fui detto. Prima del respiro/ m’hai dato il sangue della tua paura”. I nomi appunto vanno persi perché altri nomi siano dati. Siamo in un flusso di esistenze, di vite brevi, dove il nome viene dato e perso insieme, dove si tenta di restare con la scrittura, con una parola che appartenga a tutti, che si espropri del suo dio creatore, che sia solo creatura. “Io non dispero/ non deliro non chiamo. Sono ignoto./ Ospite: tutto è buono. Ospite: il succo/ che fu bevuto mi fu offerto in dono./ Io non sono. E per chi m’ama perdona/ madre più buona per il suo dolore./ Io son uno che muore”. Il poeta si nega, nega il suo nome, nega la sua voce, si fa totalmente a servizio della parola, diventa un suono, un segno scritto. Devo dire che leggere questi testi di Cimatti a quasi trent’anni dalla sua morte mi emoziona e mi fa infuriare, leggere “io son uno che muore, non deliro non chiamo” e trovare ora invece questa chiamata potente. Questa voce che mi ossessiona anche di giorno. Vedere che era davvero uno che non chiamava, dato che tutti i suoi libri sono estinti dal commercio, in rete e non. E trovarli per me è stata una sfida, un’avventura. Cimatti mi fa ricordare sempre di più che la parola se vera, se sincera, resiste. Qualcuno la può trovare, ti viene a cercare. E cosa è scrivere se non un dolore resistente, recidivante, che non ha alcuna cura, che nemmeno l’amore placa: “Mi vorrei/ togliere dalle dita questa pena/ scura di canti che non placherà/ luna salubre mani, mai foglia santa”.

*

La poesia di Cimatti è anche terra perché riconosce nella terra arata la sua origine di sviluppo, di tensione verso l’alto, l’altro. La parola la si estrae nei solchi duri della terra, è un lavoro di attese e di semina, di trebbiatura e di luce che brucia: “Amo quel mondo perché m’è sanguigno/ perché m’arde alle tempie/ amo le cose luride le scempie/ le vive le carnose lievitanti,/ adoro le calendule giganti/ e le rose sfiorite e le ferite/ del sole e le trebbie e le brucianti/ mietiture e le fiabe imperiture/ dei cambi, e la rude poesia della natura”. Scrivere poesie per Pietro Cimatti è quindi abitare la solitudine, essere soli anche nel suono, nessuno può chiamarti se non hai un nome. Sei solo il verbo che ti porti appresso, sei un residuo di sangue e carne che tenta di estrarre dalla gola un suono. “Poesia è una folle aureola di stupori/ una voluttuosa solitudine/ una porta nel vuoto della notte”.

*

Pietro Cimatti aveva già una moltitudine di voci che gli parlavano nel vuoto della notte, era capace di voci tragiche, delle voci misere degli ultimi, di voci apocalittiche e di voci che ululano alla speranza. Una gamma di toni tutti estremi, tutti perfettamente esauditi nel loro compito. “La mia camera nera è una conchiglia,/ se l’ascolto mi parla di maree./ Ma io aspetto seduto la parola./ Io voglio ricopiare su una pagina/ il disegno stellare della notte./ La mia camera nera è una conchiglia/ che a mezzanotte narra di maree./ Ma io aspetto paziente la parola./ L’infinito già bussa alla mia porta/ stringe le mura della stanza nera,/ l’infinto è maturo per parlare./ E’ l’ora eterna, l’ora sempreverde…”.

*

Io non ho nome contiene anche poesie che sono dialoghi con Dio, non sono richieste, perché Cimatti non chiama, sono le parole di un uomo che dice come sta, che dice esattamente quello che pensa. Che lo scrive, imprime un segno nella pagina bianca perché possa farsi domanda altrui, perché la domanda possa trasferirsi, perché questa solitudine possa passare oltre. Dio non deve tornare, lo si nomina solo per renderlo cosciente di dove il tormento delle domande ci hanno gettato.Dove ora vivo, la notta incompiuta/ del cuore umani, non tornare, Dio,/ cogli angeli del vento, a tormentare/ il mio sangue veggente. Il tuo mistero/ è la mia vita. Già non ho fratello/ che mi comprenda. Ogni mistero è solo/ nel sangue che lo espresse – Io sono fermo/ sopra il mio cuore d’alga, e ascolto il mare –”.

L’uomo allora è il suo mistero, il nodo della verità ci sta arrotolato nei globuli del sangue. Ci scorre impietoso dentro, chiede e continuamente chiede di essere espresso, fino a farci dimenticare il nome, fino a smettere di farci nominare.

Clery Celeste

Gruppo MAGOG