31 Maggio 2020

“Per svelare l’imbroglio degli azzurri che fingono la grandezza, fingono l’infinito”. Scrutando il cielo: da Aristotele a Patrizia Cavalli

Una costante proiezione comune: la lingua del cielo, cerulea o biava, che autostradale ognuno si percorre a suo piacimento. In questi giorni il contrappunto collettivo è un ricatto ottico a cui tutti siamo sottoposti: la pulsione a scrutare la variazione nel cielo, a caccia di un indice che decifri la muscolatura di quest’epoca immobile. Ci perseguita l’analisi del mutamento sullo schermo in cui cambia per tutti, quotidianamente, la puntata. Dalle case, dai terrazzi, dalle finestre: continua ad accadere. Per Aristotele, il cielo, non è altro che la sostanza naturale, incorruttibile, collocata nell’ultima orbita dell’Universo (De caelo, 278 b 11). Come tale, non essendo sottoposto alle leggi imperiture di generazione e corruzione che afferiscono alla materia sublunare, il cielo lungamente ha designato ciò che non muta. L’aeternus imperniato nell’immutabilità poteva essere decriptato, nell’Antica Roma, solo dall’augure, decifratore del volo degli uccelli, la variazione nell’identità azzurra. Perfino Tito Livio, nell’Ab urbe condita libri, riporta che nessuna decisione prebellica poteva essere intrapresa senza l’analisi del cielo e dei suoi segnali da parte di questi sacerdoti.

Caro ad una tradizione che va da Tasso a Leopardi, il cielo, fuoco centrale, viene sbobinato in mille pellicole da Patrizia Cavalli che gli consacra, nel 1981, un libello dal titolo omonimo. Questa silloge (Il cielo, Einaudi, 1981) si inserisce in una strana koiné poetica post-avanguardista, quella degli anni Ottanta. Fra strascichi e fantasmi, piombo fuso e altri libertini, hanno visto l’esordio, fra i vari, Magrelli con Ora Serrata Retinae, Pagnanelli con Dopo e Patrizia Valduga con i suoi Medicamenta. In questa raccolta, sin dalla poesia proemiale, entra in campo ex abrupto un lessico inequivocabilmente avviluppato ad una certa tradizione filosofica: “quella nuvola bianca nella sua differenza/ insegue l’azzurro sempre uguale:/ lentamente si straccia nella trasparenza/ ma per un po’ mi consola del vuoto universale”. In quattro versi sono compendiati tre lemmi come differenza, uguale e universale. La raccolta dunque è inaugurata da una dialettica che oscilla tra permanenza e stabilità, tra il cielo fisso e la nuvolaglia incastonata (ma passeggera) che animerà il corso dell’intera storia del libro che si consuma nell’andamento repentino, quasi sempre monostrofico, di sessantasette componimenti. Fin da subito Cavalli sembra puntare sull’inganno dell’identità di cui si fanno portavoce gli azzurri, denunciandone l’ingannevole sembianza d’eterno:

fra tutte le distanze la migliore possibile
è quella di un tavolo di normale grandezza
di ristorante per esempio o di cucina
dove è possibilmente io possa raggiungerti
ma in verità non lo farò.
E fuori la stessa luce di ieri, lo stesso azzurro
aprono altre distanze
e chiedo alla gentilezza delle nuvole
di intervenire, meglio grigie che bianche,
per svelare l’imbroglio degli azzurri
che fingono la grandezza, fingono l’infinito,
la luce effimera – la ladra.

(Ivi, p.87).

*

Gli azzurri delatori camuffano sotto mentite spoglie il giogo dell’infinito e, per questa ragione, Cavalli non cede alla tentazione parmenidea di allegorizzare il cielo con l’identità immutabile dell’essere, riconducendolo alla natura corruttibile e mutabile delle nuvolaglie. Questa mobilità che nega la possibilità di predicare la stabilità identitaria del soggetto-cielo è il contraltare della volatilità metereologica degli amori convocati a corte da Patrizia Cavalli: “ti ho appena toccato e ti ho già tradito. / Non incolpare me, incolpa il mio vestito”. Questione d’acquazzoni, di piogge torrenziali: il passaggio contingente di due corpi, l’uno nell’altro, eppure causato da una necessità liquorea e di ambigua normatività, si tratteggia bene in questi versi:

Che orrore immaginare due corpi
che fanno l’amore presi da necessità
che qualche cosa avvenga
si compia e poi sfilacciati
da una soddisfazione si ricompongono
nella loro apparenza.
Preferisco quel metro di distanza
Dove vedevo l’eterno mare scuro
calmo silenzioso.

(Ivi, p.79)

Patrizia Cavalli, con una certa perentorietà, rifugge qualsiasi gioco ontologico che abbia a che fare con la permanenza dei corpi, denunciando all’occorrenza la falsa identità fosse anche di una sedia: “Ah smetti sedia di essere così sedia! / E voi, libri, non siate così libri! / Come le metti stanno, le giacche abbandonate./ Troppa materia, troppa identità./ Tutti padroni della propria forma”. (L’io singolare proprio mio, p.193). Scaltra in questo, il poeta non è padrone della propria forma, ne è consapevole. Straborda ed esonda dai limites di ciò che genericamente si indica come soggetto: “sto qui ci sono e faccio la mia parte. / Ma io neanche so cos’è questa mia parte./ Se lo sapessi/ potrei almeno uscire dalla parte/ e poi sciolta da me godermela in disparte”. (Pigre divinità e pigra sorte, p.6). Per questa ragione, in tutta la raccolta Il cielo, non si fa altro che sovvertire il principio di mobilità universale, corrodere “la replica ossessiva degli uccelli”, non badare così a nessuna promessa di luce: “Questa volta non lascerò che l’azzurro intravisto/ e visto da dietro la finestra, dal margine di un tetto/ all’altro, nell’unico grandioso spiegamento/ della ripetizione, trasportando lo sguardo oltre/ ogni limite oltre la visione delle distanze/ tentazione e ricatto di leggerezza o movimento/ questa volta/ non lascerò che mi corrompa nella promessa della luce”. (Ivi, p.97). Se viene spodestato, il cielo, dalla sua possibilità di essere cifra dell’immobile, quindi portatore augurale di segni e destini, si svuota irreversibilmente di qualsiasi meteorologia semantica: la dialettica tra cielo e nubi non viene risolta, non può essere riportata a nessuna chiarezza di evidenza. A noi, in questa nuova quotidianità, rifunzionalizzati scrutatori del cielo, appollaiati sul bordo della finestra, Cavalli lascia la possibilità dello sguardo cavo (“a metà strada fra grazia e disgrazia/ il mio sguardo non spazia/ oltre i tetti di ogni mattino/ oltre lo stupido celestino”) o, al massimo, la postura strafottente e andante del gatto di cui parla il poeta:

Ha preso un’aria strafottente
come chi ormai conosce
altri mondi e a questa vita
comoda e tranquilla
non ci crede più.

(Ivi, p.89)

Pietro Polverini

*

Edizioni citate:

Patrizia Cavalli, Poesie (1974-1992), Torino, Einaudi, 1997. (Questa edizione contiene rispettivamente le raccolte: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), Il cielo (1981), L’io singolare proprio mio (1992)
Patrizia Cavalli, Sempre aperto teatro, Torino, Einaudi, 1999
Patrizia Cavalli, Pigre divinità e pigra sorte, Torino, Einaudi, 2006

*In copertina: planisfero celeste di Frederik de Wit, XVII secolo

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