03 Marzo 2019

“Ci sono alcuni che hanno nelle mani raggi di sole”. La vera storia di Helen Keller, “Anna dei miracoli”, la sordo-cieca che ti cambia la vita

C’era un armadio di legno in fondo alla classe. Periodicamente, la mia professoressa di lettere ci invitava a scegliere il libro che avremmo letto. Il ricordo è vago, come i titoli di quei vecchi classici stipati e ingialliti, le pagine stanche, percorse dalle dita delle mani di diverse generazioni di studenti. Conservo, però, il ricordo, chiaro e nitido, di aver rapito da lì la storia di Helen Keller. Penso di essere stata attratta dal libro grazie al nome che suonava familiare, simile a quello di mia sorella, Elena. Il libro, La storia della mia vita, edizioni paoline – da cui è liberamente ispirato, con qualche licenza espressiva, il film in bianco e nero Anna dei miracoli, 1962, regia di Arthur Penn, tra i molti riconoscimenti anche il primo Oscar della storia ad una minorenne Patty Duke – mi impressionò così fortemente che, a distanza di tanti anni, ne ricordo ancora molte poetiche sequenze. Chiunque, con una certa dose di arroganza, si accinge a scrivere le proprie memorie dovrebbe leggere questo luminoso, ardimentoso, memento per attingere, alle sue umili fonti, il significato stesso dell’esistenza. Le sue luci, le sue ombre, il suo silenzio, la sua voce.

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“Mi accingo con un certo timore a scrivere la storia della mia vita – si legge sulla prima pagina – Provo una specie di superstiziosa esaltazione al pensiero di sollevare il velo che avvolge la mia infanzia come nebbia dorata”. Helen Keller era nata il 27 giugno 1880 a Tuscumbia, nel nord dell’Alabama. Dal lato paterno un’ascendenza svizzera e, tra i suoi antenati, misteriosamente, il primo insegnante di sordomuti a Zurigo. La primissima infanzia assomiglia a quella di molte altre bambine fino al momento in cui, a diciannove mesi di vita, “una congestione acuta dello stomaco e del cervello” le strappa la vista e l’udito, per sempre. Al giorno luminoso e colmo di parole, i campi verdi, gli alberi, i fiori, le rose, era seguita una lunga notte, la sua muta nebbia. La fioca luce della speranza teneramente albeggiava nel cuore della madre che stringeva tra le mani American Notes di Dickens. “Aveva letto il profilo di Laura Bridgman e ricordava vagamente che, pur essendo cieca e sorda, era stata rieducata. Ma ricordava pure con angoscia disperata che il dott. Howe, che aveva scoperto il modo di insegnare ai ciechi e ai sordi, era molto da parecchi anni”.

Nell’incontro con la maestra, la signorina Anne Mansfield Sullivan, un pomeriggio di primavera, il 13 marzo 1887, Helen scorge le prime luci di un’alba della conoscenza. “Siete mai stati sul mare in una nebbia densa che sembra imprigionare, dentro una notte bianca, quasi impalpabile, il transatlantico che cerca di raggiungere la costa a tentoni, servendosi degli scandagli e di segnali telegrafici mentre voi attendete col cuore palpitante per il timore di tutto quello che può accadere?”. La piccola Helen inizia, con la guida dell’insegnante Anna, a scandire le parole, a scoprire un alfabeto, parola dopo parola, con il fremito della ricomparsa di un pensiero sopito, il mistero del linguaggio. Le parole possono donare il mondo, creare la gioia, risvegliare l’anima. “Quale che sia questo processo, il risultato è sempre meraviglioso. Man mano che si procede nella conoscenza dei nomi delle cose, si supera, un passo dietro l’altro, la distanza che separa il nostro balbettio da un alato verso di Shakespeare”. Scoprire il linguaggio è acqua nel deserto, è attingere alle oscure fonti dell’irrazionale, è tornare bambini, ritrovare chi eravamo, prima dell’oblio. Nel film, la scoperta dell’acqua avviene in una cieca foga scatenata, nell’autobiografia è pura dolcezza proustiana. “Ci avviammo al sentiero che conduceva al pozzo, attratte dalla fragranza del caprifoglio che lo ricopriva. Qualcuno attingeva l’acqua, e la maestra mise la mia mano sotto il getto, poi, mentre la corrente fresca mi scorreva sulla mano, scandì sull’altra la parola “acqua”, dapprima lentamente e poi sempre più presto. Io stavo lì, immobile, tutta intenta al movimento delle sue dita. All’improvviso ebbi l’oscura percezione di qualcosa di dimenticato e mi si rivelò il mistero del linguaggio. Capii che “a-c-q-u-a” significava quella frescura meravigliosa che scorreva nella mia mano. Le parole vivificatrici risvegliavano l’anima mia, la illuminavano, la allietavano, le donavano la speranza. Le barriere c’erano ancora, è vero, ma col tempo sarebbero state abbattute”.

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Anne Bancroft durante la lavorazione di “Anna dei miracoli”, per cui ottenne il premio Oscar nel 1963

L’apprendimento è frutto dell’amore, ma non è facile insegnare/imparare il significato della parola amore. “Per i sordi e per i ciechi è molto difficile cogliere le amenità della conversazione. Tanto più difficile è per chi è cieco e sordo ad un tempo! Costui non può percepire le inflessioni della voce né seguire la gamma delle varie tonalità e non può neanche vedere l’espressione del volto dell’interlocutore, che tanto spesso è l’anima di quel che dice”. L’insegnante è chi riesce a far notare il bello, destare la meraviglia, ovunque si trovi, con amore e dedizione. Anche su una piccola lavagnetta braille. “Capiva che la mente di un bimbo è come un ruscello che scorre e spumeggia sopra il letto petroso dell’educazione, riflettendo qua un fiore, là un cespuglio, laggiù lo sfioccare di una nuvola, e cercava di incanalare la mia mente sulla retta via”.

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Una luminosa pagina ritrae il legame simbiotico tra Helen e la sua maestra, che riflette, per estensione, tutti gli ideali rapporti insegnante-allievi, che si innestano su un legame principalmente amoroso: “Se tutti i maestri possono tenere i bambini nelle aule scolastiche, non tutti riescono ad insegnare. Il bambino non lavora con gioia se non ha la sensazione di essere libero di occuparsi o di riposarsi quando crede: deve provare l’ebbrezza della vittoria e lo scoraggiamento della disillusione prima di intraprendere spontaneamente un compito sgradevole e decidersi a destreggiarsi bravamente attraverso la banalità dei libri di testo. La maestra era tanto unita a me che raramente io pensavo qualcosa per conto mio. Quanto il mio gusto per la bellezza sia innato e quanto sia dovuto al suo influsso, non saprei dirlo. So solamente che il suo essere è indivisibile dal mio, e che le orme della mia vita ricalcano le sue. Il meglio di me appartiene a lei. Non c’è talento, aspirazione o gioia in me che non siano stati risvegliati dal suo tocco amoroso”. A dieci anni, nella primavera del 1890, la piccola Helen, a dieci anni, imparò a parlare. È forse questo il ricordo più forte che il libro trasmise a me bambina pressappoco coetanea della protagonista. La prigione di un pensiero che non si può esprimere è un carcere durissimo. Quando Helen seppe che Ragnhild Kaata, una giovane norvegese cieca e sorda, aveva imparato a parlare, non si diede pace, fino a quando la maestra la condusse dalla signorina Sarah Fuller, direttrice della scuola “Horace Mann”. Il metodo prevedeva il toccare con mano: passare la mano sul volto e mostrare la posizione della lingua e delle labbra quando queste emettono il suono. Catturare il mistero del linguaggio. “L’anima mia, che usciva dal carcere con la coscienza di aver acquistato una nuova forza, stava per raggiungere, attraverso quella frammentaria parvenza di linguaggio, la scienza e la fede”. Potersi esprimere, senza bisogno di ricostruzioni interpretative, di passaggi forzati, era una liberazione.

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Helen Keller (1880-1968) nel 1904

Un giorno Helen scrisse un racconto Il re delle nevi (The Frost King), molto apprezzato dalla sua famiglia e dai maestri, tanto da essere pubblicato negli annali dell’Istituto Perkins. Ma il raccontino era pericolosamente somigliante ad un libro L’uccellino ed i suoi amici (Birdie and his friends) della signorina Margaret T. Canby. L’accusa di plagio fu una ferita tagliente per la giovane Helen e la sua miss Sullivan, subire un interrogatorio feroce da una commissione d’inchiesta angosciante. Così, dalla paura di scrivere qualcosa che non le apparteneva, Helen iniziò a tracciare per iscritto la sua vita, rivolgendosi dentro di sé, rievocando gli episodi della sua vita, descrivendo la potenza della natura, come le cascate del Niagara, senza averla mai veduta. Uno tra i punti più scoperti, dove i nervi sono a fior di pelle, è il rapporto con la normalità, il confronto, talvolta lo scontro, con le ragazze normali. Quando Helen scopre di avere le carte per frequentare l’università, prova la tentazione di essere normale. “Un impulso incoercibile, più forte della persuasione dei miei cari, più forte anche del timore del mio cuore, mi aveva spinto a misurare le mie forze con quelle delle ragazze normali. Sapevo che quella via era irta di ostacoli, ma volevo superarli. Sentivo nel mio cuore le parole di quell’antico Romano che disse: «Esser bandito da Roma è meno che vivere fuori Roma»”. Ma presto Helen scopre la solitudine anche nel cuore dell’aula universitaria, la mancanza di tempo, il professore lontano, come se parlasse per telefono. Soltanto gli strumenti che descrive la Keller sembrano datati, nella sua prosa cristallina e semplice, quando parla delle macchine da scrivere (la Hammond), ti chiedi quali siano gli strumenti che usano oggi un cieco e un sordo. Chissà se sono ancora oggi “pochi” i libri di testo stampati per i ciechi. “Quando entro in quello che era il regno dell’intelligenza, mi sento come il famoso toro nella bottega cinese. Le nozioni più svariate scosciano a migliaia nella mia testa come una furiosa grandinata”. E ancora, definizioni luminose dell’abisso della conoscenza: “Si fruga nel proprio bagaglio di nozioni storiche come si cerca un pezzo di seta in un sacco di cenci”. Se hai in giro pochi libri, ma l’ardore di conoscere le armonie della vita, non fai che consumare i tuoi pochi libri, fino a quando smettono di dire e le pagine si decompongono, sotto il logorio delle avide dita. “Cominciai con pochi libri scritti in rilievo. Li lessi e li rilessi fino a quando le parole si consumarono e si schiacciarono diventando indecifrabili”. La gioia della conoscenza non può che nascere dalla purezza scandita della sofferenza più atroce e inevitabile. “Ho il rimorso di aver ascoltato con impazienza le spiegazioni della signorina Sullivan. Quando le sue dita diventarono troppo stanche per scandire altre parole, per la prima volta in vita mia mi resi dolorosamente conto della mia minorazione. Presi in mano il libro e cercai di sentire le lettere con un desiderio così cocente che non potrò mai dimenticarlo”.

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Il silenzio non è che isolamento, dolorosa privazione, che produce lo sforzo titanico della parola. Quante persone – in modo diverso, in senso diverso – si trovano sfortunatamente e talvolta, coscientemente, si vogliono trovare davanti a quella porta? “Io sono in attesa dinnanzi alla porta sbarrata della vita: al di là c’è la luce, la musica, la dolce compagnia dei miei simili, ma non posso entrare perché la sorte, silenziosa e spietata, mi sbarra il passo”. Dal buio sa sgorgare la luce anche per chi non può vedere: “io cerco di trasformare la luce che c’è negli occhi altrui nel mio sole, la musica che c’è nelle loro orecchie nella mia sinfonia, il sorriso delle loro labbra nella mia felicità”. Che cosa dicono di noi le nostre mani? Che cosa tengono celato al nostro stesso cuore e alla nostra ragione? Forse Helen Keller è stata in grado di penetrare questo mistero. Ci sono sempre quelle persone che si mettono a parlare, con ipocrisia, delle nostre capacità, cercando l’asticella, trovando una lancetta che scandisce la normalità. Oggi si brama ovunque la normalità, la difficoltà sostituita dalla parola bisogno. Non si usa più la parola minorato. “Le mani delle persone che incontro sono silenziosamente eloquenti. Il tocco di certe mani è impertinenza. Altri sono così privi di gioia che, toccando le loro dita gelide, si ha l’impressione che una tempesta polare ci scuota le mani. Ci sono alcuni, invece, che hanno nelle mani raggi di sole, al punto che la loro stretta mi scalda il cuore. Nella morsa tenace di una manina di bimbo c’è per me tanta luce quanta ne trovano gli altri in uno sguardo amoroso”. Ma che cosa è uno sguardo amoroso agli occhi di un cieco? Come distingue l’inganno, l’ombra del nostro corpo e delle nostre mani? Il libro si richiude come un armadio nell’abbraccio degli amici, l’amore è il dono per eccellenza, l’anello d’argento che suggerisce e compie una mancanza, sana la ferita. “Così i miei amici hanno costruito la storia della mia vita, trasformando le mie minorazioni in privilegi con mille espedienti escogitati dal loro cuore generoso e mettendomi in grado di camminare serena e felice all’ombra della mia minorazione”.

Linda Terziroli

Gruppo MAGOG