19 Giugno 2018

Ci mancava l’ennesima, patetica orazione di fra’ Roberto Saviano. Lo scrittore feconda il futuro, è contro tutti e costruisce Roma sulle betulle

Il bene non ha mai portato bene alla letteratura. Cos’è il bene, d’altronde? Quando sento parlare di bene, automaticamente, volto il corpo altrove. Il male nasce perché c’è qualcuno che si è convinto di fare il bene. C’è chi vuole fare il ‘bene degli Italiani’, chi il bene dei migranti – tutti mirano in fondo al proprio, al proprio bene. In questa palude di beni privati e di privazione del bene primario, l’intelligenza, quando leggo uno scrittore che scrive, “L’Italia sta vivendo la sua ora più buia, preda di una destra xenofoba e di un partito populista disorganizzato”, mi domando se chi scrive sia uno scrittore o l’ennesimo scrivano prestato alla politica, con l’invidia di un ruolo ministeriale da Ambasciatore della Buona Morale. L’invettiva di Roberto Saviano pubblicata su L’Espresso, punta tutto sul registro patetico (“non si fa campagna elettorale sulla pelle delle persone, sulla pelle di 629 persone…”), per ottenere lo stesso effetto di chi dileggia – Salvini – cioè ottenere consensi, lettori, fan. La retorica del cinismo (i migranti sono brutti&cattivi, i rom sono tutti sporchi&ladroni) ha la sua equivalenza nella retorica del piagnisteo (poverini, chi vuol lasciare in balia dell’oceano tanti sfigati e tanti bimbi, quanto è bella la diversità). Risolto, risolutamente, in un narcisismo imbarazzante (“Io sono l’esempio vivente di cosa significhi essere del sud e occuparsi di sud: significa dare fastidio”, e giù applausi, ma cosa ne sa Saviano – io sono l’esempio vivente – di tanti cronisti che per aver svelato le stronzate di uno o più Sindaci locali hanno perso il ruolo giornalistico e il saluto dei vicini, senza profluvio di consensi pubblici?), Saviano ci impone la solita domanda: qual è il ruolo dello scrittore in questi tempi, scriteriati (come tutti i tempi dacché l’uomo è eretto)? Secondo Saviano la “stragrande maggioranza” dei “colleghi scrittori” – colleghi, collegati, già dà l’idea dell’idea burocratica, statalista, stalinista della scrittura secondo Saviano – “ha deciso che quello che accade in questo Paese non può avere effetti su di loro, sui loro scritti e che la letteratura non si può sporcare con dichiarazioni sul qui e ora”. Magari. Secondo me, infatti, i “colleghi scrittori” di Saviano si occupano troppo del qui e ora, e comunque pubblicano libri troppo brutti per essere veri, per essere letti. Il fatto, di fondo, è che il compito di uno scrittore, che non può prescindere dal qui e ora, non è esprimere un parere, l’ennesimo, sul qui e ora. Gli scrittori, di solito – e Saviano ne è la testimonianza somma – hanno opinioni da bar sul qui e ora. Che ca**o vuoi che dica uno scrittore sulla vicenda dell’Aquarius? L’ennesima minchioneria perché – e lo dico anche io, con tutto il cuore inscatolato nel pathos – chi vuole il male del prossimo?, non certo io. Sul qui e ora lo scrittore non ha voce in capitolo, perché la sua voce è quella, appunto, dello scrittore, mica dell’opinionista prezzolato. Lo scrittore scrive. Scrive storie. Che dal qui e ora fecondano il domani, creano l’assoluta profezia. L’ennesima declinazione dell’oggi, pur con sfarfallio retorico, è involuta puttaneria. La sconcezza dell’ovvio. Del qui e ora va detto il cuore, indicibile, la sovrana sporcizia, l’incapacità di gioire di fronte a un corpo primaverile e al cospetto del bastione di nuvole che bendano il cielo, la barbarica demenza di chi preferisce una ‘professione’ all’ammirare il cerchio giottesco del falco, a mezz’aria, eretto dallo scampanio della chiesa, a lato. Tutto ciò che dà sviluppo a una ‘professione’ a una ‘professionalità’, compreso il “lavorare sull’accoglienza e renderlo un settore virtuoso”, come vuole fra’ Saviano, è vizio del mercimonio, sistema delle merci, stipendio fisso. Roba che fa venire il vomito. Lo scrittore deve rivestirsi della gratuità, sottomesso alla propria personale grazia, e perforare il potere come una spada. Che questo potere prenda il volto barbone di Salvini, quello da faina di Di Maio o quello un po’ imbecille di Martina, è uguale. Lo scrittore non vuole bonus, non vuole patti. “Esprimere un parere significa schierarsi e spesso schierarsi significa non stare dalla parte della maggioranza e se non si sta dalla parte della maggioranza si perdono lettori e telespettatori”, scrive Saviano, con la tronfia sicurezza di un ministro – dimenticando la regola viziosa, l’unica: il fascino, per chi scrive, di stare con i perduti, di aiutare i caduti a rialzarsi per poi fargli lo sgambetto quando stanno sul trono. Palle, palle, palle. Lo scrittore può schierarsi solo per se stesso, re nel deserto del proprio talento, responsabile di ogni verbo, dimentico delle sue creazioni. Al caos si reagisce con la forma, realizzando l’opera indimenticabile – benché suffragata dal dileggio – benedetta dal bello, che è più sano del buono. Dissanguando l’uomo dal malvagio, dedicandosi alla spietatezza – verso di sé, soprattutto. Quanto al resto, lo sappiamo. Non basta dirottare una barca o fare la ‘voce grossa’. I continenti scalpitano. Agli occhi del resto del mondo l’Europa è un corpo di bue agonizzante. Qualcuno ha assestato i primi morsi. Il pasto cominci. Ricostruiremo Roma e Atene sulla cima delle betulle. (d.b.)

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