01 Giugno 2020

Christo: l’uomo che ha immaginato l’inimmaginabile, ha estratto l’anima dalle pietre e non ha avuto paura dell’enorme. Un ritratto & un ricordo di Tiziana Cera Rosco

Per prima cosa c’è la parola apolide. A cui segue l’aporia dell’identità. Forse è per questo che impacchettava i monumenti, per riprodurre la forma formandone un’altra, profonda. Come estrarre un’anima dalla pietra – ostentare l’invisibile e la sua ostinazione. Ripetere una parola, un nome, insistendo sulla consonante più acuta, ruotandola. Penso al viaggio, a piedi, di Constantin Brâncusi, all’esilio di Iosif Brodskij, al vagabondaggio di Paul Celan, a quello di Milan Kundera e di Vladimir Nabokov. Il trasferimento da Est a Ovest complica l’alchimia linguistica: bisogna trasferirsi con un esercito di millenni, monolite dentro monolite. Così, Christo Javacheff, nato nel giugno del 1935 nei Balcani bulgari, a vent’anni è a Praga; poi da Praga va a Vienna; poi a Parigi; poi – dal 1964 – negli Stati Uniti, dove sosta e muore, a New York, è noto. Come il riassunto di un millennio in un millimetro: figlio di un chimico, industriale di successo, il piccolo Javacheff è, come tutti, membro della gioventù comunista, apprende il rigore artistico del realismo. A Parigi – dove diventerà amico di Arman, Yves Klein, Jean Tinguely – faceva ritratti, firmandosi Javacheff. La moglie – Jeanne-Claude Denat de Guillebon – la conosce così: stava facendo il ritratto della madre, s’innamorò della figlia. Ma a Praga Klee e Matisse gli avevano uncinato gli occhi – sempre (leggete sotto) un’opera è l’attraversamento di molteplici altre, un artista è uno che si inginocchia.

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The Floating Piers, 2016

“Il mio lavoro è la cosa in sé. Se vogliamo, è politica in sé. Avete idea di cosa può voler dire ottenere i permessi per impacchettare il Reichstag? Convincere Mister Kohl e tutto il Bundestag? Costringerli a votare qualcosa che non esiste ancora, se non nell’immaginazione?”. Così ad Alessandra Mammì, su ‘L’Espresso’, il 14 settembre 2017. Javacheff diventa Christo tra il 1958 e il 1961, impacchettando oggetti. L’oggetto, cioè, viene avvolto in un sudario, in un sepolcro. Se lo spacchetti, risorge, rinnovato e ritrovato. Ma è nell’attesa l’espressione: dell’oggetto, il feto, la fatalità.

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Immaginare l’inimmaginabile significa convertirsi. Immaginare che un luogo possa cambiare volto, anzi, adattarsi a un altro voto – ogni cosa è sidone di chi la guarda. Quindi: avvolgere a Roma, nel 1974, il tratto di muraglia arcaica tra via Veneto e Villa Borghese, Porta Pinciana; rendere il Reichstag, nel 1995, qualcosa di fragile come un sussurro. I progetti sono meditati a lungo – vent’anni, il Reichstag – d’altronde dell’immobile e del saturo, del ‘potere’ viene estratta l’entità diafana, fragile, redenta. Altre volte si creano spazi inediti, come il Valley Curtain in Colorado; le coste australiane, a Little Bay, Sydney, avvolte nel 1968 sono una resa agli angeli, il monte del Purgatorio.

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Bisognerebbe parlare anche dei progetti falliti, pensati fino al passo supremo, disatteso. Tutte le volte che Christo è morto, intento. Il crollo è altrettanto importante.

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Wrapped Reichstag, 1971-1995

Non avere paura dell’enormità: credo che anche questo appartenga a un destino. Pensare che le isole di Biscayne, a Miami, possano essere cintate di fucsia, era il 1983 – non si tratta di un approccio estetico, ma andare all’estero di sé. Che l’arte, cioè, sia anche una impresa, un avvenimento nell’avventato. La scelta del luogo richiede un amore tale da spazzare ogni convenzione topografica. Così, The Floating Piers, i ponti fluttuanti sull’Iseo, con linearità geometrica da architetto di alcove per beati. Era il 2016. Ciò che appare ‘naturale’ – un segno perfino delicato, giallo – è l’esito di un lavoro ossessionante, dove pazienza e costanza sono gli altri polmoni della creatività. In affetti, Christo avrebbe potuto anche svuotare il lago – a noi sarebbe parso facile, come uno schiocco di dita, come si rovescia la pietra del sepolcro. (d.b.)

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Il 3 luglio 2016 Tiziana Cera Rosco attraversò l’opera di Christo compiendo un’altra opera, una comunione, infine. Ecco cosa ne ricavò.

C’è una frase che ha sempre accompagnato il mio lavoro, «Ogni opera d’arte è di una solitudine infinita». La frase è di Rilke, lo stesso poeta che scrisse che l’amore è fatto di due solitudini che si custodiscono, si delimitano, si salutano.

Ed è con questo spirito che ho intrapreso questo «passaggio».

Quando l’opera di Christo è comparsa mediatamente ne ero quasi delusa. Tanta filosofia e astuzia per vedere un carnaio di persone che si accalcava a qualunque ora del giorno e della notte per farsi una passeggiata tra selfie, panini e calzoncini corti, in giorni torridi che emanavano odore solo al pensiero. Cosa che mangiava ogni attrazione critica e detonava completamente l’idea che io ho di opera. Ossia l’esposizione di un punto di universo che si comunica tramite silenzio (e da quel silenzio riforma un linguaggio comune da cui l’opera può essere letta). Poi c’è stato un episodio: stavo guidando e appuntavo vocalmente col telefono alcuni pensieri circa i gesti di attraversamento di un corpo, quando mi arriva una mail con una foto dell’opera di Christo vista dall’alto. È stato come uno shock addizionale che ha cambiato la valenza morfologica dell’estetica che assorbivo dall’immagine del progetto in generale. Si è aperto un livello di comprensione, forse – non lo so –, ma è arrivata un’idea performativa (termine che sopporto mal volentieri, ma lasciamolo). Per prima cosa l’arancione: colore potentissimo in tutte le simbologie, colore del legame, dell’affetto verso il mondo dei legami. L’ho visto per la prima volta vuoto, The Floating Piers. L’opera lasciata sola. Da lì mi ha parlato.

Tiziana Cera Rosco attraversa l’opera di Christo; photo Alex Astegiano

Ho sempre lavorato con lenzuola (e con l’idea di errore, deposizione, perdono, pulitura), ossia con materiali che prevedono dei corpi distesi, che giacciono su e che per me sono, verticalmente, l’immagine più vicina alla preghiera, anche laica. Lo dico senza cultura. La prima sensazione che mi è arrivata è stata quella di camminare su quel ponte fluttuante in silenzio, con la mia gonna lunga fatta appunto di lenzuola. un movimento semplice e disarmante, camminare sola su un’opera solitaria. Camminare con una gonna nera, lunga: 7 lenzuola nere, che mia madre ha cucito per me (il 7 vuole solo richiamare il 70 volte 7, ossia il numero infinito del perdono). Ho immaginato di attraversare il pontile come una specie di abluzione, ripulendo l’opera dai rumori che inevitabilmente assorbe. Dal chiasso. Dalle cose che si sopportano quando si rende disponibile un lavoro. Un piccolo e semplice rito di cura bonificante.

Certo io non sono nessuno per fare questa cosa. Sono solo una che dalla mattina alla sera lavora con questi significati e cerca di mettere in contatto la sua isola (anche per salvarla da uno sprofondamento) con la terraferma del mondo. Cerca un ponte, la formazione di un linguaggio per quel ponte. Un lavoro inutile, per lo più. Ma è la parte di dialogo di cui sono titolare e cerco di assolverla come posso.

Così questa che ho intrapreso è una performance di attraversamento. È un’opera che cammina su un’altra opera, percorrendola, avendo fiducia di poterci davvero camminare su, galleggiando su un abisso. Insomma, un’opera attraversata da un’altra opera. Possiamo discutere mille anni su cosa sia un’opera e ciò non cambierebbe la valenza di questo gesto, almeno per me. Un artista come Christo realizza delle vocazioni artistiche che sono visioni collettive. E in questo caso, mettendo in contatto territori come terraferma e isole, compie un gesto ancora più significativo e soprattutto comprensibile (fino al populismo), comprensibile anche dalle nostre psicologie a buon mercato come dalle nostre solitudini meno codificate.

Il gesto è quello di riuscire a camminare dove altri affonderebbero. E non fa questo l’arte? Cammina dove altri potrebbero annegare, e permette attraversamenti. Con un legame assurdo tiene molti più equilibri di quelli che disfa.

Ed è questo che ho desiderato: camminare sulla possibilità che l’arte rappresenta cercando di togliere rumore. Non per calpestarla nel senso dispregiativo della parola, ma per attraversare lo spazio della comunicazione pura che l’opera è. Nella performance ho il viso annerito e le mani sporche, perché per ripulire non siamo così ingenui da pensare che non ci si faccia carico anche di un petrolio pesantissimo di cui tutti siamo portatori con le nostre ambiguità e sporchi di senso.

Ho fatto questo col mio modo e col mio limite, che è un modo e un limite lirico, perché tengo al soggetto e alla persona nella sua solitudine come punto di universo che può cantare (e qui ancora Rilke quando dice che «canto è esistenza»).

La lunga gonna nera, che assorbe e pulisce sul ponte fluttuante arancione, ha la sua voce silenziosa, come una nota allagata su una piattaforma che la regge.

È anche un ringraziamento, perché con una voce, che non è solo la mia, ma una relazione che permette la voce, è come se potessi ringraziare le opere che mi hanno permesso negli anni di sentirmi espressa attraverso il lavoro di altri (che io non posso assolvere e che mi accompagna come colloquio con l’umanità), adempiuta nelle parti di me, anche minime, che faticavano a vivere, quelle sottovuoto che prendendo fiato mi hanno permesso di salvare la mia di isola, di non lasciarla affondare nell’inconsistenza della non espressione o nell’oscurità delle cose che ancora non riesco a realizzare e che mi minacciano con la loro potenza vitale.

In fondo queste due opere di attraversamento si somigliano nel loro intimo.

Sono due solitudini che si custodiscono, si delimitano e si salutano.

Non penso di avere un compito migliore oggi se non questo lavoro di incontro da cui si generano linguaggi. E questo mano mano mi aiuta a capire cos’è l’amore.

Tiziana Cera Rosco

*Il testo è stato originariamente pubblicato su “Alfabeta 2” come “Attraversare un attraversamento”

**In copertina: Tiziana Cera Rosco sull’opera di Christo, 2016

 

 

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