04 Novembre 2019

“A Mosca mi elogiavano per ogni verso che scrivevo”: su Vladislav Chodasevič, il poeta della notte europea, del candore nella tragedia

Vladislav Chodasevič il 7 gennaio 1917, al davanzale, durante una tremenda gelata, aveva appena finito la poesia Negli affanni d’ogni giorno… iniziata il 14 dicembre dell’anno prima, “d’un tratto odo il crepitio di un fuoco / che mi fa chiudere gli occhi”, quando gli entra in casa Geršenzon, suo amico e maestro, cioè così riportano le note di commento scritte da Chodasevič stesso sulla copia personale di Nina Berberova dell’opera Raccolta dei versi, stampata a Parigi nel 1927. Una scena, quella dell’arrivo di Geršenzon a ultimazione di poesia, che si ripete dopo pranzo il 17 dicembre del 1917: Chodasevič  aveva appena finito la poesia Sogni, “pure mi è chiaro che un nuovo riflesso / riverbera ora su tutto”, quando gli entra in casa Geršenzon, felice, raccontando del decreto sulla nazionalizzazione delle banche, e al ripetersi della scena, questa variazione allo stesso tempo piccola e gigantesca della stessa dinamica, sembra di trovarsi in uno dei giochi dell’eternità di Antonio Moresco, in cui è difficile stabilire cosa viene prima e se viene veramente prima e cosa dopo, ammesso venga dopo sul serio, e allora le note diventano i cartelli più affidabili nella terra di confine per definizione che è la poesia, e l’apparato delle note alla raccolta Non è tempo di essere di Vladislav Chodasevič, per la Bompiani, a cura di Caterina Graziadei, è tutto da leggere, e non me la sento di dire s’è stato più trascinante leggere le poesie di Chodasevič o se le note alle proprie poesie scritte da lui o gli altri scritti di Chodasevič recuperati dalla Graziadei per raccontare le poesie di Chodasevič. Quando tra te e il poeta c’è chi traduce dalla lingua del poeta alla tua, passando per la sua, sua di chi traduce intendo, la poesia di chi si sta leggendo? E qui non mi riferisco solo alle lingue nazionali, al russo e all’italiano, ma alla lingua che ognuno di noi ha sia anatomicamente nel palato sia, in senso appena appena più lato, nella propria mente: ancora, sono tutti piani in movimento, l’instabilità continua sulla quale Moresco fonda i suoi romanzi colossali e tremolanti.

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Chodasevič scrive in un’altra lingua, ancora di più: in un altro alfabeto. Stare davanti all’originale di una poesia di Chodasevič per me è in parte come stare davanti a un quadro di Joan Miró, e se nel caso di Miró, nel trascriverne il nome, la cura sta nell’accentargli per bene la ó, provatevi voi a trascrivere correttamente e in originale il nome di Vladislav Felicianovič Chodasevič:  Владислав Фелицианович Ходасевич. Quali scarabocchi comporrebbe la mano non arresasi alla protesi della tastiera e al suo processore di parole elettronico con tutti i font utili e che ti dispensa da tutto, ti dispensa dall’imparare a scrivere. E come faccio a dire se mi sono attardato più sui primi quattro versi del 18 novembre 1906, “Solo, fra le anse del fiume, / allo stridìo di attardate gru, / oggi di nuovo apprendo/ la muta sapienza dei campi”, o se quando, tra le note, c’è quella del luglio 1923, e si parla della birreria di Berlino, dove andava spesso con Belyi: “Mariechen, bruttina, cagionevole, ricordava in qualcosa Nadja L’vova. Belyi si ubriacava, ballava con lei”. E Nadja L’vova chi è? È una poetessa morta suicida, nel 1913, e questa nota è di postilla alla poesia An Mariechen, “Che fai là, fissa al bancone della birra? Ti si è forse appiccicato?/ Qui servirebbe una ragazza di piglio, / e tu sei pallida e smunta”. Dai sapienti campi russi alle appiccicose bettole tedesche? Tra il 1906 e il 1923 ci sono stati: amori, divorzi, altre fughe d’amore, altre rotture e separazioni, rivoluzioni, emigrazioni, successi, foruncolosi, lauti pasti, indigenze, le stampe clandestine, le nuove liriche, la storia di un uomo incastonata nella storia di un paese, di tutta un’epoca, e di un uomo che si è voluto poeta e che quindi della poesia ha la sensibilità e la malattia, la superbia e la grande miseria. Lo stesso poeta che riporta la reazione alla lettura della sua poesia Un episodio, nel gennaio 1918, “suscitando il ‘tempestoso’ entusiasmo di Vjačeslav Ivanov (con levata di braccia al cielo). In seguito, a motivo di questi versi, gli antroposofi non mi davano più tregua”, e che nella nota alla poesia In riunione scrive “A Mosca mi elogiavano per ogni verso che scrivevo”, dal 1927 decide di smette di essere poeta, incarna la figura dell’intellettuale russo emigrato, studia Puškin e pubblica recensioni e articoli sui quotidiani: Chodasevič è morto, il poeta Chodasevič, Chodasevič è vivo, l’intellettuale russo emigrato Chodasevič, come lo sbirro D’Arco di Moresco in Canto di D’Arco: attraversa la città dei vivi e la città dei morti e la città di confine tra la città dei vivi e la città dei morti perché non si è mai del tutto vivi e basta, del tutto morti e basta (anche se Chodasevič poi muore del tutto il 14 giugno del 1939, come scrive Graziadei nella nota biografica: “Macerato da un cancro non diagnosticato per tempo, il poeta muore dopo lunghi tormenti, quando viene tentata una tardiva operazione, il 14 giugno 1939”).

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Del 27 novembre 1916 è la poesia Al Parco Petrovskij, della sezione Per la via del grano, la prima de La raccolta dei versi, quindi la Notte europea, terza sezione dell’opera, è ancora lontana, eppure nella poesia Al Parco Petrovskij c’è la prefigurazione della notte che sta arrivando, che è già arrivata: Chodasevič è in auto, è l’alba, vede un uomo impiccato nel parco Petrovskij, il parco dei ricordi d’infanzia, Chodasevič ci andava a giocare accompagnato dalla njanja, bisogna far attenzione, non si può tradurre njanja con balia o tata, la njanja è una istituzione russa, è un fuoco della cultura russa, Chodasevič passa in auto all’alba con Anna Ivanovna e Igor’ Terent’ev e vede l’uomo impiccato nel parco Petrovskij della sua infanzia. Nella letteratura russa non mancano gli impiccati. La prima che mi viene a mente: la bimba violata da Stavrogin, che s’impicca nel capitolo censurato de I demoni, romanzo pubblicato nel 1873 ma che verrà stampato con il capitolo censurato, inserito in appendice, solo nel 1926. La bimba impiccata di Dostoevskij e della letteratura russa mi rimanda alla letteratura italiana e a Antinisca, allora, “la bambina che si era impiccata a una trave due o tre appartamenti sopra il mio, e che incontravo ogni giorno sull’ascensore”, così Antonio Moresco in Lettere a nessuno, ma la bambina impiccata attraverserà molte opere di Moresco, come un trauma. La violenza di un trauma ha la poesia Al Parco Petrovskij di Chodasevič, che viene dopo Dostoevskij e prima di Moresco, ammesso in letteratura tengano le coordinate del prima e del dopo. Nella poesia di Chodasevič l’impiccato senza nome è un uomo che indossava un cappello, prima, “Era nero il cappello / rotolato sulla sabbia”. Chodasevič ricorda fosse immobile il corpo dell’uomo impiccato a una cinghia sottile: “Pendeva, senza oscillare”: quanto tempo prima è successo, allora? Per quanto tempo è rimasto esposto e abbandonato a sé stesso quel corpo offeso? Tutta la notte? Ci deve essere voluta tutta la notte per calmare il dondolio della cinghia scossa dalle convulsioni, dal dolore del soffocamento. Quel corpo deve essere rimasto lì per tutta la notte e solo adesso, mentre il sole sorge, comincia a attirare dell’attenzione. “Sotto, la gente s’affollava / in un cerchio ammutolito”. Allora quanto in alto si trova il corpo immobile dell’impiccato? A quale ramo di quale albero di quale altezza? Chiude Chodasevič: “Era quasi invisibile / la cinghia sottile”. Per chi non distingue a colpo d’occhio la cinghia nella luce granulosa dell’alba, dunque, in un primo momento, l’uomo impiccato deve essere parso un uomo sospeso in aria: un uomo impiccatosi al cielo con una corda d’aria. Un uomo immobile, sospeso tra la sabbia del parco dell’infanzia e il cielo all’alba, morto. La notte stava arrivando, la notte era appena arrivata, la notte arriverà, la notte si era capovolta nell’alba, l’alba si capovolgerà nella notte, Moresco nei suoi romanzi prova a instillare poesia scrivendo centinaia di pagine invece che i pochissimi versi scelti, e Chodasevič passando in auto guarda un uomo impiccato e senza nome e, prima che al secolo accadesse di nuovo e per la prima volta tutto quello che ci è successo, il dandy russo Chodasevič, l’ammalato umiliato costantemente dalle sue infermità Chodasevič, scrive una poesia su un uomo impiccata dal niente, nel niente.

Antonio Coda

*In copertina: Vladislav Chodasevič (1886-1939), il poeta prediletto da Vladimir Nabokov

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