Sono un coglione. Patentato perlopiù. Un pivello. Un quaquaraquà. Un lattante. Mi era stato spiattellato sotto gli occhi e non l’ho “visto”. Dovevo nasarlo – la canappia ce l’ho, così come la militanza a teatro, oltre 30 anni – invece un c*o, forse perché distratto dalla piacevole e amorevole compagnia della serata. Sta di fatto che avrei dovuto capire e invece…
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Un anno fa, esattamente il 22 febbraio. Al teatro “Galli” di Rimini danno Il grande silenzio diretto da Alessandro Gassmann. Scrivo che si esce che la mezzanotte è vicina e che le mani sono ancora calde per gli applausi: merito degli attori, su tutti Massimiliano Gallo (sua la parte del protagonista, lo scrittore Valerio Primic) e Monica Nappo (Bettina, la cameriera, davvero bravissima), ma anche di Stefania Rocca (tutto sommato ben calata nella parte di Rose, la moglie) e degli interessanti Paola Senatore e Jacopo Sorbini (i figli della coppia; quest’ultimo abilissimo a caratterizzare, con mossette del corpo e una vocetta macha, l’omosessualità del ragazzo). L’intercalare dei personaggi – nonostante il cognome della famiglia, che potrebbe portare verso la Jugoslavia – accompagna il pubblico a Napoli. La stanza della tortura, il luogo in cui si svolge la vicenda, è lo studio dello scrittore, pieno zeppo di libri forse mai letti: servono a dare un tono all’autore, ad avere una certa credibilità. Soprattutto, e con immensa amarezza, ai suoi occhi. La prigione ben sigillata da un velo che è stato posizionato sul boccascena, parete ma allo stesso tempo tavola di scrittura su cui vengono proiettate, in chiusura, le immagini dei protagonisti. Una storia vera di una famiglia come tante: un uomo, infelice nonostante il successo di vendite delle sue opere, una moglie che ama più la posizione sociale che la famiglia, la figlia Adele, che convive con il complesso di Elettra e si rifugia in relazioni con uomini più maturi sino a rimanere incinta, il figlio Massimiliano, che si tuffa in un progetto ambizioso, rilevare un teatro per aiutare un attore (e forse drammaturgo) di cui si è invaghito, e che rappresenta, de facto, la proiezione del genitore assente. Potrebbe sembrare un testo pesante e invece, grazie alle intuizioni del regista, alla densità della tristezza fa da contraltare una serie di battute comiche che alleggeriscono – ma senza sminuirne il pathos – il progredire dell’azione. Non infastidiscono alcuni cliché dialogici, né tantomeno la fossilizzazione della scena (tra il primo e il secondo atto sono state ripulite le scansie su cui era stato riposti i libri): in fondo la vita è fatta spesso di luoghi comuni.
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Ultima recensione prima della chiusura. Letta oggi, me ne vergogno quasi. Un anno senza teatro: era già chiaro quella sera. Il grande silenzio. Viva il teatro. E v*o al virus, alle mascherine, ai guanti e al distanziamento sociale. Dove andiamo la sera a riluccicare gli occhi, a fare pensieri impuri, a giocare alla “caccia al tesoro” nei bagni dei teatri dopo aver rassicurato la maschera di turno con un “è caldo, ha avuto un lieve mancamento, un po’ d’acqua ed è tutto a posto” a cui segue una sveltina elegante e non sempre preventivata, a sbirciare nelle scollature, ad avere un argomento da spiattellare agli amici il giorno dopo previo incipit da brividi (“Non sai cosa ti sei perso ieri sera. Bellissimo”)?
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“La vita è fatta spesso di luoghi comuni?” Stronzate: il teatro è un luogo comune, uno spazio per una comunità che ospita uno spettacolo per un pubblico. E da quando li hanno inchiavati a causa della pandemia – come se lì o al cinema il Covid fosse di casa – è calato il sipario.
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Per dodici mesi ci siamo evitati le cagate proposte e spacciate per capolavori – se non applaudi allora vuol dire che non apprezzi allora non hai capito l’arte e il necessario senso di appartenenza che sottende il clap clap finale – e le fragranze che si incontrano quando siedi in platea: sugo di pomodoro, sudore, piedi puzzolenti, profumi cipriosi da vecchie baldracche piene di spleen nelle rughe, odore di…
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#IoStoConFranceschini. Se teatri e cinema sono chiusi al pubblico ad libitum, il Festival di Sanremo non può essere esente: l’Ariston si chiama “teatro” e anche se Amadeus e la Rai hanno sbattuto i pugni spiegando che sarebbe diventato uno studio televisivo, la legge è la legge. O si dà il “libera tutti” oppure tutti a casa. Ne facciamo anche a meno di Sanremo, degli invitati Vip che sembrano pinguini, dei loro cachet, di quello che dicono.
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La chiusura dei teatri ha avuto benefici indubbi: orcodiòna se ne ha avuti. In primis: le pippe intellettualoidi di alcune compagnie che per sembrare innovative – sono anni che a teatro non si inventa più una ceppa – fanno a pezzi i classici. “Ho voluto zoomare quel personaggio perché…” ti raccontano con voce impostata e recitata (come se avessero un palo nel c*o), talvolta in falsetto. O con tonalità baritonale, per farti capire la gravità degli accenti e degli accidenti e la profondità della loro ricerca. “Ho voluto indagare la psicologia di quel personaggio che l’autore ha lasciato a latere del testo drammaturgico perché…”. Cocco, porca troia, se per il poeta è una figura di contorno ci sarà un motivo: fa parte degli orpelli e non è l’asse del dramma. Lo capisci o no? Scavare per scavare, meglio farlo nella terra, vanga in mano e zappa. Almeno lei ti dona qualcosa.
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Poi si è passati dalle improbabili sfilate nei foyer e dalle poderose dormite del pubblico – ogni spettacolo vede qualcuno che si appisola, fa parte del gioco –, dai culi generosi appoggiati sulle poltroncine o sugli sgabelli e che dopo due ore si appiattiscono e fanno male (a chi li porta in giro e a chi li vede) a una “passerella” più salvifica di tute da ginnastica, bastoncini da nordic walking, felpe e scarpette sportive che innervano città, paesi e campagne. Sederi in primo piano, “pacchi” e tette che ballano nonostante la mancanza delle canzoni di Sanremo. Un miracolo. Avremo meno cultura, forse, ma il corpo ringrazia.
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Il teatro è un vizio. All’inizio è dura e andresti con le unghie sui muri. Poi piano piano ti abitui e scopri che in fondo non si sta così male.
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Il vantaggio: ci siamo evitati manciate e manciate di spettacoli di merda. E pazienza se le compagnie rompono le palle e si lamentano dei pochi ristori, dell’assenza di una calendarizzazione delle repliche dei lavori che hanno creato, della visibilità e degli applausi da foche addestrate. Oggi il teatro, ci dice con chiarezza il Covid, non è più un bene necessario. E forse non lo è più da tempo: a memoria, l’ultimo grande spettacolo che ho ammirato risale a tre anni fa, il Macbettu in sardo, scritto e diretto da Alessandro Serra. Ne ricordate altri?
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La crisi pandemica ha fatto chiudere aziende di produzione, negozi, esercizi pubblici. Non è grave se qualche attore o qualche regista rinuncia allo spazio che gestisce a causa dei rubinetti pubblici sigillati: possono sempre riconvertirsi e mettersi a fare altro. Non è doloroso se i giornali smettono di pubblicare le notizie: la pubblicità arranca, le penne interessanti anche, i contenuti idem. Per quanto mi riguarda, qualcosa troverò. Se Alessandro Carli non scrive più, il mondo va avanti lo stesso. Con più slancio.
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La chiusura dei teatri ha messo al mondo una nuova generazione di potenziali registi. Il vantaggio: ti scegli tu il testo da leggere e poi puoi immaginare le scene, gli attori, i tempi, gli intervalli. Non durano mai più del dovuto: quello che i registi acclamati o sperimentali raccontano in due ore di stracciamento di maroni (l’abuso del tempo dedicato al teatro provoca l’orchite), tu lo dici bene e meglio in cinquanta minuti. E hai più tempo libero.
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Me ne strafotto degli sfogatoi degli artisti, dei loro cachet “alti” per andare in scena, del vuoto lasciato dalla mancanza dei cartelloni, delle circuitazioni azzerate. Ho visto oltre 3 mila spettacoli dal vivo: 50 capolavori, il resto se la giocano lavori più o meno discreti e tantissime minchiate, la maggior parte. E dopo un anno di nulla sono ancora vivo. Quando si ripartirà ci troveremo un’abbondanza cacofonica di spettacoli sulla pandemia, sulle restrizioni che hanno dovuto sopportare le compagnie, sulle seghe che ci si è fatti mentre tutto era chiuso, sulle riflessioni sui massimi sistemi, su come la società ha vissuto il silenzio della drammaturgia, su come ricominciare a raccontare l’attualità, su come siamo usciti dilaniati e modificati nei tratti somatici e i comportamenti, su come Shakespeare avrebbe vissuto l’epidemia, sulle api che hanno ricominciato a volare e a produrre miele (meno macchine ergo meno inquinamento), sulla rinnovata pratica di fare il pane in casa, sul lavoro agile che ha fatto schizzare alle stelle le separazioni – quanti matrimoni andati in “malòrsega” a causa della convivenza obbligata e quindi dell’impossibilità di vedere l’amante –, sulla scuola italiana che ha capito di essere rimasta ai tempi di Carlo Codega. Materiale da triturare per bene, da indorare di parole e da offrire in pasto ai lupi famelici, troppo a digiuno dalla “passerella” dell’io c’ero a teatro (anche se lo spettacolo che ho visto non era chiaro e ho fatto fatica a seguire la trama).
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Non lo portano in scena quasi più, il testo si trova integrale senza troppi problemi in Rete anche se il cartaceo è sempre meglio (lo pubblica Einaudi a circa 10 euro e non è ingombrante, anzi, è un librino piccolo). La cantatrice calva di Eugene Ionesco, un ottimo viatico per iniziare a diventare registi della mente. Basta anche solo la didascalia iniziale: poche parole che accendono il fuoco e ti fanno spiccare il volo lì dove le aquile miopi della drammaturgia di oggi non osano (Ionesco chiama poco pubblico, meglio andare sull’usato sicuro, Goldoni, Molière, il Bardo). “Interno borghese inglese, con poltrone inglesi. Serata inglese. Il signor Smith, inglese, nella sua poltrona e nelle sue pantofole inglesi, fuma la sua pipa inglese e legge un giornale inglese accanto a un fuoco inglese”.
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I teatri riapriranno, prima o dopo, e io tornerò a sedermi in platea, felice di cominciare quel vizio assurdo pur sapendo l’assurdità del gesto. Ho bisogno di partecipare perché è l’ultima libertà che ci ha lasciato Giorgio Gaber. So che non avrò imparato La lezione, tanto Ionesco non lo cagano più.
Alessandro Carli
*In copertina, foto anni Sessanta di G. Proietti e C. Bene