26 Giugno 2022

Chiudiamo le scuole, inutili allevamenti di schiavi

Nelle dinamitarde Considerazioni Inattuali Friedrich Nietzsche martellava il sistema educativo tedesco prendendo di mira i dotti del suo tempo – farisei della cultura, sterili biblioteche ambulanti, epigoni ripetitori di pensieri altrui, inerti mostri appesantiti da dati, saturi di indigeribili contenuti, senza amore eunuchi. Giovanni Papini – che pure nel suo Il Crepuscolo dei filosofi all’Apolide non risparmierà feroci strali – fa un passo in avanti.

Per avvedersene è sufficiente leggere la serie di saggi dei primi del ’900 pubblicati col titolo di Chiudiamo le scuole! – intestazione che riprende il contributo più significativo della raccolta. D’altronde Papini – l’uomo che credeva di essere finito – è nato postumo come il Viandante giacché, se da una parte anticipa nozioni pedagogiche che ancora appaiono ideali irrealizzati, dall’altra è avanguardista, per non dire utopista, avventuriero della proposta, rivoluzionario per impeto, vitalista della parola, scheggia sul potere e visionario – postumo, appunto. Nei primi saggi della miscellanea, pubblicati prima del 1914, l’autore ritiene che ogni ordine di scuola debba essere completamente rivisto all’insegna di un principio di cui oggi spesso ci si riempie retoricamente la bocca: libertà di insegnamento e libertà di apprendimento. Già, perché per Papini i professori non dovrebbero essere obbligati a presentare sempre gli stessi programmi imposti dall’alto e gli alunni – specialmente a livello universitario – non dovrebbero essere forzati a seguire tutte le lezioni.

I voti poi, non dovrebbero esserci – solo giudizi; né dovrebbero esserci esami – se non per accedere al lavoro. Gli studenti dovrebbero scegliere e presentare periodicamente a professori e compagni delle tesine. I docenti dovrebbero guidarli nelle scelte bibliografiche e dovrebbero giudicare le loro relazioni. Ogni studente potrebbe studiare, a piacimento e per tutto il tempo ritenuto necessario, discipline di diverse facoltà universitarie. Chiunque – in ogni momento – potrebbe provare a passare l’esame per accedere alla professione.

Le biblioteche dovrebbero essere rivoluzionate: i libri, ordinati in grandi sale per argomenti e autori, dovrebbero essere facilmente consultabili. Le università dovrebbero in un certo senso essere biblioteche e le biblioteche università della libera ricerca. Queste e altre innovative idee sono state elaborate allorquando al potere c’era il pragmatico Giolitti e ci si dirigeva – dopo la crisi di fine secolo e l’autoritarismo di Crispi – verso un cauto riformismo avente come presupposto l’appoggio della corrente meno estrema del PSI alla linea tiepidamente progressista del celebre “ministro della malavita”. Ma lo scenario non era certo solo questo ed era in costante mutamento. Mentre ci si avvicinava alla prima grande guerra, oltre al variegato movimento cattolico, divampava in ambito extraparlamentare il nazionalismo e, per molti versi in sintonia con esso, il futurismo – nonché a sinistra, oltre all’anarchismo e al marxismo, il sorelismo e il sindacalismo rivoluzionario.

Il vivaio culturale era animato da riviste letterarie quali Il Leonardo (Papini, Prezzolini), La Voce (ancora Papini, Prezzolini) e, in seguito, Lacerba (Papini, Soffici). Il Vate arringava le folle; il plurisecolare Impero Turco cedeva i territori libici all’Italia; Dino Campana scriveva Il più lungo giorno; Emanuel Carnevali fuggiva in America; Mussolini, da anima della sinistra più radicale, si apprestava, sulla scorta di Sorel e di Nietzsche, a elaborare una nuova piattaforma politica; Marinetti e sodali ambivano a marciare per non marcire; Papini – con Soffici, Prezzolini e altri – si impegnava a contestare il moderatismo imperante, il pensiero liberale di Benedetto Croce e un certo immobilismo politico incapace di far fronte alle sfide inaugurate dalla novella società di massa. Gli scontri sociali, la crisi economica, la stessa caduta di Giolitti e l’ascesa di Salandra, lo scontro tra interventisti e neutralisti, la settimana rossa e – spartiacque titanico ed epocale – l’incombente prima guerra mondiale: la fine della Belle Époque. Ecco la costellazione dove brillano in Italia astri che sono oggi solo sogni. Le idee di Papini sono in questo cielo un attacco frontale al sole.

Lo scrittore – con piglio avanguardistico – non si limita infatti a proporre riforme, ma ben presto bombarda con le parole le Istituzioni, re di stroncature stronca i non stroncabili, spezza le sacre tavole della giovane Italia riservando la più feroce verve iconoclastica proprio alla scuola – avamposto di Stato, propaganda, retorica e, ahinoi, dirà il Nostro, prigione. Attaccare la scuola per attaccare il sistema fino a giungere al decisivo invito a chiuderla era dunque un atto antiborghese, spariglio, scompaginamento, pro-vocazione rivoluzionaria. Così – quasi fosse uno schiaffo dadaista – Papini, dopo aver imbastito nei primi saggi proposte in fondo ragionevoli e ancora attuali, in una sorta di climax ascendente che si innesta perfettamente nello spirito del suo tempo abbandona i giri di parole e innesca il tornado. Nel saggio del fatidico 1914 Chiudiamo le scuole! queste ultime sono definite “bianche galere” dove giovani innocenti soffrono sferzati nel loro piacere, nella loro libertà.

Nelle scuole si patisce infatti l’immobilità fisica più innaturale alla quale fa da eco “l’immobilità dello spirito” che produce l’“annegamento sistematico di ogni personalità, originalità e iniziativa nel mar nero degli uniformi programmi”. La libertà nelle scuole è ristretta, artificiale – è qui che milioni di giovani “si rovinano gli occhi, i polmoni, i nervi”. D’altronde – a dispetto della retorica progressista – la civiltà non sarebbe mai venuta fuori dalle scuole, ma “dalla ricerca solitaria e disinteressata”, magari “pazzesca” di geniali autodidatti. La scuola, scrive l’agitatore, sclerotizza il sapere, ritarda e ostruisce le più importanti riforme intellettuali; non inventa: trasmette. E trasmette male perché dissecca, distorce i cervelli; soddisfa “bisogni pratici e prettamente borghesi” e affranca i genitori dai loro figlioli; i quali, una volta inscatolati, saranno alla mercé del “pensiero dominante” secondo cui ciò che conta è la “posizione”, la “carriera” – quella stessa ambita dai maestri che, oltre a svolgere una professione ritenuta allora nobile, possono godere della “sadica voluttà di annoiare, intimorire e tormentare impunemente (…) qualche migliaio di bambini o di giovani”. I maestri, d’altronde, non sono affatto felici. Difatti ripetono per anni gli stessi mantra diventando più “imbecilli” e “immalleabili” di quanto fossero all’inizio:

“poveri aguzzini acidi annoiati, anchilosati, scoraggiati che muovono le loro membra ufficiali e governative soltanto quando si tratta di avere qualche lira in più tutti i mesi!”

Lo Stato, dal canto suo, dalla scuola guadagna un battaglione di servili impiegati che tira su direttamente. Intorno alla scuola cresce il capitale, l’interesse – e con esso una pletora di burocrati intimoriti, subordinati. In fondo, annota l’incendiario, si impara solo “dai grandi libri e dal contatto personale con la realtà”. Sì, perché è nella realtà che ognuno dovrebbe inserirsi scegliendo “quel che gli è più adatto” invece di sottostare a una incessante “manipolazione disseccatrice”. Questa condanna senza appello deriva dalla sfiducia generale di Papini nel mondo moderno:

“Fino a sei anni l’uomo è prigioniero di genitori, di bambinaie o di istruttrici; dai sei ai ventiquattro è sottoposto a genitori e professori; dai ventiquattro è schiavo dell’ufficio, del caposezione, del pubblico e della moglie; tra i quaranta e i cinquanta viene meccanizzato e ossificato dalle abitudini (terribili più di ogni altro padrone) e servo, schiavo, prigioniero, forzato e burattino rimane sino alla morte”.

Ed ecco ancora l’invito alla vita: “lasciateci almeno la fanciullezza e la gioventù per godere un po’ d’igienica anarchia!”. La frusta del poeta schiocca esplicitando idee coerenti con l’orizzonte vitalistico e con un certo “anarchismo reazionario”; idee che, nondimeno, alimentano e diffondono spunti propri del pragmatismo americano – e ancora prima dell’intuizionismo bergsoniano secondo cui la vita è un contradditorio ed eterno fluire che spetta all’uomo, in un eroico slancio vitale, carpire dall’interno, intuire, penetrare. Per lo scrittore infatti la sapienza consiste nell’azione che conduce a fare a pugni con i limiti – nella volontà che precede, inaugura l’esegesi. E se la scuola non frequenta il travaglio della vita, quando se ne esce, “occorre un faticoso e lungo noviziato autodidattico”.

È proprio perché estranea alla vita che per Papini la scuola cerca di inculcare principi non insegnabili; e lo fa male poiché “insegna a tutti le stesse cose nello stesso modo e nella stessa quantità” non tenendo conto delle irriducibili differenze tra le persone. D’altra parte si impara meglio in due, praticando la dialettica – la lezione frontale è figlia di un tempo in cui i libri erano rari e la cultura non era accessibile ai più. Tutti quelli che hanno combinato qualcosa nel mondo sono stati cattivi scolari – viceversa, “i mediocri che arrivano nella vita a fare onorata e regolare carriera e magari a raggiungere una certa fama sono stati spesso i “primi” della classe”.

La vera intelligenza bisogna ricercarla tra gli analfabeti, tra chi s’incammina per strada errabondo. Nelle scuole – patria del moralismo – non c’è autentica moralità e l’unica sincerità è “la parete delle latrine”. Il climax ha compimento: non si tratta certo di ripensare la scuola, ma di raderla al suolo e, ancor di più, di chiudere bottega in tutti i casi in cui ci sia un uomo che pretenda di insegnare qualcosa. Resta solo la vita – abissi ed errori, coraggio, amore, odio e dal fondo parole che sanno di sangue (Nietzsche). E se questo accadrà, pian piano si ritroverà la via del sapere. Genialità libertà salute gioia – “l’anima innanzitutto”, la cosa più preziosa. E così sarà: tutti pensionati: docenti e funzionari – “purché lascino andare fuori i giovani dalle loro fabbriche privilegiate di cretini di stato”. Ora che l’uragano ha polverizzato coi suoi vortici avanguardistici la cristalleria della retorica istituzionale, non resta che domandarsi: cosa avrebbe detto Giovanni Papini, quest’uomo in-finito, delle nostre scuole? A voi la risposta.   

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