Nei giorni di caffeina e scoliosi in cui lavoravo a questo articolo mi sono accorto che nella galassia delle riviste online un confronto tra Moresco e Rushdie già c’era. Il mio primo pensiero, donchisciottesco, è stato quello di bruciare le carte, anche se stavo scrivendo al computer, ma poi ho pensato che se non era plagio scrivere una recensione a un libro già recensito, non lo era nemmeno scrivere una doppia recensione a due libri già recensiti tramite doppia recensione, così come, spostandosi dai critici agli scrittori, non è plagio riscrivere un classico, mentre altrove un altro collega sta facendo, o ha appena fatto, lo stesso.
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Le parole contro le cose
Ne Le parole e le cose Michel Foucault scrive, parafrasando alla buona, che il don Chisciotte va a scaraventarsi malamente contro il mondo, perché la scrittura e le cose non si somigliano più. Se è davvero così, oggi come nella Spagna secentesca, chi vive di parole, come lo scrittore, e di parole è fatto (in ogni senso), non ha altro destino che quello d’incidentarsi contro la vita, di fallire l’ovvio, di complicare il pane quotidiano, di allungarsi la strada e infine di perderla.
Dal cieco Omero in poi, che esonerato dal militare la guerra se la cantò e suonò da solo, sembra che l’unico vero privilegio concesso allo scrittore non sia la Musa, sempre scostante, cioè mestruale, ma il dono di non saper vivere.
Due campioni di donchisciottismo, biografico e letterario, sono senza dubbio Moresco e Rushdie, che nei mesi scorsi, quasi come due scolari impreparati, sembrano essersi scopiazzati l’immaginario a vicenda, uscendo insieme in libreria con due romanzi sul don Chisciotte, personalissimi e radicali riscritture del capolavoro di Cervantes ma ambientate nel mondo contemporaneo: l’agile e fulminante Chisciotte, edito da Sem, e il peso medio massimo cartaceo Quichotte per Mondadori.
A parte questa curiosa, ma assolutamente non casuale, convergenza di soggetti narrativi, Moresco e Rushdie sono accomunati da uno stile pantagruelico, megalomane per eccesso di generosità, sconsigliatissimo dunque presso qualunque scuola di scrittura ricreativa. Nelle loro pagine troviamo più aggettivi che sostantivi, più avverbi che verbi, l’abolizione programmatica del punto fermo che è spostato sempre un po’ più avanti da virgole, virgole e ancora virgole, come a scandire il ritmo delle onde di periodi oceanici.
Convinti fino alla morte, o peggio al ridicolo, che la scrittura letteraria sia ricerca senza fine, vuoto a perdere, e mai e poi mai stesura impiegatizia, narratologicamente corretta e commercialmente astuta, i due autori avrebbero certamente non poche cose da dirsi.
Purtroppo, dal momento che l’opera moreschiana non è ancora stata tradotta se non parzialmente in Francia, Rushdie continuerà, e noi gli facciamo le condoglianze, a pensare, come ha spesso dichiarato, che lo scrittore italiano contemporaneo più interessante sia la Ferrante, ma se questo incontro tra incendiati, per dirla neologisticamente con Moresco, non può avere luogo nella realtà, possiamo comunque adoperarci perché avvenga, per il momento, tra le loro recenti opere, a distanza di sicurezza.
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Il Chisciotte di Moresco: per una Repubblica onirica
In un istituto psichiatrico contemporaneo ma dai metodi prebasagliani, è rinchiuso il don Chisciotte di Moresco, scaraventato, come direbbe l’autore, nel nostro tempo, senza che nessuno, compreso il diretto interessato, sappia il come e il perché. Accanto a lui, per tenerlo d’occhio, c’è l’immancabile Sancio, infermiere vestito da trapper, tatuato, piercingato, e dai brutti capelli tagliati a zerbino, cioè tosati di lato e con una cresta setolosa sopra.
La notte, pascolando a vuoto tra le stanze del reparto, nel suo camicione bianco, Chisciotte riconosce negli ospiti forzati, completamente fuori come l’Inghilterra dall’UE, i suoi eroi letterari: la Dickinson seduta su un trono di water perché affetta da colite cronica, la Murasaki dal dolce sorriso nero e coi capelli lunghissimi a raggiera sul pavimento, Kafka che, da buon masochista morale, indossa mollette sulle orecchie, e poi Leopardi gobbo culturista eccetera.
Sabotato nei suoi sogni cavallereschi dalla camicia di forza di una realtà che o lo ignora o lo picchia, il don Chisciotte troverà il coraggio di fuggire dalla prigione bianca dell’ospedale psichiatrico grazie all’amore rivoluzionario per Dulcinea.
Pazza della porta accanto, la musa dell’Idalgo è stata traslocata in Ortopedia, dopo aver dato fuoco alla propria abitazione ed essersi scagliata, come una torcia, giù dalla finestra, nell’ardita convinzione che prima di perdere le gambe avrebbe guadagnato le ali.
Nella voliera del reparto ortopedico, in mezzo a corpi sospesi e ingusciati, Dulcinea è immobile ma muove tutto, con le sue gambe spalancate a mostrare il sesso, unica parte del corpo, insieme agli occhi, libera dall’albume dell’ingessatura. Mentre le monache sono intente a lavarla e a spazzarla là sotto, Chisciotte la vede, gliela vede, ma essendo vergine delle cose del mondo perché troppo occupato a rimuginare sulle cose del cielo, l’innamorato istantaneo scambia la vulva di lei per una bocca collassata anatomicamente, cadutale giù tra le cosce.
Quei «labbri», come li chiama lui, chiedendo spiegazioni a un intenerito e anche un po’ arrapato Sancio, non sono soltanto «una dolce bocca che lo chiama senza però emettere suono», ma anche un passaggio, una cruna sovratemporale, la porta per accedere, così gli dice Dulcinea, invitandolo a invaginarla, a un alto consesso, a un’adunanza di spiriti inquieti e perturbatori pronti a irrompere nel mondo, a insorgere, e di cui Chisciotte, folle dei folli, sarà il condottiero, prima lancia di una nuova Repubblica onirica.
Il progetto del Chisciotte, racconta l’autore in postfazione, non nasce, come per gli altri suoi libri, dalle ormai leggendarie scarpinate per Milano, notturne, concentriche e autoipnotiche, «succhiando un tronchetto di liquirizia e fantasticando», ma da una sogno cinematografico di Jonny Costantino, regista de La lucina.
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Al termine delle riprese, prima che salga sul treno, Costantino chiede a Moresco di recitare di nuovo in un suo film, Moresco sta per rispondergli col poliglottico gesto dell’ombrello quando l’amico, che conosce le sue ossessioni poetiche e non, lo convince così: «Sarebbe un film sul don Chisciotte».
Il romanzo è quindi una sceneggiatura irregolare, un pre-testo per un film che non abbiamo ancora visto, un film bizzarro, sperimentale, insolente, donchisciottesco appunto, e questo spiega la presenza, di tanto in tanto, d’indicazioni filmiche su movimenti di macchina e musiche di sottofondo, ma soprattutto giustifica l’assenza di quei periodi esplosi e incandescenti di pagine e pagine di merda e luce, che fanno di Moresco l’autore geniale che è quando ci si mette per davvero.
Insomma qui Moresco, in veste di sceneggiatore, lascia spazio al film, non riempie tutto, come al solito perché il suo compito, per quanto essenziale, è comunque gregario, o propedeutico a un’opera corale.
Spogliata, in parte, della tipica scrittura moreschiana che tutto può e tutto tiene, comprese le contraddizioni e le inverosimiglianze, l’opera rivela alcune ingenuità, non tanto per la pagina, comunque riuscita, ma per l’auspicato futuro lungometraggio.
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Intanto l’ambientazione, tutta in interni, è pericolosa per un film poco parlato e con attori non professionisti, c’è poi l’anacronismo di un Chisciotte conoscitore quasi accademico di tutta la letteratura dopo di lui, ma che non sa, ad esempio, cosa sia un clistere. Infine la rappresentazione dell’ospedale psichiatrico contemporaneo, per troppi versi simile a quello, ben più datato cronologicamente, di Qualcuno volò sul nido del cuculo, dove gli infermieri picchiano a morte i malati, è una scelta forte e parzialmente ingiustificata, per quanto metaforica, e va gestita con molta attenzione in sede filmica.
Verrebbe da pensare che il vero don Chisciotte moreschiano, scaraventato nel presente, non sia, o non sia ancora, questo, filmico e embrionale, ma per il momento resti il Matto di Canti del caos, re barbone, vagabondo delle stelle, incapace di capire quel che fa e dice e al contempo eroico, fronteggiatore, sconfinatore, sempre pronto all’adorazione e alla lotta.
Le parti migliori sono ancora quelle irriducibilmente letterarie, come il dialogo tra Chisciotte e il primario, un dialogo che, nella finzione cinematografica, sarebbe non a caso impersonato da Moresco e da Siti. I due scrittori, incontrandosi nella finzione filmica, enuncerebbero indirettamente le loro due visioni della letteratura e quindi del mondo e della vita stessa.
Da una parte il primario Siti, col suo nichilismo bonario e parzialmente autoassolutorio, seduto su un’altalena, consiglia a Moresco, rigido come un birillo nella sua camicia di forza: «Faccia come me. Non lo vede come è fatto il mondo? Bisogna prendere le cose così come sono, alla leggera, dondolare, dondolare…»
Dall’altra il matto Moresco, qualche pagina più avanti, parla alla luna come Leopardi e sembra rispondere al primario Siti enunciando ancora una volta il suo manifesto di superomismo onirico, la sua «risoluta volontà del sogno»:
«Oh… astro dei poeti, dei sognatori e degli sconfinatori, uovo di pietra trasfigurato dalla luce… Il mondo è perduto. Non c’è più eroismo, non c’è più grandezza, non c’è più amore. Sono rimasto solo io, il più disperato, il più solo… È tutto sulle mie spalle. Dammi la forza di non farmi irretire dalle forme cangianti del mondo, dammi la forza di non farmi incantare e pietrificare dalle sue immagini balenanti come sull’acqua nera e morta di un pozzo, dammi un po’ della tua candida luce che rischiara il buio in cui è sprofondato il mondo, perché, se crollo io, è l’intero mondo che crolla!»
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Il Quischotte di Rushdie: Nel mondo contemporaneo tutto è possibile, tranne il realismo
Il don Chisciotte di Rushdie, sedicente reincarnazione dell’ingegnoso Idalgo, è conosciuto, anzi è sconosciuto, da tutti col nome pleonastico di Mr Ismail Smile, dove il cognome è la traslitterazione in inglese del nome, e a parte l’animo buono, ha tutte le carte diagnostiche in regola per una carriera da assassino seriale.
Indubitabilmente folle, in quanto incapace di «distinguere ciò-che-è-così da ciò-che-non-è-così», il vecchio commesso viaggiatore ha le cervella contaminate dalla spazzatura televisiva, il cosiddetto trash. Lo ha assunto in modo così radicale e onnivoro, imbottendosi i circuiti nervosi di serie tv, reality show, insomma di tutti i colori del fluorescente escremento catodico, che ai suoi poveri occhi quell’antimondo ha preso il posto cognitivo della realtà.
Al pari di ogni irrispettabile mentecatto, presto Mr Ismail contrae un’ossessione, che però lui chiama missione, impossibile ma necessaria come una crociata: conquistare il cuore, e di conseguenza anche il reparto inguinale, della bella irraggiungibile Miss Salma R. (rielaborazione transessualizzata di Salman Rushdie), sorta di Oprah Winfrey made in Mumbai (al tempo Bombay), dai dolci seni proteici che sono il guanciale su cui tutta l’America poppa e dorme, sognando lei.
Solo e malinconico, pensa male d’inventarsi un figlio, fabbricandolo, secondo le istruzioni terrapiattiste del web, con stelle cadenti e ossa di pollame, un figlio in bianco e nero, visto solo dal padre, e chiamato, per sadica ed egotica coerenza, Sancho.
Affiancato dal suo scettico scudiero e senza alcun mezzo, tranne il lessico vetusto e le lettere d’amore scortese, Quichotte parte dunque all’avventura, cioè per non si sa bene dove, in giro tondo e inutile per un’America ostile, misogina, xenofoba e supertrumpista.
Rispetto all’opera di Cervantes, la liberissima riscrittura di Rushdie conta una differenza sostanziale, figlia dei tempi, e una pervasiva analogia, figlia dello stile dell’autore, e quindi già presente nei suoi lavori precedenti.
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Partiamo dall’analogia.
In pochi, al tempo di Cervantes, si resero conto, leggendolo e ridendo del, e non con, il povero cavaliere, che il Chisciotte è, prima ancora di una raccolta di sketch comici, un libro totale, un’enciclopedia parodica di tutti i generi letterari, l’epico, il cavalleresco, il sentimentale, il pastorale, il picaresco, e a partire dal secondo volume, uno straordinario esperimento di metaletteratura.
Nella seconda parte infatti tutti i personaggi hanno letto il primo romanzo, e quindi non solo conoscono il prode cavaliere matto, ma si divertono a recitare ciò che non sono, lasciandosi contagiare, per divertimento e spregio, dalla sua fantasmagorica pazzia: la realtà diventa dunque un prolungamento del sogno dell’Idalgo.
Anche Rushdie si dimostra, nel suo Quichotte, un virtuoso della metaletteratura. Pagina dopo pagina, il romanzo rivela la sua singolare struttura a matrioska, ogni contenuto è contenitore, ogni creatura è creatrice. Un romanziere fallito crea, a sua immagine e devianza, il Quichotte, il Quichotte crea il figlio Sancho, Sancho crea un grillo parlante, insieme al quale conversa, e nel crearlo si domanda se, laggiù, lassù o là dentro, qualcuno abbia creato suo padre, come suo padre ha creato lui, e se questa catena di cause causate possa mai avere fine.
Rushdie non è nuovo a queste architetture letterarie, anzi, si potrebbe dire che siano la più riconoscibile delle sue impronte stilistiche, ereditata dalla grande letteratura orientale, soprattutto indiana, dal Mahabharata al Ramayana, millenarie narrazioni infinite nelle quali i personaggi non sono raccontati ma raccontano, per mille giorni e mille notti, in progressive increspature romanzesche perché, per dirla con Shahrazād, o se preferiamo con il Baricco di Novecento, «non sei mai davvero fottuto finché hai una storia da raccontare e qualcuno a cui raccontarla».
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E ora la differenza.
Nel Chisciotte originale la scintilla narrativa nasce dalla contrapposizione tra falso e vero, allucinazione e realtà, dicotomie impersonate dai due protagonisti, in perenne duello dialogico, Chisciotte e Sancho: l’uno visionario d’impossibili mondi cavallereschi, l’altro coi piedi ben ceppati a terra, ovvero nella miseria del quotidiano. Laddove il cavaliere, senza macchia né senno, riconosce un’invincibile schiera di giganti, e parte alla carica, spronando il suo ossuto Ronzinante, Sancho vede, e con lui il lettore, solamente prosaici mulini a vento.
Nel Quischotte di Rushdie non siamo più nel seicento spagnolo ma nel presente globale, interconnesso, virtualizzato, nell’epoca del «Tutto-Può-Succedere»: nulla può essere predetto, né il meteo né la guerra né le tabelline né le elezioni, «uomini che impersonano presidenti alla TV possono diventare presidenti».
In un contesto epistemologico simile, in cui ogni distinzione tra reale e virtuale, fatto e fake news, è abolita, il realismo letterario è destinato all’anacronismo immediato, a descrivere oggi quel che domani sarà diverso, mentre il carnevalesco, barocco e confusionario, è forse l’unico modo rimasto per inseguire, asintoticamente, una descrizione accurata del mondo.
Come dichiara, autocriticandosi addosso, uno dei personaggi del romanzo: «Non sono certo un critico letterario, signore, ma ho l’impressione che lei voglia dire al lettore che il surreale e persino l’assurdo possono oggi come oggi offrire gli elementi più adatti a descrivere la vita reale».
Dall’assurdo di Cervantes quindi, inteso come tregua onirica dalla realtà, si passa a un nuovo assurdo, onnipresente, inarginabile, ultimo tentativo di descrivere, di afferrare, questo nostro mondo contemporaneo, dove tutto scorre, come le notifiche sul display del cellulare, e dove tutto è possibile, tranne il realismo.
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Le vite donchisciottesche di Moresco e Rushdie: il dono di non saper vivere
Ma prima ancora d’essere autori di riscritture, a mano libera e sognante, del capolavoro di Cervantes, Moresco e Rushdie sono stati, e in parte sono ancora, in prima persona singolare, singolare in tutti i sensi, dei don Chisciotte, cioè eroi delle lettere funestati da eventi tragici e al tempo stesso comicissimi, così assurdamente inverosimili che, del Chisciotte, potrebbero persino essere dei capitoli perduti.
Tal Moresco Antonio, a trent’anni, poteva vantare nel suo curriculum mortis di aspirante scrittore sotterraneo i seguenti gloriosi insuccessi: varie bocciature scolastiche, con accusa di idiotismo irreversibile da parte degli insegnanti, perlopiù preteschi, una vocazione disertata come aspirante sposo di dio e soprattutto dieci anni di maoismo militante, predicando la rivoluzione palingenetica, ma dormendo in case occupate su un materasso condiviso con moglie e figlia, che giustamente brontolavano.
Scriveva la notte, a penna, su quei fogli dai quadratoni delle scuole elementari, autorecluso in un cesso, il suo, perché moglie e figlia giustamente russavano, e allora lui, per non disturbarle, introduceva, tramite tentativi, errori e fracasso, il tavolo della cucina, su cui la famigliola mangiava, un giorno no e l’altro chissà.
Scriveva testi impubblicabili, inaccettabili, editorialmente repulsivi, su tizi loschi come lui, impegnati a nascondere omicidi e a scaraventare le frattaglie dei cadaveri sui muri delle finestre di fronte, o storie d’amore di giovani coppie, così incernierate sessualmente che camminavano per strada su tre gambe, rotolando come gli androgini del mito platonico.
Nei rapporti con gli editori era anche peggio: voleva sempre, scortesemente, il manoscritto indietro, non aveva il telefono, chiamava dalle cabine telefoniche, come i brigatisti, scriveva lettere di presentazione, di confessione, di elezione, ma poi non le inviava, e quando non gli pubblicavano le cose brevi lui, per ripicca, cominciava a scrivere cose lunghe, ionosferici archi narrativi a tutto globo, trilogie di mille pagine in corpo note a volume, anzi a capitolo.
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Mai stato giovane promessa e nemmeno solito stronzo, Moresco, quando infine riuscì a emergere per sfondamento, per sfinimento, per sconfinamento, era già un venerato maestro, donchisciottesco nei modi, nelle dichiarazioni e persino nell’aspetto, reduce da una lotta epica e invisibile di quindici anni coi mulini a vento di un’editoria kafkianamente chiusa, a ogni ora del giorno, della notte e della vita, una vicenda straziante e grottesca assieme, che oggi pare quasi una barzelletta da salotto letterario, ma che gli è costata, oggi come al tempo, proprio tutto, ma d’altra parte, come scriveva la Dickinson, tra le sue poetesse più amate, «Tutto – è il prezzo di tutto».
Se Moresco è donchisciottesco nella sua battaglia per essere pubblicato, a ogni costo e con ogni mezzo, a parte quelli più opportuni, come avere una laurea o fare tappezzeria, rigorosamente di tweed, presso i salotti letterari, Rushdie, quasi specularmente, è donchisciottesco per quel che gli accadde dopo la pubblicazione dei suoi Versi satanici, nel 1988.
C’è chi fu condannato a morte per aver commesso un omicidio, chi per aver rubato, chi per aver perso una guerra, chi, durante la Rivoluzione francese, perché troppo munito di brioches quando il popolo non aveva manco il pane, ma nessuno nella storia, prima di Rushdie, era mai stato condannato a morte per aver riso.
Nei suoi Versi satanici Rushdie commise il peccato capitale di applicare l’umorismo al sacro, trattò la religione per quello che è, ovvero un genere letterario, e come Cervantes coi poemi cavallereschi, ne fece la parodia, secolarizzando l’Islam e assoldando Maometto nel ruolo di maschera comica, attore non protagonista ma comunque candidabile agli Oscar.
Gibreel Farishta, il protagonista, mezzo indiano mezzo europeo e sempre mezzo ubriaco, sogna Maometto e l’origine dell’Islam, e una volta sveglio, invece di pregare o farsi mistico, decide di convertire il contenuto onirico in lucrosa sceneggiatura cinematografica per un film di serie Z, scegliendo per sé l’umilissimo ruolo dell’arcangelo.
Che il romanzo fosse satirico, e quindi andasse preso sul seri ma non seriosamente, lo avrebbe capito chiunque, applicando un minimo di alfabetizzazione funzionale. La vicenda, per dirne una, si apre con due tizi scagliati giù da un aereo, come Lucifero dal Paradiso, e nonostante la situazione perlomeno scomoda, questi parlano come nulla fosse, e uno dei due indossa persino una bombetta che non gli cade mai.
Ma questi dettagli narrativi il capo supremo religioso iraniano Khomeini non li colse perché probabilmente, essendo un uomo del fare, non aveva avuto nemmeno il tempo di leggersi tutto il libro. Condannò dunque a morte lo scrittore, per aver bestemmiato il Dio sedicente unico. Da quel momento in poi si verificarono una serie di fatti non del tutto piacevoli, come manifestazioni d’odio, volumi bruciati, spedizioni punitive, sensazionalismo mediatico, episodi di violenza e sacro, per dirla con Girard.
Vittima donchisciottesca di una folle crociata contro un uomo solo, lui, Rushdie, per alcuni anni, visse nascosto come i padri del deserto, gli assegnarono una scorta, cambiò più domicili che mutande, si ribattezzò, per sicurezza, Joseph Anton, e tutto questo non per essere stato, come Saviano, un eroe tragico espiatorio, ma per aver riso, per aver fatto un po’ il pirla, difendendo la fragile, sottovaluta e cervantianissima libertà di espressione comica, il diritto alla pernacchia contro tutto e tutti.
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Tutti i lettori sono Bovary, tutti gli scrittori sono Chisciotte
Moresco è donchisciottesco, Rushdie è donchisciottesco e due indizi, seppure illustri, non fanno certo una prova, ma in una delle ultime scene del romanzo moreschiano, in assoluto la migliore, uno dopo l’altro i massimi scrittori della letteratura mondiale si presentano, al folle e al lettore, pronunciando la loro irriducibile professione di donchisciottismo.
C’è la scrittrice giapponese Murasaki Shikibu, che come la Austen ha scritto i suoi capolavori di nascosto e nel cicaleccio generale. C’è lo scrittore rifiutato e negletto Herman Melville, l’estremista slavo Dostoevskij, deportato in Siberia per aver letto in pubblico, mentre era politicamente alticcio, pagine più ingenue che sovversive. C’è Leopardi, poeta solitario, irriso e vergine, imprigionato in un corpo impossibile da amare, c’è Franz Kafka, poeta e profeta, mai uscito dalla sua cameretta di bambino teologico, e c’è Durante degli Alighieri, inventore di una lingua e dunque di un popolo, ma, paradossalmente, sempre scacciato dal proprio, esule e randagio fino alla morte. Moresco ne cita a decine, in ordine anarchico e analfabetico, Shakespeare, Rimbaud, Tolstoj, Dickinson, Swift, Von Kleist, Whitman, Balzac, persino Hildegarda von Bingen.
Naturalmente l’equivalenza tra inettitudine sociale e genio poetico risente molto del vissuto di Moresco e non può in alcun modo essere filologicamente rigorosa (vedi Mann, vedi Moravia), ma di certo gli autori citati, anche se riscritti in modo personalistico, a propria immagine e somiglianza, sono, a tutti gli effetti, i massimi rappresentanti della letteratura e, guarda caso, sono tutti ma proprio tutti degli incompresi, solitari e mattoidi.
Alla lista se ne potrebbero aggiungere, senza sforzo, molti altri: Baudelaire e Campana, geni estetici sotto tutela finanziaria, il mondano asmatico Proust, i pervertiti Sade e Genet eccetera .
L’identità tra donchisciottismo e talento letterario dunque è più un pensiero suggestivo che rigorosamente critico, ma una cosa è certa: ancor più che dei lettori, Chisciotte è il libro degli scrittori, perché più di qualunque altra opera nella storia mette in scena il sogno, vertiginoso e patetico, di fare del mondo il proprio romanzo. Mentre Bovary è il prototipo del lettore, che vorrebbe vivere nei propri romanzi del cuore ma non può, Chisciotte è il prototipo dello scrittore, cioè di colui che non solo nei romanzi amati ci vive, infortunandosi socialmente, ma vuole sopra ogni cosa fare del mondo un romanzo, il suo.
Se dunque tutti i lettori sono Bovary, tutti gli scrittori, in questo senso, sono Chisciotte.
Alberto Ravasio