17 Agosto 2022

Speciale elezioni! Perché non esistono più grandi uomini? Ce lo spiega Chesterton

Nata nel marzo del 1944, la rivista “Aretusa”, stampata da Gaspare Casella in Napoli, fu diretta per i primi numeri da Francesco Flora, crociano, antifascista, autore di studi importanti su Giovanni Pascoli, Foscolo, Tasso e Carducci, e, soprattutto, di una imponente – e incompiuta – Guida alla poesia che raccoglieva, per dire, reperti di Poesia della Bibbia e Poesia dell’Egitto e della Mesopotamia. Secondo gli aurei intenti di Flora, la rivista si prefiggeva “di ritrovare quegli studi nei quali, secondo la parola di Dante, l’uomo si eterna”, recuperando “nella sua purezza” il concetto di “umanesimo”, straziato da anni di guerra. Intenti un tanto astratti. La rivista durò quindici fascicoli, fino al 1946, e fu diretta, dopo Flora, da Fausto Nicolini e da Carlo Muscetta. All’epoca di Flora, il segretario di redazione era Gabriele Baldini, futuro marito di Natalia Ginzburg, traduttore di Christopher Marlowe, Edgar Allan Poe e George Orwell, curatore dell’opera completa di Shakespeare. Nata come pubblicazione bimestrale, costava cinquanta lire a numero.

Il numero che ci interessa è il secondo, maggio-giugno 1944, che si apre con un saggio di Benedetto Croce su El Burlador de Sevilla di Tirso da Molina e Una lettera inedita di Giosue Carducci, prosegue con uno schizofrenico Diario politico di Alberto Moravia – es. “La servitù amata e rimpianta; la libertà odiata e temuta. Il pianto dei forzati scacciati dalle prigioni, delle prostitute licenziate dai lupanari” – e da un affondo moraleggiante di Flora su Gli scrittori e la dittatura (epilogo grigio: “gli scrittori che caddero nell’inganno fascista si ravvedano; quelli che non vi caddero, si facciano anche con se stessi più vigili e severi”). I tempi erano quelli.

Il bello di “Aretusa”, piuttosto, sta nelle aperture internazionali, a volte inattese. Nella sezione “Note e documenti” si pubblica un sagace editoriale di Gilbert Keith Chesterton, che qui ricalchiamo. Convertitosi al cristianesimo nel 1922, narratore di talento, saggista micidiale, GKC era assai noto in Italia: Emilio Cecchi lo aveva tradotto e intervistato su “La Ronda”, nel 1931 Enrico Caprile ne tracciava un profilo filosofico con queste parole:

“Lottò contro l’egoismo e il convenzionalismo findesiècle, e contro la nuova generazione impregnata di quelle idee, perché fosse iniziata un’epoca di sincerità e di virilità, nei limiti d’una morale e d’una tradizione bene intesa. Iniziato il suo pensiero politico come liberale, si staccò dal liberalismo e fondò quel distribuzionalismo, al quale è legato anche il suo grande amico e compagno Hilaire Belloc”.

Il ‘graffio’ edito da “Aretusa”, che appartiene alla prima fase di GKC, ha un’arguzia politica buona ad ogni stagione elettorale: cosa significa grande uomo?, come può accadere un grande uomo, in grado di risolvere la stasi di uno Stato, in un’epoca di uomini piccoli?, che senso ha attendere la venuta di un grande uomo se siamo incapaci di grandezza?

La traduzione di William Weaver, poeta americano appena ventenne, di stanza a Salerno durante la guerra (obiettore, guidava le ambulanze), a cura di un altrettanto giovane Raffaele La Capria, di cui diventò amico, denota l’indole sonnambula, bella, a tratti ispirata di “Aretusa”. Negli anni, Weaver diventerà il traduttore per gli Stati Uniti di Giorgio Bassani e Giuseppe Berto, di Italo Calvino, Umberto Eco, Carlo Emilio Gadda, Italo Svevo e Oriana Fallaci, tra gli altri. Che la poesia tradotta sia convenzionale non sorprenda, è frutto del tempo, bellico, che ha stretto molti autori tra i toni del pathos e dell’ode:

O forse anche il nostro passato
è diverso da quello del mondo?
Ogni nostra memoria appare dolce.
Ma il passato del mondo, perché è triste?
Il futuro ci aspetta, in agguato:
si maschera di vuote parole
e sorride nel buio. 

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Perché non esistono più gli “uomini grandi”?

Una delle conseguenze dirette e certe dell’idea che tutti gli uomini sono uguali è il produrre immediatamente uomini grandi. Uomini superiori, direi, senonché l’eroe considera se stesso grande, non superiore. Cosa che ci è stata nascosta, negli ultimi tempi, da una sciocca venerazione di uomini sinistri ed eccezionali, uomini privi di cameratismo e di ogni virtù comunicativa. Questo tipo di Cesare esiste: un grande uomo che fa che tutti gli uomini si sentano piccoli. Ma il vero grande uomo è quello che fa sì che ogni uomo si senta grande.

Carlyle uccise gli eroi; dopo di lui non se n’è più avuti. Uccise l’eroico – che egli sinceramente amava – costringendo ogni uomo a farsi questa domanda: “Sono forte o debole?”. La risposta di ogni uomo onesto – sì, anche di Cesare o Bismark – sarebbe certamente: “debole”. Egli chiedeva candidati per un’aristocrazia definita, di uomini che potessero tenersi coscientemente sopra i propri compagni. Ne fece, per così dire, la richiesta pubblicitaria; promise loro gloria, onnipotenza. Essi non sono ancora apparsi né appariranno…

Ma noi, del periodo postcarlyano, siamo divenuti difficili in fatto di grandi uomini. Ogni uomo esamina se stesso, ogni uomo esamina il suo vicino per vedere se esso o lui si adeguino esattamente alla linea che si è tracciata della grandezza. La risposta è naturalmente: “no”. E più d’un uomo che avrebbe potuto essere un profeta maggiore è contento di dirsi “poeta minore”. Siamo difficili da soddisfare e di scarsa fede. Possiamo a stento credere che esista quel che è un grande uomo. Essi (nel diciottesimo secolo) potevano a stento credere che vi fosse un piccolo uomo. Ma noi non facciamo se non pregare che i nostri occhi possano contemplare la grandezza, invece di pregare che i nostri cuori ne siano riempiti. Così, per esempio, il Partito Liberale (al quale appartengo) nel suo periodo di esilio andava dicendo: “Oh, se avessimo un Gladstone”, e simili. Era un andar sempre chiedendo di essere rinforzati dall’alto, invece di rinforzarci noi stessi dal basso con la nostra speranza e con la nostra collera e con la nostra gioventù.

Ognuno attendeva un capo. Ma ogni uomo dovrebbe aspettare un’opportunità di guidare. Se un dio discenderà sulla terra, esso discenderà innanzi agli occhi dei valorosi. Le nostre proteste e le nostre litanie non valgono nulla; le nostre lune nuove e i nostri sabati sono delle abominazioni. Il grande uomo verrà quando tutti ci sentiremo grandi, non quando tutti noi ci sentiamo piccoli. Egli apparirà in un qualche splendido momento in cui tutti sentiremo che potremmo fare a meno di lui.

Gilbert Keith Chesterton

Gruppo MAGOG