27 Agosto 2018

Che fine hanno fatto gli antichi dèi? In realtà, non ne sentiamo la mancanza… Riflessioni sull’idolatria a partire dal libro di Alessandro Vanoli

Nelle ultime decadi del XX secolo, la maggioranza dei sociologi e dei filosofi avrebbe scommesso senza dubbio sul fatto che il secolo venturo sarebbe stato dominato più dalle forze del progresso che da quelle della religione; del resto, ricordo un manuale geografia che, con la lungimiranza tipica dei libri scolastici sosteneva come “nel Duemila il fattore religioso sarebbe diventato inconsistente e addirittura secondario”. Del resto, la secolarizzazione era percepita cinquanta o quarant’anni fa come un fenomeno pressoché irreversibile e il disincanto del mondo pareva uno degli orizzonti più probabili della conoscenza umana. Invece, le cose sono andate diversamente: gli dèi non soltanto sono in ottima salute, ma hanno anche trovato voce e forza nuova. E così, ecco che diventa attuale uno studio come quello di Alessandro Vanoli, Idolatria. I falsi dèi del nemico, appena apparso nella collana ‘Aculei’, diretta da A. Barbero (Salerno editrice, 145 pp., 14 euro).

idolatriaPerché l’idolatria è un peccato e come nasce il suo concetto? Vanoli, storico esperto di storia del Mediterraneo, e dei rapporti fra Cristianità e Islam, ci fa immergere prima nelle remote origini della nostra civiltà, nel mondo del politeismo antico, a partire dal problema della rappresentabilità delle divinità, in Egitto, una terra molto affollata di entità sovrannaturali, in cui uomini e dèi erano accomunati dalla necessità di seguire la Maat, concetto non traducibile semplicemente con il termine “giustizia”, ma indicante, piuttosto, “l’ordine universale che si era costituito al tempo della fondazione del mondo” (p.14). Dunque, gli dèi egiziani erano potenti, ma non onnipotenti: e affinché essi potessero aiutare gli uomini nell’arduo compito che dovevano compiere con le loro povere forze, gli dèi dovevano poter essere rappresentati; infatti, soltanto attraverso le loro rappresentazioni gli uomini potevano interagire con la divinità e avere con essa dei contatti proficui e fattivi. Così, gli dèi vennero dagli Egizi tradotti in immagini concrete, di pietra, legno e metallo, in statue e rilievi in cui bisognava, però, far entrare un Ba, una forza di vitale, quasi per riscattare il quid di violento e distruttivo insito in ogni creazione artistica: perché, per creare una statua, bisognava straziare la pietra, strapparla alla sua sede naturale, colpirla, scavarla: e così il legno andava schiantato e tormentato, le pietre preziose incise e tagliate, l’oro fuso, i pigmenti pestati nel mortaio.

Gli dèi Egiziani abitavano i loro templi e le loro statue: e così anche quelli dei Greci e dei Romani, i cui riti si svolgevano lontano dagli occhi della massa dei semplici fedeli. E Seneca ha un bell’avvertire che deus intus est, “il divino è dentro di noi” e stigmatizzare la gente semplice che paga l’ostiarius, il portinaio del tempio, per avvicinarsi all’orecchio della statua del dio e sussurrarle da presso le proprie richieste: per la maggior parte dei fedeli Greci e Romani, le statue degli dèi – che erano colorate, decorate, addobbate con gioielli e abiti, con quella “bellezza un po’ cafona della vita” (p.18), ben diversa dalla bellezza raffinata ma monocorde del marmo neoclassico – erano davvero capaci di ascoltare gli uomini e di accontentare i loro desideri. E le divinità si rivelavano anche in mille modi, nel volo degli uccelli, nei moti del cielo, e, soprattutto, nei presagi e nei sogni.

Non esisteva però il termine “idolatria”: la statua della divinità era detta in greco agalma, oppure, se si trattava di una statuetta portatile, di piccole dimensioni bretas o xoanon. La parola “idolo”, eidolon, era invece rara nel greco classico: essa indicava l’”immagine”, la “forma”, ma in un senso quasi evanescente e aveva a che vedere soprattutto con il mondo dei morti, una specie di fantasma, come l’eidolon di Patroclo, che appare in sogno ad Achille, rimproverando l’amico per averlo dimenticato e svanendo subito dopo perché era solo “un’ombra, un fantasma, ma dentro senza più la mente” (Iliade 23, 104). La parola eidolon ha quindi in sé un’idea di evanescenza, di irrealtà: come l’immagine affievolita di un corpo ormai lontano, o sparito, già distrutto dalle fiamme della pira funebre, come fumo che scompare. Nel mondo latino, del resto, quando si parlava di statue, si usavano i termini simulacrum e signum, se riferite alle divinità, o statua, per indicare la raffigurazione tridimensionale di esseri umani.

Il “peccato di idolatria” nasce, di fatto, con l’Ebraismo, con il celebre precetto di Esodo 20, 1-4: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti darai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”. E tuttavia, la parola “idolatria” non è qui presente. Fondamentale, per la nascita del termine, spiega Vanoli (cap.III, p. 34 sgg.) è la condanna degli idoli sancita dal Cristianesimo delle origini: per esempio, l’anonima Lettera di Barnaba (I secolo) cita l’idolatria come prima insidia sulla via della morte eterna; e la quasi coeva Didaché dichiara esplicitamente la sua avversione per templi e statue degli dèi (3, 4). Giustino, nel II sec. d.C., raccoglieva le principali accuse cristiane mosse alle statue degli dèi, che facevano paura, e suscitavano odio; Clemente Alessandrino, che di esse elencava nomi e tipologie (agalma, brete, xoanon, eidolon) affermava, riprendendo la teoria di Evemero di Messene, (resa nota per la prima volta a Roma da Ennio nel II sec. a. C.), che si trattava di rappresentazioni di uomini, benefattori, antichi re ed eroi divinizzati dalla riconoscenza popolare. Ma non si poteva dire che essi non esistessero: erano demoni, ombre, spiriti impuri, e da questa circostanza derivava la condanna della loro adorazione. E visto che adorarli era un peccato dei più gravi, il problema fondamentale era capire se essi fossero qualcosa o nulla.

Ed ecco allora l’importanza capitale di Origene, il grandissimo teologo alessandrino (III sec.) che, in Contra Celsum 3, 4, afferma che gli idoli non erano che involucri vuoti, perché raffiguravano entità che non erano davvero divine: ma erano comunque involucri pericolosi, in quanto capaci di riempirsi di demoni. L’altro problema che si legava all’accusa dell’adorazione degli idoli era più sottile: se gli idoli erano da condannare, che cosa si doveva pensare delle immagini in generale? A partire dalla proibizione mosaica dell’idolatria, Origene apportò una sottile distinzione, destinata a una ripresa plurisecolare: se qualcuno riproduce un’immagine di un animale, e lo adora, costruisce non una semplice immagine, ma un idolo; e così avviene anche quando viene prodotto qualcosa che gli occhi umani non hanno mai visto, e che solo la mente si può immaginare, come, per esempio, un pesce con un busto umano. L’adorazione, in altre parole, era da condannare, ma bisognava distinguere le raffigurazioni di ciò che esiste e di ciò che non esiste, perché “immagine” non sempre è sinonimo di “idolo”. La parola greca eidolon, poi, venne nella Vulgata tradotta in vari modi, a seconda dei vari passi ebraici – circa una quindicina – relativi agli idoli: a volte Girolamo utilizza infatti idolum e a volte simulacrum, contribuendo a rendere ancora più evidente la relazione fra i due termini, e muovendosi sempre all’interno dell’ormai annoso problema: “stabilire se gli idoli avessero una reale sostanza, oppure stabilire se dietro la loro adorazione non si celasse, in realtà, altro che l’opera dei demoni” (p. 37).

Fu infine Agostino a tirare le fila di una riflessione ormai secolare, dando una struttura definitiva all’idea di idolatria nel mondo latino: anch’egli era convinto, come Origene, che le statue pagane fossero contenitori vuoti, capaci però di riempirsi di demoni. Come tutti gli uomini del suo tempo, infatti, anch’egli condivideva la credenza secondo la quale sarebbe stato possibile animare le statue: e tale animazione non poteva che essere opera demoniaca, come scrisse nelle Enarrationes in Psalmos (113, 2, 3). Nei primi secoli del Cristianesimo, insomma, le immagini furono guardate con un certo sospetto, eccezion fatta per alcuni simboli, come il pesce, o la croce, anche se le prime raffigurazioni di Cristo crocifisso appaiono relativamente tardi, a partire dal V secolo, e ci volle molto tempo perché si passasse dal culto della nuda croce a quello rivolto ai crocifissi tridimensionali con la figura di Gesù scolpita su di essi. Da una parte, infatti, fu necessario che i cristiani superassero definitivamente il loro antico disagio nei confronti delle immagini; ma certo fu indispensabile anche il risveglio di una nuova attenzione nei confronti dell’umanità di Gesù e della sua sofferenza redentrice, il che non avvenne prima del IX secolo.

Da questo momento in poi, assistiamo in Occidente all’inesorabile distruzione degli dèi e dei loro simulacri nelle terre ancora pagane (pensiamo alla campagna di Carlo Magno contro i Sassoni), e, dall’altro, a una crescente attenzione ai Santi, alle loro statue, raffigurazioni, reliquie, e ai reliquiari, sempre più fastosi, ideati per conservarle e offrirle alla devozione popolare. Tutto ciò, in parallelo allo scontro fra Occidente cristiano e l’Islam, nelle Crociate, ma non solo. A partire dal VII secolo, infatti, si profila all’orizzonte il pericolo costituito dai Saraceni, con i loro saccheggi e devastazioni di villaggi costieri. Il termine stesso Sarakenoi, in uso tra i greci, dimostra come non fosse ben chiaro a molti, inizialmente, chi fossero e in che cosa essi credessero: per Isidoro di Siviglia, grande collettore e conservatore del tesoro della cultura e del lessico classico, essi si sarebbero dati questo nome intendendo di discendere da Sara, moglie di Abramo, mentre in realtà il loro nome sarebbe derivato dal fatto di essere originari della Siria. Sicuramente, viene da chiedersi come fosse possibile che gli uomini di lettere del Medioevo cristiano potessero scambiare l’evidente monoteismo islamico per idolatria: secondo Vanoli, al di là di qualche legittimo dubbio sulla buona fede di alcuni di loro, si trattava, per lo più, di un problema di limiti e di schemi culturali, dato che i Cristiani guardavano ai musulmani attraverso il filtro di una storia sacra descritta secoli prima dai Padri della Chiesa, e, prima di loro, dalla Bibbia.

Ma l’accusa di idolatria non venne archiviata nemmeno dopo la fine del Medioevo: essa ricorre da una parte all’altra degli schieramenti nelle Guerre di religione che insanguinarono il XVI secolo, fra Cattolici e Riformati, e venne utilizzata anche per definire i culti e le divinità delle popolazioni indigene dell’America, terra di conquista veloce e sanguinosa per gli Spagnoli. E anche attualmente, in un panorama che avrebbe dovuto sancire, secondo le parole di Max Weber, il già citato “disincanto del mondo” (Entzauberung der Welt), con la progressiva eliminazione del campo dell’invisibile dalle cose umane, permangono quelli che potremmo definire “idoli del Postmoderno”: così fece Benedetto XVI al Sinodo dei Vescovi del Medio Oriente, indicando con tale suggestiva espressione il denaro, il mercato, la tirannia dell’opinione pubblica, la droga. Parole simili, osserva Vanoli (p.120) riecheggiano da tempo anche nel mondo musulmano: “l’Islam come sola alternativa a un mondo alienato e non più a misura d’uomo; l’Islam come baluardo a una vuota modernità priva di valori”.

Alla fine di questa lettura, resta una domanda, su cui Vanoli chiude il volume: che fine hanno fatto gli dèi? Non quelli metaforici, evocati per istituire facili paragoni, non gli dèi dei sogni letterari nei poemi epici greci e latini, ma quelli, dalla malìa inquietante e profonda, che si palesavano nelle solitudini dei boschi, nel silenzio dei templi, di fronte agli occhi vacui e inquietanti delle statue, o nella desolazione del meriggio, sotto il sole accecante. Inutile rimpiangere un – impossibile e improbabile – ritorno di queste entità numinose: i politeismi passati non hanno dato prova di grande morigeratezza, e quelli contemporanei potrebbero non essere da meno: leggete, per credere, Le venti giornate di Torino (1976) oppure guardate The Wicker Man (1973), di Robin Hardy, rifatto, in verità con incerti risultati, da Neil LaBute nel 2006 come Il prescelto.

Silvia Stucchi

 

Gruppo MAGOG