
“Io vorrei che la verità fosse calda come le mani”. Intorno a “Stella Maris” di Cormac McCarthy
Letterature
Francesca Serragnoli
Di per sé, la vita di François-René de Chateaubriand, fiera nel contrasto, merita un libro. Il grande scrittore pare realizzare, in un fulmine biologico, tutti i contrari, bilanciandoli: aristocrazia e dissipazione, avventura e lusso, desiderio di solitudine e alti incarichi politici, genio letterario e disprezzo dei letterati puri. Chateaubriand – zazzera al vento, sguardo all’infinito, bandana che gli serra la camicia e giaccone spesso – ha vagato tra i boschi dell’America del Nord e ha chiacchierato con George Washington, viaggiò in Palestina, fu Ministro degli Esteri del Regno di Francia, accudì la propria nostalgia con le visite a Juliette Récamier, ispirata salottiera, divinizzata in un olimpico e civettuolo ritratto di Fançois Gérard. Ci sono l’amore e l’abisso, l’ossessione e l’agnizione, la lotta, il genio, il genio del Cristianesimo, in Chateaubriand. Le sue Memorie d’oltretomba hanno trovato, in Italia, un congeniale traduttore in Vitaliano Brancati, che realizzò una scelta di brani da quell’opera oceanica – per Rizzoli e Longanesi – elaborata dal 1811, ovviamente postuma (cos’è la ‘pubblicazione’ per un uomo che ha dominato l’opinione pubblica e lavora su pedane eterne?). Sostanzialmente, il capolavoro di Chateaubriand, in Italia, è illeggibile: edito nei ‘Millenni’ Einaudi a cura di Ivana Rosi e di Fabio Vasarri, in edizione completa (2304 pagine) e di pregio (160 euro), bisognerebbe ridurlo in tomi, in referti antologici, in libri economici. Insomma: da giorni mi leggo un estratto dalle “Memorie”, la Storia di Napoleone tradotta da Orsola Nemi per Sansoni e riproposta ora da Iduna Edizioni, e, beh, è uno dei libri, dei romanzi, mi vien da dire, più belli, avvincenti, totali che mi sia capitato di leggere negli ultimi tempi.
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Questa specie di Alessandro Magno fuori tempo, eroe disarmonico che in torbido promiscuo mescola l’intraprendenza della Rivoluzione all’Iliade, satrapo e affamato, geniale e ingenuo, rozzo, neppure francese, specie di scherzo della Storia (“Bonaparte non era Cesare; non aveva avuto una educazione né sapiente né eletta; semistraniero, ignorava le prime regole della nostra lingua: del resto, che importa, dopo tutto, se il modo di esprimersi fu scorretto?, egli dava la parola d’ordine all’universo. I suoi bollettini hanno l’eloquenza della vittoria”), all’inseguimento di un sogno più che di un palazzo, non può che sedurre Chateaubriand – rientrato nei fatui favori napoleonici per tramite di Elisa Bonaparte –, che lo racconta da pari raccontando se stesso, guardandolo in faccia (“Lasciai l’Inghilterra alcuni mesi dopo che Napoleone aveva lasciato l’Egitto; tornammo in Francia quasi nel medesimo tempo, lui da Menfi io da Londra; egli aveva conquistato città e reami; io non avevo preso ancora che delle chimere”). Sotto il trattamento stilistico di Chateaubriand, fuori dai tomi elogiativi, dai toni polemici, dalle tonalità saggistiche, Napoleone diventa un soggetto di Caravaggio, un’icona faustiana, l’incrocio fatale tra Amleto e Achille. “Vi sono sempre stati due Bonaparte: l’uno grande, l’altro piccolo. Quando uno crede di entrare con sicurezza nella vita di Napoleone, ecco che egli rende spaventevole questa vita”, scrive, quasi subito, Chateaubriand. Entrare in Bonaparte è come compiere l’anamnesi del Minotauro: studiare il potere e la sua catarsi, il miracolo e il mostro.
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Naturalmente, è il momento della caduta che affascina lo scrittore, la decapitazione del dio, la pena miliare – passare dal trono dell’impero a bisticciare con gli uccelli marini in un’isola atlantica, sperduta. “Mai si assisté ad un più completo abbandono; Bonaparte stesso lo aveva provocato; insensibile alle pene altrui, il mondo gli rendeva indifferenza per indifferenza. Come la maggior parte dei despoti, si trovava bene coi suoi domestici; in fondo, nulla gli importava; uomo solitario bastava a se stesso; la sventura non fece che restituirlo al deserto della sua vita. Quando raccolgo i miei ricordi, quando rammento di aver veduto Washington nella sua piccola casa di Filadelfia e Bonaparte nei suoi palazzi, mi sembra che Washington nel suo campo della Virginia, non doveva provare i rimorsi di Bonaparte in attesa dell’esilio nei suoi giardini della Malmaison. Nulla era cambiato nella vita del primo; tornava alle sue modeste abitudini; egli non si era innalzato al di sopra della felicità dei contadini che aveva affrancati; nella vita del secondo, tutto era capovolto”. Di Chateaubriand – al di là del soggetto particolare – conquista lo stile, spezzato, sprezzante, come di un’ascia che scintilla all’aria, simile a un viso infante, e deforma il legno in una canoa, bella come uno sguardo.
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La sagacia psichica, il solare cinismo di un uomo che ha valicato foreste come salotti, non smette di stordirmi: “Una delle cose che più ha contribuito a far odiare, ancora durante la sua vita, Napoleone, era la sua tendenza ad invilire tutto: in una città in fiamme, accoppiava decreti sul ripristino di una compagnia di commedianti a provvedimenti che sopprimevano una monarchia; parodia dell’onnipotenza di Dio, che regola le sorti del mondo e di una formica”. E poi l’accuratezza nel definire, con corrusca sapienza, il destino di ogni briciola, perché tutto, al mondo, pietra e promessa, consuona; e qui, a differenza di quando parla di creature mortali, il ritmo di Chateaubriand muta, è più ampio, dedotto in golfi verbali. “Se si indagasse la storia delle trasformazioni dei luoghi resi illustri da tombe, da culle, da palazzi, quale varietà di cose e di destini si vedrebbero poiché tali strane metamorfosi si operano fino nelle oscure abitazioni alle quali sono annesse le nostre misere vite! In quale capanna nacque Clodoveo? Su quale carro venne alla luce Attila? Quale torrente copre la sepoltura di Alarico? Quale sciacallo occupa il luogo del feretro d’oro o di cristallo in sui è chiuso Alessandro? Quante volte quelle polveri hanno cambiato posto? E tutti questi mausolei dell’Egitto e delle Indie a chi appartengono? Dio solo conosce la causa di quei mutamenti legati a misteri dell’avvenire: vi sono per gli uomini verità celate nella profondità dei tempi; non si manifestano che con l’aiuto dei secoli, come vi sono stelle così lontane dalla terra che la loro luce non è ancora arrivata sino a noi”. Ma era un altro mondo, quello, che vedeva nei secoli l’esito di un patto; un mondo in cui gli uomini si sentivano re e vagabondi e non foraggio del caos, ispirati da un brano di Ammiano Marcellino o da una visione del Popol Vuh – potevano crescere come alberi o svanire, come velieri. (d.b.)
*Jean-Léon Gérôme, “Bonaparte al Cairo”, 1863