
“L’oggi è l’ultimo termine”. Su una poesia di Marina Cvetaeva
Poesia
Giorgio Anelli
Ciò che accomuna tutto quel che stiamo per scrivere e raccontare è il fuoco, quest’elemento che è dentro ognuno di noi e circola impercettibile dal cuore all’anima, infiammando e infervorando ogni attimo importante della nostra vita. Il fuoco, come il sangue, circola ed è radicato in noi; senza di esso il nostro spirito non potrebbe avere alcun vero significato impresso nel mistero.
Allo stesso modo, i libri hanno uno spirito vagabondo e il viaggio è il mistero che li accomuna fino al prossimo incontro. Di fatto, i libri passano di mano in mano, di stagione in stagione, da case a case, da librerie a banchetti di mercato; facendo lieti o tristi i prossimi lettori, o coloro che se ne dovranno in qualche modo disfare.
Proprio l’altra settimana parlavo alla mia dolce e cara musa Abigail di un libro (un epistolario, per la precisione) che riguarda Cesare Pavese: Lettere a Ludovica, edito da Archinto. Abigail deve a Pavese la sua salvezza, la rinascita grazie all’appiglio della e nella letteratura; quel prendere coscienza d’impiegare il proprio tempo leggendo e parlando delle cose migliori che il mondo letterario ha prodotto fino ai giorni nostri. Abigail ‒ quindi e tra l’altro ‒ è grande cultrice di Cesare Pavese.
Il libro in questione aveva un certo costo. Ma nel fine settimana passato insieme a solcare il Lago Maggiore e a festeggiare il nostro amore, mi capita proprio tra le mani ‒ a metà prezzo! La sorpresa fu enorme, ma non si fermò lì!
Abigail, divorando il libro sul treno di ritorno verso casa, scopre molte cose importanti: per esempio, che Natalia Ginzburg andava a Gressoney d’estate, ed è probabile che abbia ospitato anche Pavese, poiché erano molto amici.
Gressoney, per chi non lo sapesse ancora, è stato ed è il luogo culto della mia infanzia, fanciullezza, adolescenza ed ora della mia maturità artistica e personale. Lassù ho abitato i boschi, scalato le grandi vette, e mi son fatto amico i bellissimi animali delle Alpi. Ho dormito nei campi, come accanto ai greti dei torrenti, sussurrando i miei segreti al Monte Rosa, avvolto da albe e crepuscoli spettacolari.
Insomma, per farla breve, Cesare Pavese è stato a Gressoney dal 30 agosto fino al 4 settembre 1942. Non dalle lettere si vede, ma dal Mestiere di vivere. È stato ospite di Einaudi, a Villa Albertini. Una bellissima casa che ho sempre osservato dall’esterno, tutte quelle volte che mi recavo al Castel Savoia della regina Margherita, o per raggiungere l’inizio di qualche sentiero.
Le coincidenze effettivamente sono tante e straordinarie. Se riusciremo, più in là, ci informeremo per tentare di visitare questa misteriosa quanto fantomatica e forse inaccessibile casa. Da Villa Albertini passarono in molti, persino la figlia di Lev Tolstoj all’inizio degli Anni Trenta, che fece un ritratto di Arturo Toscanini.
Ma torniamo a Pavese. Natalia Ginzburg passava le estati da bambina poco prima di Noversch (splendida frazione incastonata tra il torrente Lys e le montagne, nella quale ho fatto terminare la storia del mio romanzo scritto nel 2018), in località Perletoa. Mentre Lalla Romano andava in villeggiatura a Trinité. Lalla aveva fatto l’università con Pavese ed erano amici. Grazie a lui traduce per Einaudi dal francese.
Natalia Levi Ginzburg, invece, era ebrea, di buona famiglia originaria di Palermo. Sposa Leone Ginzburg, una mente eccellente (a diciannove anni traduce Anna Karenina dal russo). Ebreo di origine russa, compagno di Pavese al liceo Gioberti, sotto le “cure” del mitico Augusto Monti, professore, antifascista, responsabile della biblioteca di istituto, punto di riferimento nonché “allevatore” di Giulio Einaudi, Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Massimo Mila ed altri. Leone e Cesare sono molto amici: si scrivono durante l’estate quando sono ancora studenti molte lettere.
Da Gressoney, Natalia scrive una lettera all’amica Ludovica. Già da bambina andava in villeggiatura in una casa che il padre affittava per tutta la stagione estiva: “Era una grande casa di pietre grigie, che guardava su un prato: ed era a Gressoney, nella frazione di Perletoa. Venivano con noi i bambini della Paola” (citazione da Lessico famigliare).
Poi, in età adulta, Natalia continua a frequentare Gressoney con i figli.
La Ginzburg è molto amica di Pavese. Lavorano entrambi per Einaudi, come la fantomatica Ludovica, che doveva essere una specie di segretaria organizzativa. Sarà Natalia a scrivere a Ludovica che Cesare si è ammazzato (Archinto).
Così, dunque, come i libri vanno e vengono, s’incrociano e si attraggono, persino gli scrittori e i poeti hanno come un punto di congiunzione o, se vogliamo, quel famoso filo rosso che inevitabilmente e inesplicabilmente li unisce. Le lettere di Pavese e il suo diario ne sono appunto la prova: Cesare Pavese è stato a Gressoney a fine agosto del 1942. Lo ricaviamo dal suo diario e da una lettera che scrisse a Fernanda Pivano proprio da Gressoney. Pavese fu il suo professore supplente di italiano. Quando Fernanda sarà all’università, contatterà Cesare per avere dei suggerimenti. Studia letteratura americana. Iniziano a corrispondere intensamente, lui si innamora follemente di lei. Lei invece è presa dall’intellettuale, non dall’uomo. E lui ci casca perdutamente, fino al punto di chiederle per ben tre volte di sposarla. Ne otterrà tre rifiuti.
Nonostante l’amore ambiguo e non corrisposto, lui la fa crescere come traduttrice e la introduce in Einaudi. L’antologia di Spoon River, a cui Fernanda deve la sua fama, viene di fatto “tradotta” a quattro mani: Cesare le dà spunti e suggerimenti e le rivede le bozze.
Fernanda andava da ragazza a Gressoney! Questo forse spiega perché lui le scriva da lì! “Quando vivevo a Genova coi miei genitori, l’estate aveva un placido contorno ripetitivo: a luglio finivo la mia scuola svizzera e facevo ordine nei libri, in agosto venivo portata in un bell’albergo di S. Margherita e a settembre in un altro bell’albergo di Gressoney”.
Quindi ora la domanda è d’obbligo: Che ci faceva Cesare Pavese quell’estate a Gressoney Saint Jean? Lo spiega questa nota: “Villa Albertini venne costruita tra il 1924 ed il 1926 per volere di Alberto Albertini, scrittore, giornalista e co-direttore del Corriere della Sera con il fratello Luigi, e di sua moglie Paola Giacosa, figlia di Giuseppe Giacosa, drammaturgo, scrittore e librettista; entrambi appassionati frequentatori della Valle d’Aosta. Fu progettata e realizzata da Achille Majnoni d’Intignano, architetto del re Umberto I di Savoia, e dall’ingegnere Tancredi Aluffi, d’Ivrea, come esempio emblematico di un nuovo porsi di fronte alla villeggiatura alpina dell’alta borghesia degli inizi del Novecento. L’aspetto esterno, sobrio e solido, è realizzato in pietra a vista, tipico delle maestranze locali. I decori ed arredi interni sono perfettamente conservati. Immersa in ampi spazi verdi, si trova poco distante dal Castel Savoia. Sono stati ospiti di Villa Albertini: Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Adriano ed Arrigo Olivetti, Arturo Toscanini, Tatiana e Serge Tolstoji.
La villa è oggi di proprietà di discendenti della famiglia Albertini”.
L’Albertini studiò all’università insieme a Luigi Einaudi, padre di Giulio nonché primo presidente della Repubblica italiana. Erano molto amici e si frequentavano molto, anche per ragioni politiche. Sta di fatto che gli Einaudi avevano la disponibilità di una parte della villa e vi invitavano amici e collaboratori. C’è una lettera di Giulio a Cesare, molto scherzosa, dove Cesare dice che Einaudi paga poco e male i suoi collaboratori, ma li invita in uno splendido posto a passare una settimana di vacanza…
Insomma, oggi più che mai, per me e Abigail sapere che la letteratura è una concordanza con il tutto che ci attraversa e ci sovrasta, è segno tangibile di ricerca continua del bello e dello stupore. Nulla è mai lasciato al caso; ed anche se lo fosse, quel poco o tanto che si ripresentasse all’improvviso, farebbe di una lettera, come di un frammento o di uno stralcio, l’enigma perfetto di una trama invisibile quanto vera e illuminante.
30 agosto (a Gressoney)
Amore è desiderio di conoscenza.
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31 agosto (a Gressoney)
Da bambino s’impara a conoscere il mondo non ‒ come parrebbe ‒ con immediato e originario contatto delle cose, ma attraverso i segni delle cose: parole, vignette, racconti. Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commuoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi, perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva. Naturalmente a quel tempo la fantasia ci giunse come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione. (Giacché che l’infanzia sia poetica è soltanto una fantasia dell’età matura.)
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4 settembre (a Gressoney)
Si desidera fare un’opera che stupisca per primi noi stessi.
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A Fernanda Pivano [Gressoney, 30 agosto 1942]
Cara Fernanda,
mi vengono in mente alcuni bei pensieri, che non c’è ragione perché non Le comunichi. È il solito problema di quanta fantasia un luogo possa contenere. Sono qui davanti a una parete ripida e irta di pini (o abeti che siano), ma un paretone grandioso, impervio, rigato di un’inaccessibile cascatella bianca che adesso pare un rivolo di sudore ma per tutta la notte mi ha fatto credere che piovesse a morte.
Di questi luoghi non ne ho mai veduti se non, raggentiliti, in fondo a qualche quadro toscano. Né ho mai sentita la Wally che pare li contenga. I wonder che cosa posso farne ‒ s’intende, in fantasia. Se, per esempio, raccontassi qualche faccenda che fosse in qualche modo condizionata da questa parete. Qualche misteriosa avventura che avesse luogo qui sotto, dove i pini, la cascatella, i prati sospesi a mezz’aria, le cicatrici rosso-brune della roccia, fossero il setting, l’antefatto, la realtà, il «ricordo» nella vita interiore delle persone. Giacché le persone di un racconto devono essere radicate nella loro realtà circostante da innumerevoli radici che sono i loro ricordi, la loro vita fantastica. Ora, io non ho ricordi di questi luoghi, di questa natura, di questa realtà: per me è un mondo gratuito, vuoto, oggettivo, come una persona veduta la prima volta. È evidente che non ho nulla da dire su di esso.
E allora, che storiella è mai questa, che tutti vantano i luoghi, i paesaggi, insoliti e belli, che costituirebbero appunto il «bello naturale»? E ci si sposta, si viaggia, per trovarne e ammirarne? Un interesse per questo colpo d’occhio inaudito è innegabile che lo provo, e un interesse creativo, badi bene, fatto dello sforzo per costruire queste impressioni in un racconto, in una fantasia. Nel che ‒ per ora almeno ‒ non riesco. […]
Cesare Pavese
(Giorgio Anelli e Abigail)