22 Febbraio 2023

Dalla lotta armata alla conversione. In memoria di Cesare Cavalleri

«Mi chiamo Cesare Cavalleri» le prime parole che gli ho sentito pronunciare, dopo che era entrato in classe e si era seduto in cattedra. Anno scolastico 1963-64, classe quinta dell’Istituto tecnico commerciale “Pindemonte” di Verona. Non avevamo più l’insegnante di Ragioneria che ci aveva accompagnati fino alla quarta. Forse era andato in pensione, non ricordo. Il Preside era venuto a presentarci uno studente universitario, che era stato suo allievo e che aveva i suoi appunti da dettare. Così ha fatto, e solo questo, nelle lezioni successive. Fino a che, con manifesto rammarico, ci ha informato che si era presentato “un laureato” con diritto a occupare il suo posto.

Il prof. Cavalleri non dettava ma spiegava come le tecniche di registrazione del dare e avere, perfino le aride pratiche della partita doppia o del sistema del reddito, trovassero fondamento in un pensiero, in una visione dei rapporti economici. Questo non garbava al Preside, già seccato per l’estromissione del suo pupillo e convinto che bisognasse imparare cosa scrivere senza chiedersi il perché. Così in altra ora è venuto in classe a dirci: “Quello non fa Ragioneria, fa filosofia della Ragioneria, si mette a spiegare cos’è un conto invece di farvelo scrivere, non posso mandarvi all’esame in queste condizioni”, e ci ha informato di aver chiesto e ottenuto la disponibilità dell’insegnante di un’altra sezione, in fama (meritata) di bravissimo, di darci lezioni integrative il pomeriggio. Sarà che con le lezioni di Cesare mi sembrava di respirare in mezzo alle registrazioni, sarà che era già scattata una molla di simpatia, sarà che quello screditare e sostituire l’insegnante a sua insaputa mi appariva gravemente scorretto, fatto sta che sono andato a trovarlo nella sua residenza, alla Fondazione Rui, che allora era Ponte Navi non solo di nome ma anche di prossimità, per riferirgli l’incursione del Preside. Tornato in classe, Cesare ha sconfessato l’operazione, ha fatto un po’ di ironia sul pregiudizio antifilosofico, ha affermato di essere in grado di presentarci preparati all’esame («So quello che valgo») e che se fossero state utili lezioni integrative sarebbe venuto lui stesso gratuitamente il pomeriggio.

Il Preside ha dovuto rinunciare al suo piano e, per quel che ricordo, all’esame siamo andati tutti bene, qualcuno molto bene. Intanto ci eravamo conosciuti in altro territorio e avevamo reciprocamente scoperto di essere molto più appassionati alla letteratura che alla contabilità. Io scrivevo sul giornalino di Gioventù Studentesca Cinque più, che aveva per motto Fremant omnes, dicam quod sentio. Cesare aveva fondato e dirigeva, a tutt’altro livello («A livello di assistente universitario», diceva) Fogli, e mi ha chiesto addirittura di collaborare, pubblicandomi poi un articolo che, riletto dopo quasi sessant’anni, direi decisamente brutto, e immagino adesso che non me l’abbia cestinato solo per desiderio di incoraggiare un giovane. Però una delusione me l’ha data. Quando, fiero del mio concittadino poeta dialettale Berto Barbarani, ero felice di regalare a Cesare il volume delle sue opere complete. Ma lui non l’ha apprezzato, non lo considerava un grande poeta. So che un giorno riprenderemo la discussione.

Vent’anni dopo la scena è molto, molto cambiata: all’aperto è rigorosamente delimitata da perimetri di mura, all’interno non c’è una finestra senza inferriata. E quante altre scene erano rapidamente cambiate in precedenza. Quattro anni a fare il ragioniere alle macchine contabili del Comune di Verona, gli stessi anni per laurearmi in un’Università mai frequentata, l’insegnamento prima in Abruzzo, poi a Verona, poi in provincia di Milano per stare nel cuore delle lotte del sogno rivoluzionario, che la violenza stava trasformando in incubo. Dal quale non mi hanno svegliato tre anni di carcere, anche per la reciprocità di violenza che ho dovuto subire. Tanto che, una volta libero, ho costituito un gruppetto responsabile dei più gravi reati. E quando finalmente me ne sono separato e ho sperato di riorganizzarmi la vita, il nuovo arresto mi ha riportato in quella scena che, con sfondi cangianti, nell’aprile del 1984 frequentavo ormai da quattro anni.

Avevo avuto tutto il tempo per criticare radicalmente le scelte alle quali avevo dedicato la vita, addirittura per ritrarmene inorridito, così come molti altri detenuti coinvolti come me nella cosiddetta “lotta armata”. Avevamo promosso un “movimento della dissociazione” per chiedere che il nostro cambiamento fosse riconosciuto. Ma non era nemmeno questo il mio problema più profondo. Era l’insanabile scontro, dentro di me, tra quello che sentivo di essere e quello che ero stato. Cesare legge il mio nome in una cronaca giudiziaria e mi scrive a Rebibbia. Diffidavo, in genere, di questi approcci di appartenenti a organismi religiosi, era scoperta l’intenzione di catturare chi, in pieno fallimento esistenziale, poteva restare affascinato da tutt’altra collocazione. Ma evidentemente il tono dell’offerta di aiuto da parte di Cesare e il ricordo della qualità dell’antica relazione mi ha spinto a rispondere confidandomi con fiducia, come con nessun altro. Ringrazio ancora quell’intuizione.

Non voglio ripetere cose già pubblicate. In Il terrorista & il professore abbiamo raccolto tutta la nostra corrispondenza. Voglio solo indicare alcune tracce di quello che Cesare ha rappresentato per me a partire da quei momenti. Il senso della parola più fraintesa, il perdono. Cesare mi ha spinto e progressivamente convinto a non considerarlo solo come lo stato d’animo benevolente di una vittima, ma la più necessaria condizione di cambiamento, di ritrovamento di senso. Io guardavo indietro, alle persone offese, distrutte dalle nostre scelte, la mia stessa vita devastata, con un rancore feroce verso me stesso e la prospettiva di trascinarmelo per sempre. Con Cesare ho capito che con il perdono la dolorosa assunzione di responsabilità del male fatto e delle sue conseguenze avrebbe potuto trasformarsi in nuova progettualità, in un rovesciamento di significato dell’esperienza. E subito me ne proponeva alcuni passaggi concreti.

Questo tema è diventato talmente centrale e sempre più approfondito nelle mie riflessioni che ho dedicato la tesi di criminologia al rapporto tra rieducazione del condannato e perdono. Cesare è riuscito poi a testimoniarmi due aspetti apparentemente in contraddizione. Da un lato la sua fede convinta, vissuta, decisiva: non mi avrebbe voluto bene se avesse rinunciato a propormela, perché è il bene più grande che si possa raggiungere; dall’altro la conferma dell’affetto del tutto indipendente dalla mia risposta, il valore che ho sentito attribuito alla mia persona come persona, incondizionatamente. Pensare agli ambienti sempre frequentati da Cesare, alle sue competenze, c’è da restare sbalorditi per come si è immerso in questo mondo di pena per lui ancora sconosciuto, di costrizioni, dolori, procedure, bisogni. Com’è riuscito a capire in quali modi la sua amicizia poteva rendersi efficace. Sia mettendo il suo mondo giornalistico in comunicazione col mio penale, dando voce alle ragioni della dissociazione e della tutela dei diritti (e credo che gli interventi su Studi cattolici abbiano svolto un ruolo importante nella promozione di una cultura che porterà al riconoscimento legislativo della dissociazione), sia sprofondando direttamente tra avvocati, incontri con i giudici, istanze, colloqui in carcere, le buone cose da mangiare che mi portava.

Era dicembre ’84 la prima volta che ci siamo rivisti. Avevo un processo a Verona, è venuto apposta, è rimasto tutto il tempo e ha ottenuto il permesso di incontrarmi. Ci siamo ritrovati nella corrente di reciprocità. Veniva poi a colloquio in carcere, ai lunghi processi, a un convegno a Rebibbia che avevamo organizzato per conoscere l’associazionismo cattolico.

Faccio ora un salto a una scena meravigliosamente diversa, mi basta nominarla perché resta per sempre dentro di me: è maggio 1992, nella chiesa di Sant’Eufemia a Verona, alla mia sinistra Elisabetta, mia moglie da quel momento, alla mia destra Cesare, testimone della decisione più bella della mia vita. Un modo per rendere utili, non solo a me, le mie vicende poteva consistere nel raccoglierle per raccontarle in un libro. Quando l’editore che si era impegnato e mi ha tenuto in sospeso per molto tempo ha fatto voltafaccia, ho chiesto a Cesare di consigliarmi a quale altro editore avrei potuto rivolgermi. Non immaginavo proprio di poter entrare nel catalogo Ares. Dopo qualche giorno, con mia grande sorpresa e gioia, Cesare mi dice: «Possiamo pubblicarlo noi». È nata così nel 2005 La piccola tenda d’azzurro che i prigionieri chiamano cielo.

Nel libro di Cesare del 2018, Per vivere meglio, ho letto con stupore a p. 92 che, alla domanda di Jacopo Guerriero su Benedetto XVI, risponde: «Avevo conosciuto il card. Ratzinger a Castelromano […]. In quell’occasione gli raccontai la storia di Arrigo Cavallina, che lo impressionò». Mi ritrovo per un momento accanto a entrambi, che poi hanno fatto il grande passo negli stessi giorni. Poco prima avevo telefonato un paio di volte a Cesare, quando ho saputo che la sua morte era imminente. Con tutto l’imbarazzo di questi momenti, che non so cosa dire perché il pensiero e l’emozione sono tutti intorno alla morte, ma non riesco a pronunciare la parola con chi (devo usare questa frase assurda) la sta vivendo. E non far trasparire il groppo. Ma ancora una volta è stato Cesare a emanare la luce della sua fede, perfettamente consapevole e sereno, con umorismo perfino; mi ha recitato a memoria tutta la poesia Blu turco di Raffaele Carrieri. Allora ho cercato di dirgli che, indipendentemente da quello che poi troverà, anche qui lui continuerà a vivere nel bene che ha fatto, in noi che l’abbiamo conosciuto, nel nostro affetto e riconoscenza.

Arrigo Cavallina

*Nell’anno scolastico 1963-1964 Arrigo Cavallina fu allievo di Cesare Cavalleri presso l’Istituto tecnico commerciale “Pindemonte” di Verona. Le loro strade si divisero per anni fino a quando Cavalleri apprese che il suo ex alunno era a processo per la sua partecipazione alla Lotta armata: gli scrisse una toccante lettera che riallacciò l’amicizia e fu l’inizio del percorso di conversione di quello che era stato il fondatore dei Pac (Proletari armati comunisti). Per approfondire, ricordiamo il memoir di Cavallina “La piccola tenda d’azzurro che i prigionieri chiamano cielo” (Ares 2005) e il carteggio tra i due amici “Il terrorista & il professore. Lettere dagli Anni di piombo & oltre” (Ares 2021). Per gentile concessione si pubblica in anteprima la memoria di Arrigo Cavallina, “La mia conversione grazie a Cesare”, raccolta nell’ultimo numero di “Studi Cattolici” (744, Febbraio 2023), interamente dedicato a Cesare Cavalleri.

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