07 Gennaio 2024

“E l’anima? Ci pensi all’anima?”. Ricordo di Cesare Cavalleri a un anno dalla scomparsa

Sedeva pensieroso, guardandosi intorno con l’altero distacco che avrei imparato a conoscere. Quell’anziano signore, velato da un’ombra di stanchezza e protetto nel suo autoisolamento, mi intenerì. Fu questo il motivo per cui gli rivolsi parola. Così, trovandomi per caso a una presentazione di un libro presso la Ares di Milano e ignorando il peso che quell’incontro avrebbe avuto, conobbi Cesare Cavalleri. Conversammo di poesia, dacché alla mia domanda su chi fosse e di cosa si occupasse rispose – guardandomi interrogativo – di essere un critico letterario (non disse subito che ruolo avesse per la casa editrice dove ci trovavamo, lasciandomelo scoprire diversi minuti più tardi, non senza mettermi in lieve imbarazzo per la mia inappropriatezza).

Spinto dall’entusiasmo di averlo letto da poco, gli parlai di Giovanni Raboni, poeta che Cesare aveva ben conosciuto. Commentammo Dolore, scambiando qualche parola su quei versi così immediati e indugiando sulla scelta di figure basse: banali elementi di vita quotidiana che, non senza il magico elemento dell’ironia, sublimavano in un’efficace sostanza poetica: “ma credimi, tesoro, che non voglio rubartelo/l’osso del tuo dolore.”. Fu poi il turno di Stanco della vita in cui Raboni, negando orgoglioso di non esserlo (“Stanco della vita, io? Non scherziamo…”) confessa l’inizio di un amaro congedo identificato nella dissimulata malinconia di un’orchestra che smonta. Poi la conversazione scivolò, non ricordo come, su Vincenzo Cardarelli e Cesare, con la commossa partecipazione di chi non concepisce distinzione tra poesia e vita, recitò Adolescente. Mentre il brusio allegro del rinfresco cresceva, ci spostammo nel suo ufficio. Ungaretti, Montale, Pound, Buzzati, questi e altri nomi, per me solo di carta e inchiostro, presero forma, divennero vivi nel ricordo di Cesare che questi autori conobbe e con cui aveva intrattenuto rapporti più o meno intensi. Così, inaspettatamente e per la prima volta, come poi sarebbe successo in molte altre occasioni, parlammo di poesia.

Un’estate lo aiutai a sistemare la sua biblioteca, ricevendo in cambio libri e preziosi racconti. Il lavoro doveva essere piuttosto breve, ma le continue divagazioni lo fecero prolungare per giorni, dando a quei pomeriggi il sapore di un seminario. Capitava, mentre inventariavamo il contenuto di uno scaffale, che Cesare si fermasse per leggere dei versi. Allora mi faceva cenno di interrompere, si sedeva aspettando che mi sistemassi nella sedia di fronte e, dopo una breve e puntuale introduzione critica non di rado condita da qualche aneddoto personale, iniziava a scandire le parole dell’autore. Fu dalla sua voce che imparai ad apprezzare poeti che mi restavano indifferenti o che guardavo con sospetto per il loro ostico sperimentalismo. Indimenticabile quella volta in cui lesse la più bella poesia di Antonio Porta, Dialogo con Herz, con la crudele chiusa che veniva accesa dall’anziana e inconfondibile voce di Cesare: “Avrà mai fine l’arbitrio del giorno e della notte?”; o quando decise che era giunto il momento di Saint-John Perse, sua grande passione da sempre. Ho provato spesso a rileggere le alchemiche pagine di Esilio: “…Chi erra, a mezzanotte, sopra le gallerie di pietra per stimare i titoli d’una bella cometa; chi veglia, fra due guerre, sulla purezza delle grandi lenti di cristallo; chi s’è alzato prima dell’alba per spurgare le fontane, ed è la fine delle grandi epidemie…”, ma non ho ritrovato la forza abissale di quelle formule che Cesare leggeva con voce salmodiante e commossa e in cui bizzarre occupazioni, epicamente trasfigurate, assurgevano a cosmogonia iridescente e universale.

Irraccontabili le sue lezioni su Eliot o su Eugenio Corti, assi portanti del suo sistema letterario. A volte, invece, Cesare si divertiva con i migliori aforismi di Karl Kraus o di Oscar Wilde o, nella levità della sua intelligenza, mi distraeva con pettegolezzi e aneddoti molto poco poetici: il dileggio di Manzoni, all’occorrenza persino triviale, era uno dei suoi cavalli di battaglia. Un pomeriggio spendemmo ore nel suo ufficio ascoltando la Callas – Cesare la adorava – e bevendo whisky (bevanda per me disgustosa ma che, in quella occasione, finsi di apprezzare). Mi ero appena laureato e dovevamo festeggiare, mi disse. Sulla Callas tornammo poi altre volte, come anche alla sua amata Édith Piaf, di cui cantava le canzoni in perfetto francese. In quei momenti potevo intuire nella sua voce e nel suo sguardo una dolorosa commozione.

Un giorno Cesare decise che avrei dovuto scrivere piccoli articoli che sarebbero apparsi su Studi Cattolici, la rivista che dirigeva insieme all’instancabile Alessandro Rivali, scrittore e suo fedele discepolo. A conclusione di una mail di tutt’altro argomento Cesare scrisse – riporto le parole precise – «Allego anche i nostri criteri redazionali ai quali scrupolosamente ti atterrai nella collaborazione a Studi Cattolici». Non me lo aspettavo e non ne avevamo mai parlato prima, ma questo era il suo imprevedibile modo di stupire. Inizialmente mi spediva i libri da recensire, poi mi concesse il privilegio di sceglierli tra quelli che gli venivano inviati. Era un esaminatore attento e severo, ma non poneva limitazioni di contenuto; esigeva immediatezza e semplicità nella scrittura; la sua, del resto, levigata fino all’essenziale, era temprata nella lunga frequentazione con la poesia. Una mattina, entrando nel suo ufficio, senza darmi il tempo di salutarlo mi guardò severo: «sembra! Non sembra essere!». Da principio non capii: «hai scritto “sembra essere”. È inutile. È una ripetizione inutile, basta scrivere “sembra”». Si riferiva all’ultimo articolo che gli avevo inviato.

Amava Milano e, nonostante l’età avanzata non lo stancava spostarsi a piedi o con i mezzi pubblici per la città. Un giorno di luglio vagammo tra i meravigliosi palazzi liberty milanesi, entrando per androni e ammirando decorazioni e dettagli. Nel valutare le lettere il suo rigore analitico poteva farsi addirittura spietato e le sue elegantissime stroncature sono capolavori di classe e arguzia (raggiunte soltanto da quelle, più scanzonate e corrosive, di Davide Brullo). Tuttavia, nell’arte figurativa era diverso e la sua propensione diventava fatua e capricciosa: qua Cesare trovava la leggerezza che nella sua attività di critico letterario gli era spesso impedita. Adorava il citofono con l’orecchio in bronzo di Adolfo Wildt, così come i fenicotteri rosa di Villa Invernizzi. Ricordo una entusiasmante gita alla Cappella Portinari, capolavoro del rinascimento lombardo, e al ricco museo diocesano Carlo Maria Martini. Così come una visita al Sacello di Sant’Aquilino della chiesa di San Lorenzo che, da poco riaperto, Cesare volle visitare, compiacendosi del Cristo imberbe della decorazione musiva. Aveva un’ottima conoscenza dei principali luoghi artistici di Milano e non gli ho mai sentito dire niente di neanche lontanamente banale. Cesare preferiva tacere piuttosto che dire qualcosa di scontato. Talvolta poi celiava, ed era divertente sentirlo commentare Leonardo con il suo ostentato cinismo: «è l’artista più sopravvalutato della storia e il Cenacolo ormai è una larva illeggibile, non si capisce perché abbia tanti visitatori»; e ancora: «le invenzioni di Leonardo sono curiose, non c’è dubbio, ma non ne funziona neanche una…».

Trasferitomi a Roma cominciammo a vederci più raramente, anche se ci sentivamo spesso. Un giorno, rispondendogli al telefono, Cesare attaccò la chiamata inanellando parole perfette:

“Qui dove il grillo insidioso buca
i vestiti di seta vegetale
e l’odor della canfora non fuga
le tarme che sfarinano nei libri,
l’uccellino si arrampica a spirale
su per l’olmo ed il sole tra le frappe
cupo invischia. Altra luce che non colma
altre vampe, o mie edere scarlatte”.

Era il suo Montale, maestro di stile che Cesare conosceva alla perfezione e a cui spesso tornava. Lo affascinava il mistero della metrica e come le sue logiche determinassero effetti singolari sul piano della creazione immaginifica. Nella metrica trovava il punto di contatto tra la misteriosa intelligenza dei numeri e l’energia dionisiaca degli intrecci di parole da cui scaturiscono immagini. Del resto, il mondo matematico non gli era estraneo e, diplomato in un istituto tecnico, si era laureto con una tesi in statistica sulla frequenza del fonema “ZZ” nei Pensieri di Leopardi. In un’occasione mi donò una copia di Sintomi di un contesto, la raccolta dal titolo apologetico che conteneva i suoi esperimenti poetici giovanili: prove che non trovarono mai più seguito, derubricate dallo stesso Cesare – con aristocratica e autolesionistica intransigenza – a ingenue frivolezze. Nella dedica al libro si legge: “Ad Antonio, iniziato alla poesia”. Non era del tutto vero, e già da tempo leggevo i poeti che, del resto, resero possibile la nostra amicizia ma, cionondimeno, mi rese orgoglioso.

Il tempo passava e la malattia insisteva. Un giorno gli dissi che lo vedevo in forma: «le apparenze ingannano», rispose sornione.  Abbiamo consumato insieme svariati pasti, pranzando in un bar vicino alla Ares. Offriva sempre ed era impossibile impedirlo. In ottobre del 2022 mangiammo in un bistrot a pochi metri dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie; al momento di pagare Cesare si accorse di aver dimenticato il portafogli e così, per la prima volta, riuscii a pagare io per entrambi «per questa volta va bene, ma non dovrà mai più succedere», mi disse. Così fu, quello sarebbe stato l’ultimo pranzo consumato insieme. Gli telefonai pochi giorni dopo e lo sentii diverso dal solito; per la prima volta da quando lo conoscevo stava abbassando le difese: arreso ma non sconfitto, con la voce tremante, mi disse che stava morendo, «sto morendo, e tu non te ne accorgi». Mi fece una grande impressione. Era vero, non me ne accorgevo e fino a poco prima della sua scomparsa non avevo seriamente preso in considerazione un simile epilogo.

Di lì a poco la situazione degenerò. L’ultima volta che lo vidi era sdraiato sul suo letto e parlava a fatica. La sua prima domanda fu quella di sempre, la prima con cui ogni nostra conversazione iniziava: «cosa stai leggendo?». Seguiva poi: «e l’anima? Ci pensi all’anima?». Poi altre domande, mai di circostanza o di cortesia, sempre con la curiosità e l’attenzione di chi ti vuole bene veramente. Prima di andarsene Cesare prese congedo dal mondo con la lettera apparsa su Avvenire, in cui annunciava che gli restava poco tempo «I medici mi hanno graziosamente comunicato che mi restano nove settimane di vita. Non immaginavo simile conclusione, ma prendo volentieri atto e mi tuffo nella preparazione immediata al grande salto (quella remota è iniziata, con alti e bassi, nell’adolescenza». In quel comunicato c’era tutto ciò che lo rendeva un uomo straordinario: fede, responsabilità, orgoglio e umorismo. Sarebbe morto il 28 dicembre 2022.

Ora, a distanza di un anno la sua scomparsa inizia a mostrare ciò che per me è il suo valore di evento. Del resto, sono proprio episodi come questo che ci svegliano dal nostro torpore, restituendoci improvvisamente il senso del cambiamento: un sinistro oste ci presenta lo sconveniente conto del tempo a cui non possiamo sottrarci. Capita di identificare parti della nostra vita con qualcuno che, scomparso, trascina con sé lo spazio che con lui condividevamo, costringendoci a cercare altra superficie dove muoverci. Così, la scomparsa di Cesare, oltre a farmi sentire un più solo, ha rappresentato il calare del sipario su un’importante parte della mia vita. Ora che non c’è più, di lui sopravvive l’esempio, il ricordo e la gratitudine per averlo frequentato così intensamente. Resta anche l’amicizia con Alessandro Rivali, incrociato spesso quando raggiungevo Cesare nel suo ufficio, e quella con Davide Brullo, scrittore a cui era particolarmente affezionato e di cui mi parlò diverse volte preparando il terreno per il nostro incontro. Rimane, forte, il ricordo della sua apparente durezza, contrapposta alla sua evidente fragilità, in una irrisolvibile contraddizione di diamante. Poi, come spesso accade, resta anche qualche senso di colpa, per le parole non dette, per i treni non presi e per gli sforzi non fatti.

Antonio Soldi

Gruppo MAGOG