I problemi del cinema italiano sono due. Troppa burocrazia. E troppa gente che ti vuole toccare il pacco. Partiamo dal secondo problema. “Beh, hai letto l’intervista di Luc Merenda?”. No. “Leggila. Dice che la sua agente gli consigliava, per lavorare in Italia, di avvicinare Zeffirelli, Pasolini, Bolognini…”. Registi omosessuali. “Già”. Roba di un secolo fa. “E no, amico mio. Ora c’è tutto questo chiasso intorno al ‘caso Weinstein’, ma quella non è che la punta di un iceberg molto profondo”. Spiegati. “Qualche anno fa certi registi ci hanno provato apertamente con me, dandomi a intendere che avrei avuto qualcosa in cambio se…”. Capisco. Ma tu non ti sei prestato a metterti a novanta. “Certo che no, sono etero. Però all’inizio ho rosicato, perché ho visto ‘colleghi’, chiamiamoli così, con meno problemi di me, diciamo così, che hanno cominciato a lavorare tanto…”. A proposito dell’essere etero: non penso sia diverso se a farti la ‘modesta proposta’ è una donna, tu vuoi essere giudicato per il talento come attore, non certo per la ‘prestazione’. “Ovvio. Diciamo che il problema c’è ancora, ad ogni modo”.
Gianluca Vannucci è di Riccione, lavora a Roma, è un attore con una certa carriera alle spalle, spesso in fiction Rai, ma anche nel cinema ‘che conta’: nel 2015 ha avuto una piccola parte nel Maraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (“ho lavorato per quattro giorni, impossibile non essere influenzati dal loro talento: quella di Vittorio è una mancanza che ferisce ancora”). Prossimamente, vedremo Vannucci in Rai, in un film per la tivù incentrato sulla vita di Liliana Segre, “interpreterò lo zio della giovane Segre, sono molto felice, e onorato”. Dal 2009, però, Vannucci culla l’idea di un film, che ora, quasi dieci anni dopo, si è finalmente realizzato. Questa sera – 2 luglio – e domani, al Cinepalace di Riccione, durante “Ciné”, le ‘Giornate estive di Cinema’ – che significa, i distributori italiani che si radunano in riva al mare a presentare le novità della stagione cinematografica futura – Vannucci mostra in anteprima il suo film, Famosi in 7 giorni. La storia, scritta da Germano Tarricone, è attualissima (“si narra di un corso di recitazione truffa, con corpo docenti improvvisato, e della tremenda vendetta dei gabbati”), pigliando ispirazione dai film degli anni Settanta, “quelli di Umberto Lenzi e di Stelvio Massi, che mi piacciono molto”. Si diceva, tema attualissimo. “Certo. Non sai quanti sedicenti corsi di cinema, che promuovono un facile ingresso nel ‘mondo dello spettacolo’, prolifichino sui sogni ingenui delle persone”. Il film, che ha per protagonista Dany Greggio, efficacissimo cantante e anomalo uomo di spettacolo – è stato per anni il ‘frontman’ dei Motus, che han fatto la storia del teatro italiano ‘d’avanguardia’ – è beatificato dalla presenza di Max Giusti e di Andrea Roncato (“è stato di una gentilezza e di una disponibilità rara, impagabile”), sta cercando la via per proporsi al pubblico, meglio via Netflix che in sala, dove ormai si raccoglie poco. Budget al minimo (il film è costato pressappoco 100mila euro), senza ‘aiutino’ di Stato, Vannucci si è cercato da solo i soldi, “mettendoci la faccia”. Solo che lo Stato se non dà i soldi rompe le palle. Eccolo, il secondo problema del cinema italiano. “Burocrazia. Rischi di perdere mesi di lavoro”. Spiega. “Per andare in pubblico bisogna avere il cosiddetto ‘visto censura’. Ed è un delirio. Mi hanno rimandato due volte le pratiche perché avevo sbagliato due righe nei titoli di cosa. C’è da impazzire. Considerando, soprattutto, che la burocrazia italiana è molto fiscale con i film indipendenti e con i registi di un’opera prima”. Giusto per facilitare i talenti nostrani… Ma Vannucci non si scoraggia. “Intanto, vediamo come va questo film. Poi ne ho in mente un altro. Anzi, altri due”. Caspita. Raccontamene uno, dei due. “Un film sportivo. Racconterà una specie di Rocky Balboa del tennis, un uomo che ‘esplode’ in età matura”. Bello. Soprattutto: è bello farcela senza piegarsi ai ricatti né piegarsi alle ragioni del più scaltro, del più laido. (d.b.)