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Letterature
Barbara Costa
Carrère straparla di Céline
«La Lettiera», il settimanale culpop del «Corriere della Serva», il 18 giugno scorso si è sentito in dovere d’intervistare Emmanuel Carrère su Guerra di Céline, uno degli inediti “scoperti” – si fa per dire, storia schifosetta assai, vedremo – nel 2021, subito stampato insieme agli altri da Gallimard, e da pochissimo uscito in Italia presso Adelphi e di cui a breve diremo. Scusa, quella della gazzetta, per parlare di Céline tout court e ovviamente anche per staccare l’ennesima marchetta a Carrère. Il risultato è dei più deplorevoli.
Carrère si sente sempre in dovere, sostenuto dai suoi acritici adoratori, di blaterare su tutto tutti e ogni cosa senza ritegno; e smentisce mai il suo livore, la sua insopprimibile tendenza a mentire, falsificare, calunniare. Di lui ho già commentato su questa rivista gli squallidi interventi su Philip Dick. Stavolta tocca a Céline di beccarsi palate di letame. Lo vediamo subito, con una raccomandazione: tenete gli antiemetici alla portata di mano.
L’intervistatore prelude con una di quelle domande da inchiodarti, alla Fabio Fazio: «Che rapporto ha con Céline?». Risposta: «Non sono un monomaniaco di Céline, come alcuni. Ma lo ammiro. Ho riletto il Viaggio molte volte, già meno Morte a credito, e arrivo fino a Da una castello all’altro».
L’intervista potrebbe finire già qui: Carrère conosce poco Céline. Eppure va avanti a parlarne per quattro pagine, e noi lo seguiamo. Secondo quello che non lo ha letto, il Céline «tardivo» sarebbe «nient’altro che punti esclamativi e di sospensione»; il meglio sarebbe il Voyage.
Ora, Viaggio al termine della notte è bensì un capolavoro ma non è il Céline rivoluzionario, furioso e massacrato. Chi conosca Céline – i «monomaniaci» per adoperare la grazia di quell’altro – lo sa; e lo sa perché è evidente e perché lo ha sempre detto Céline, che il Voyage appartiene a un’altra epoca, in tutto e per tutto, e quasi lo ha rinnegato. Ridurre poi Nord Rigodon Féerie a soli segni d’interpunzione è o da ignoranti o da disonesti.
Guerra poi, secondo il nostro magister, «non è affatto il classico inedito incompiuto». Come, prego? Da quando in Francia e in Italia è entrata in circolazione, tutti sanno e dicono e ripetono che Guerra è un’opera non rivista da Céline, il quale, come sa anche un frequentatore di wikipedia, era maniacale e ossessivo nella revisione della pagina. E Guerra non è stato rivisto quindi, a rigore, la verità, tanto per cambiare, è esattamente opposta a quella che dice Carrère.
Ma queste sono quasi quisquilie da (il)letterato. Il meglio, ovvero il peggio arriva adesso.
Ovviamente, visto che intervistatore e intervistato sono degli originaloni, si vira subito su antisemitismo e collaborazionismo. «Céline – ci illumina Carrère – è stato un genio della letteratura», cosa di cui nessuno si era mai accorto, ma altrettanto «l’autore di invocazioni antisemite spaventose e idiote»; e rincara: «È stato capace anche di idiozie da non credere, oltre ai pamphlet antisemiti», e cita la teoria céliniana del sosia di Hitler, messo alla guida del Reich dagli ebrei: «follia pura», per Carrère, che si ostina:
«Céline era questo. L’uomo animato da una profonda compassione per l’umanità degli umili, con questa specie di convinzione che la verità la si può trovare solo negli strati inferiori della società, solo in basso [un po’ di retorica ci sta bene]. Questo secondo me è il fondamento della sua grandezza, assieme alla prodigiosa esplosione della lingua. E allo stesso tempo c’è questa follia, la stessa che ritroviamo nei pamphlet antisemiti».
«Siamo più o meno tutti sensibili al genio di Céline. E al tempo stesso le sue posizioni non sono solo odiose ma anche piuttosto cretine».
Vediamo chi è l’odioso e il cretino.
Il riferimento, ça va sans dire, è a Bagatelle per un massacro, uno dei libri della storia letteraria più citati, meno letti e ancor meno capiti.
Faccio mie le parole di Carrère: «Bagatelle per un massacro è forse disponibile nei siti di estrema destra ma non in libreria». E già questo dovrebbe dirla tutta e lunga sulla condizione della nostra, o meglio: vostra democrazia, sul vostro liberalismo, libertà di stampa e altre buggerature. In un mondo in cui si pubblicano il Mein Kampf, de Sade, Aleister Crowley, Mario Mieli e svariati altri autori e libri contrari – ufficialmente – alla morale comune, censurare Céline è davvero da stracarogne, bastardi veri. In Italia in libro fu pubblicato dal meritorio Guanda, con traduzione (discutibile) di Giancarlo Pontiggia, nel 1981, ma subito ritirato dal mercato. Peraltro, i coglioni, con questa censura hanno lasciato in pasto Céline e Bagatelle a imbecilli neonazisti e simili, salvo poi lagnarsene.
A margine Carrère ripiglia per un momento le vesti del critico letterario, affermando che «nei pamphlet antisemiti Céline perde molto del suo talento, il livello letterario scende molto», altro non sarebbero, questi libri, che «imprecazioni e poco più».
Qui l’opinione è tutta mia (mica vero: c’è pieno di chi la pensa così) ed è che Bagatelle per un massacro, La scuola dei cadaveri e La bella rogna (titolo sbagliato, ma transeat), soprattutto il primo, sono tra i migliori lavori di Céline, per contenuti e per stile. E quando dico contenuti, non mi riferisco alle volate contro i «fratelli maggiori» che occupano uno spazio miserrimo a petto delle pagine, le più significative, sulla letteratura, sullo stile letterario, le consorterie medico-farmaceutiche, la pace, la guerra odiata, la patria. Lì dentro, tanto per dirne una, ci ho scoperto Eugène Dabit, che vale più di tutti i Carrère del mondo.
Il preteso antisemitismo di Céline, poi, è odio verso le consorterie bancarie che vollero e finanziarono la Prima guerra mondiale (e avrebbero finanziato anche la Seconda), rappresentate da personaggi solo per caso ebrei. Fossero stati inuit o kirghisi Céline non avrebbe adoperato parole più gentili.
Il collaborazionismo è un’altra porcata di Carrère, il quale anche qui si allinea alla loffia tiritera delle gazzette provinciali. Céline non si oppose al nazionalsocialismo con armi in pugno; ma lo fece alla sua maniera, con la rigolade – cifra tra le più perspicue della sua letteratura e della sua vita – e cercando di salvarsi il culo. Non solo: rischiò anche la ghirba sfottendo l’esercito del Führer e il Führer medesimo per due volte nell’ambasciata tedesca in Francia. L’episodio, parziale e taroccato, lo riferisce lo stesso Carrère in quest’intervista che passerà alla storia per una delle più gaglioffe, ridicole e infami. Il guru delle lettere francesi a brandelli, la faccio breve, proprio per dimostrare che Céline era un antisemita, e per soprammercato complottista, racconta che se ne venne fuori in ambasciata dicendo che nessun tedesco s’era accorto che Hitler, guerra durante, non era Hitler ma un sosia scemo messo lì dagli ebrei per mandar gambe all’aria la Germania, invitando contestualmente l’amico Gen Paul, pittore e guitto che s’era portato dietro apposta, a imitare il Führer. L’amico eseguì in maniera esilarante e irriverente, ed entrambi, immaginatevi, dovettero poi uscire per non finire in galera o al muro. Altri episodi di un Céline antitedesco ce ne sono, basta cercarseli. Uno su tutti: nel 1939 scoppia il conflitto e Céline, il collaborazionista, si arruola nuovamente nell’esercito francese, in guerra contro i tedeschi.
Mica finita. «Una cosa che mi infastidisce un po’ nei suoi libri scritti dopo il suo ritorno dalla Danimarca – pontifica Carrère – è l’autocommiserazione. Céline ritiene che gli siano state fatte le cose peggiori, quando, tutto sommato, non gli è andata così male». Intervistatore: «L’ha fatta franca?». «Beh, rispetto ad altri collaborazionisti con i nazisti, fucilati o imprigionati a lungo, tutto sommato… Céline è scappato dalla Francia per rifugiarsi in Germania, poi ha fatto un po’ di prigione [quattordici mesi, aggiunge l’intervistatore] in Danimarca, è tornato in Francia e finita lì. Il suo vittimismo non lo trovo giustificato».
Una lettura a dir poco sviante. La prigione fu durissima, come si evince dalle lettere scritte dalla cella, e Céline, uscitone, fu ricoverato, in regime di semilibertà, all’ospedale: immaginiamo perché godeva di ottima salute. Finita lì? Certo. Dopo la prigione, trascorse un lunghissimo periodo in una stamberga sul Baltico, senza riscaldamento, né acqua, né luce. Frattanto, nel 1950, la Francia vittoriosa e liberata gli allestisce un processo, imputato assente, proprio per collaborazionismo, da cui Céline esce con una condanna a solo un anno di prigione (ma con la macchia dell’indegnità nazionale e obblighi di risarcimento). Al processo testimoniò un ebreo: a favore di Céline.
Né Carrère, né l’intervistatore si ricordan poi di spiegare ai lettori, che per loro saranno tutti ignoranti, perché Céline sia fuggito dal suo Paese. Se la svignò perché gli intellettuali di sinistra e comunisti, partigiani e non, per mezzo della vox populi e dell’eroica Radio Londra lo avevano condannato a morte. Molti, come la tenia Sartre, poco avanti gli andavano a leccare il sedere, gli rubavano le idee, la ammiravano, dopo il Voyage dico; salvo poi, con tutto che crollava e loro dalla parte giusta, dove sempre saranno, maledirlo rinnegarlo ignorarlo e piantargli sul cranio una taglia, e che vinca il miglior sicario, avrà la sua bella pensione aggiuntiva, prebende letterarie e tutte le merende.
Altri sono i silenzi di Carrère (e dell’intervistatore) davvero vergognosi. Anzitutto su Denoël, primo e a lungo editore di Céline, assassinato a sangue freddo per motivi mai del tutto chiariti ma che facilmente possono essere ascritti alla colpa di aver pubblicato, tra gli altri, Bagatelle per un massacro. Non potendo ammazzare l’asino, gli eroi squarciaron la sella, e giustizia partigiana è fatta.
Altra amnesia riguarda un episodio atroce del 1968, in piena contestazione “studemocraticantifa”, allorché qualche zelante (e forse futuro lettore di Carrère), appiccò il fuoco alla casa di Céline, che, in parentesi, era morto da sett’anni. Ci crepò un povero cane e Lucette, la vedova dello scrittore, si salvò solo perché in quel momento era assente.
Carrère ne ha anche per François Gibault, storico esperto e biografo di Céline, tra i massimi al mondo, la cui prefazione a Guerra «è problematica, non funziona». Perché? Ed ecco un vero colpo di teatro, di quelli che non ti aspetti. Gibault tace «l’antisemitismo di Céline, il suo collaborazionismo con i nazisti e gli orrori invocati in Bagatelle per un massacro, alla fine si ha l’impressione che Céline sia un pacifista». Peccato che Céline fu un pacifista, anche se non nel senso dei cretini moderni pacifinti. La guerra l’aveva vista e fatta e non ne poteva più. Eppoi basta leggere i romanzi e le lettere di Céline per capire se egli fosse o non fosse guerrafondaio o un filonazista. Tanto per dire: il Voyage, che Carrère dice d’aver letto, sembra per caso un libro guerrafondaio? Trovate una sola pagina di Céline in cui inneggi al massacro? Loro sono quelli che lo fanno, lo istigano, lo vogliono, ne godono!
Carrère omette anche di ricordare un episodio molto eloquente della vita di Céline, vale a dire l’eroismo dimostrato dal futuro scrittore durante la Prima guerra mondiale (peraltro l’oggetto proprio di Guerra) e che viene ricordato, ops!, da Gibault nella prefazione «problematica». L’allora Louis Destouches fu ferito durante un’operazione che gli valse, spiega Gibault, «la medaglia militare, legion d’onore dei sottufficiali e dei soldati semplici, e poi la Croce di Guerra appena venne istituita nell’aprile 1915». Il capitano Schneider, ci dice ancora Gibault, comandante del 2° squadrone del 12° reggimento corazzieri, in cui Céline prestava servizio, scrive al padre di questi:
«Suo figlio è stato ferito, è caduto da valoroso, andando incontro alle pallottole con un impeto e un coraggio che non sono mai venuti meno dall’inizio della campagna».
Se volete conoscere Céline, liberato da detrattori e contraffattori, leggetevi i libri di Marina Alberghini, sulla quale ho scritto in questa rivista. Di recente ha pubblicato uno splendido Céline e le donne (Solfanelli).
Ma tutto l’atteggiamento di Carrère non è forse esso stesso una forma di collaborazionismo? Non è forse adesione perinde ac cadaver al pensiero dominante? Non è forse menzogna, delazione, censura, connivenza con l’assassino? Sono stanco di credere che si tratti solo di normali pregiudizi e di disinformazione; ma se anche fosse così, allora sarebbe meglio tacere, non far intervistare da gente che non sa nulla altri che ne sanno ancor meno e quel che sanno è scontorto, deformato, piegato alle proprie esigenze, alla propria smania di farsi accreditare e applaudire una volta di più.
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I manoscritti rubati
Quanto a Guerra vale la pena di riferire la vicenda. Céline aveva sempre denunciato la devastazione del suo appartamento da parte dei resistenti dopo la sua fuga, nonché la sparizione di alcuni suoi manoscritti, dei quali per decenni non si seppe più alcunché. Sino a quando, due anni fa, tal Jean-Pierre Thibaudat, un critico teatrale del quotidiano «Libération», li estrasse dal cilindro, dicendo di averli ricevuti anni prima da Yves Morandat, un partigiano.
Secondo Carrère, Thibaudat, che conosce, è «persona del tutto stimabile» e il motivo dell’insegretimento dei manoscritti da parte sua sarebbe il rispetto della volontà di Morandat, il quale «non voleva che quei fogli finissero nelle mani di qualche gruppuscolo di estrema destra». Una giustificazione idiota e falsa. Come avrebbero potuto infatti finire quei manoscritti in “mani nere” se l’unica erede era per l’appunto Lucette? La verità è un’altra: Morandat e il suo giro non voleva che il mostro e Lucette godessero dei legittimi diritti d’autore, e quindi attesero che entrambi finissero nell’Ade.
Ma adesso lasciamo Carrère e quelli come lui e parliamo un po’ di Céline e di questo suo inedito.
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Guerra e creatività
Non sono un critico letterario, né ambisco a esserlo, al contrario di altri ciarlieri ciarlatani, e neppure un «monomaniaco» di Céline; sicché preferisco limitarmi ad esser felice per questo inedito, da leggere perché qui Céline racconta uno stralcio della sua esistenza tra i più crudi e spassosi insieme e che ci può aiutare – e credo sia questa la novità più rilevante di Guerra – l’origine delle visioni céliniane evidenziate magistralmente da Marina Alberghini in Céline magico (Solfanelli).
Guerra si apre con Céline a terra e ferito, mezzo sciancato e per alcune pagine emergono forti riferimenti a problemi uditivi:
«L’orecchio era poltiglia sonora, le cose non erano affatto le stesse né più come prima. Sembravano mastice, gli alberi non stavano mai fermi, la strada sotto le scarpe faceva salite e discesette […]. Pensavo che avrei risvegliato la battaglia da tanto rumore che facevo dentro. All’interno facevo più rumore io di una battaglia […]. Tutt’intorno a noi i campi rotolavano, si gonfiavano in grandi gobbe mobili come se ratti enormi sollevassero le zolle spostandosi sotto i solchi. Magari erano pure persone. Una massa, un esercito tipo rasoterra… Si muoveva come il mare con vere e proprie onde… Facevo meglio a starmene seduto. Soprattutto con i rumori di quella tempesta che mi passavano tra le orecchie. Dentro la testa ero ormai solo una corrente d’aria di uragani […]. Nel rumore in fondo alla mia testa erano pigiate assieme tutte le ruote, tutte le carni, tutte le idee della terra».
Eppoi la frase che hanno scelto per accompagnare il libro: «Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l’ho chiusa nella testa».
Per tutta la vita Céline soffrì di acufeni, pare anche della sindrome di Ménière, un disturbo che ti fa sentire ogni sorta di rumori inesistenti all’esterno.
Mi sono sempre chiesto da dove provenisse la capacità visionaria di Céline, soprattutto la capacità di riprodurre sul foglio il suono, soprattutto i rumori della vita, e non avevo mai pensato alla guerra e alle sue conseguenze. Non sottovaluterei questa possibilità. Lo stesso Beethoven – come ci spiega magistralmente Piero Buscaroli sulla scorta di vari ausilii nella sua biografia del compositore (Beethoven, Rizzoli 2004) – poté comporre i suoi lavori più alati e profondi proprio grazie alla sordità. Se ne avvide anche un finissimo auscultatore senza dotazioni tecniche musicali, ossia Julien Green, citato da Buscaroli stesso, che nel Journal osserva:
«A me sembra che Mozart abbia accettato il linguaggio del suo tempo e non si sia posto l’idea di una musica per l’avvenire. Beethoven, invece, il veemente desiderio di creare qualche cosa di nuovo l’ha avuto. Negli ultimi Quartetti ci sono sonorità parsifaliane, ma ebbe mai l’autore il preciso sentimento che dava la sua musica? L’occhio non basta, per sentire. Il tema della Grande Fuga mi è sempre apparso alquanto sgradevole. Forse la sordità di Beethoven ha liberato la musica. Non si poteva continuare all’infinito con Mozart. Ci voleva un sordo per farci sentire qualche cosa di diverso».
Per Céline potremmo parafrasare: Ci voleva un invalido di guerra per farci leggere qualcosa di diverso.
In aggiunta a ciò, dobbiamo rilevare che Céline non era un letterato di professione, né era dotato di una cultura letteraria pari a quella di qualsiasi altro scrittore e anzi si può dire che in tal senso avesse lacune ragguardevoli e ciò gli permise di non essere influenzato da maestri e modelli, che infatti non aveva. Questa sorta di isolamento letterario più la menomazione acustica e nervosa sono forse state le fonti primigenie della sua scrittura. Certo, ciò non basta a lumeggiare la prosa e le visioni di Céline, bisogna aggiungerci anche qualche farmaco e senz’altro forza di volontà, rabbia e genio. Ma può essere una strada non secondaria da battere.
Luca Bistolfi