17 Ottobre 2022

Céline: lo scrittore scandaloso che amava i gatti e che tutti volevano morto

«Mancando in italiano una biografia di Céline, il lettore dovrà ricorrere ai tre tomi… di François Gibault», avvertiva con tanta nonchalance Gianni Celati nella «Documentazione su L.-F. Céline» contenuta in Guignol’s Band I e II (Einaudi-Gallimard). Era il 1996 e sarebbero occorsi ancora oltre vent’anni e un intruso nelle faccende letterarie per colmare lo sconcertante silenzio, dovuto, a sinistra, per consuete censura e ottusità, e a destra idem.

Artista figurativa e amante ed esperta di gatti, basi entrambe fondamentali della sua attività di scrittrice, anomalia eccentrica e silenziata nella repubblica delle lettere italiana, Marina Alberghini è l’autore della prima e unica biografia céliniana in circolazione. Occorreva un tipo simile per rimediare alla vergogna. L’opera uscì la prima volta per Mursia nel 2009 in volume unico col titolo Louis-Ferdinand Céline gatto randagio, per poi separarsi nel 2021 in due tomi, Lo scandalo 1894-1944 e Il riscatto 1944-1961. Un totale di mille e duecento pagine, davanti a cui però il lettore non deve scoraggiarsi, ché ti divorano.

Come si dovrebbe sapere e come ho già detto altrove, l’arte biografica è complessa e costellata di ostacoli. Noiosa può essere la ricerca dei documenti e difficile architettare una narrazione che non uccida personaggio e lettore. Marina Alberghini va ben oltre e restituisce un Céline vivo. Poche, pochissime biografie hanno questa capacità, e verrebbe da dire che solo un artista può parlare di un altro artista, motivo per cui gran parte delle biografie risulta scialba, sciatta, museale, mummificata e invece di avvicinare al personaggio, respinge. Inoltre Alberghini ha il raro dono dell’onestà. Se sbaglia, è per eccesso di passione.

La scrittrice legge tutto Céline, tutto davvero, e in lingua originale. Le numerose citazioni dell’opera sono la sua versione, anche se non sempre impeccabile. Alberghini ha anche intervistato persone vicine a Céline e la vedova Lucette, l’ultima moglie. Ci sono biografi che non escono di casa.

Dal testo emergono novità documentali, inquadrature inedite, prospettive originali e intelligenti. Scelgo quasi a caso. È la prima volta che un lavoro dedicato a Céline non mette mai mille mani avanti per specificare che egli era bensì un grande scrittore ma anche e soprattutto un antisemita e un collaborazionista. Alberghini si tiene ben lontana da simili porcate, dimostrando anzi che Céline non collaborò, mai, con i tedeschi e rivelando qualcosa che chiunque fosse onesto dovrebbe sapere e dire, ossia che al processo per collaborazionismo Céline fu, in primis, scagionato del tutto e, in secondo luogo, scagionato del tutto anche grazie alla testimonianza di ebrei, che avevano già in precedenza preso le difese e dello scrittore e dell’uomo. Dall’altro lato Alberghini mostra sotto un’impietosa luce le vergognose infamie – calunnie, condanne a morte ex populo, galera (diciotto mesi) – che si abbatterono sullo scrittore per demoniaco volere dei democratici finanziatori di Radio Londra e dei partigiani rossi, così come dell’intelligentsia comunista franzosa, a cominciare da Jean-Paul Sartre, in uno di quei tanto noti e sordidi intrighi tra estremisti e moderati (questi peggiori dei primi).

Se Céline non avesse preso il largo gli avrebbero fatto la pelle, letteralmente: lo sanno tutti, pochissimi lo dicono, meno ancora lo evidenziano. Per amor di patria, ovvio. Lo stile resistenziale si declina prima nel sangue, poi nel silenzio.

Secondo Alberghini l’accanimento “meritato” da Céline fu dovuto a Mea culpa e ad alcuni passaggi anticomunisti di Bagatelle per un massacro, il libro maledetto e ancor oggi proibito, in Italia, in Francia, ovunque, entrambi momenti in cui il genio di Courbevoie denuncia lo schifo visto in Unione Sovietica. Sgarro ai padroni del discorso, o che si accingevano a diventarlo, cui s’aggiunse il rifiuto di aderire al partito comunista francese da parte dell’autore d’un libro, a detta dell’interessato stesso, «comunisteggiante», che è il Voyage.

Dunque Céline traditore a tutto tondo e, per soprammercato, demistificatore. La libertà si paga carissima, e sono soprattutto quelli che se ne riempiono le fauci a essere i più violenti, i più fascisti, i più bugiardi, i più pericolosi.

Una perla della biografia è l’appendice, dedicata a un paragone tra Céline e Dante Alighieri. Autori più distanti, di prim’acchito, non si potrebbero immaginare. Eppure l’analisi di Alberghini è credibile, tanto nel raffronto, quanto nel riuscito tentativo di illuminare il destino infausto di cervelli indipendenti, serviti che peggio non si potrebbe dai loro connazionali sordi e ciechi davanti al genio e ai suoi ammonimenti.

Merito speciale di questa biografia è l’attenzione per gli animali. Gli intellettuali per il solito snobbano il mondo cosiddetto inferiore o al massimo lo tengono come nota di colore. Alberghini invece ci mette l’accento, e con soverchia lungimiranza perché su un uomo e su uno scrittore dice molto di più il suo rapporto con gli animali (mi verrebbe da dire: soprattutto con i gatti!) che mille ciarle, e soltanto un’anima di plastica può ignorare, per lucida decisione o per limiti indotti dal milieu culturale antropocentrico, l’importanza del rapporto con gli animali e del rapporto di Céline con gli animali. Basti leggere il breve ma bruciante e splendido passo in cui lo scrittore francese racconta la morte di Bessy, la cagna che s’era portato dall’esilio sul Baltico, oppure sapere che il loquace Céline, quando morì il gatto Bébert, forse l’animale più famoso della letteratura, non disse né scrisse una parola. Chi ha un legame con un animale e in ispecie con un gatto capisce benissimo.

C’è un episodio della biografia di Céline e di Bébert, sublime e commovente, che da solo potrebbe valere tutta l’opera di Alberghini.

Céline e la moglie Lucette sono a Sigmaringen e debbono partire, per l’ultimo tratto di fuga verso la Danimarca, sotto le bombe e le mitragliate della guerra. Bébert li accompagna da Parigi, ma adesso è troppo rischioso portarselo dietro, per tutti. Sicché decidono di lasciarlo in custodia al salumaio della cittadina, il quale, per evitare che il gatto scappi e affinché si tranquillizzi, lo chiude nel magazzino del negozio, con l’intenzione di liberarlo il giorno appresso, quando Louis e Lucette saranno già parecchio lontani. Detto e fatto, sennonché, una volta giunti in stazione, Louis e Lucette si vedono arrivare incontro la creatura. Ha il mantello ricoperto di frammenti di vetro perché aveva sfondato la finestra del magazzino per raggiungere i suoi compagni di viaggio. Solo gli dèi sanno come avesse capito le intenzioni di Céline e come abbia trovato la strada per la stazione.

Nessun céliniano o “célinologo” porrà mai l’accento sull’episodio sublime e straziante di Sigmaringen, si preferisce blaterare della presenza di Céline in Germania, accanto a Pétain e ai tedeschi fedeli al Reich. Vale poi di passata sottolineare però che né Alberghini, né Céline portano la benché minima traccia di retorica animalista, che oggi va tanto di moda. E sia lode al Cielo!

La passione di Marina Alberghini per lo scrittore di Meudon trova ricetto in altri tre libri: Céline magico, Il vizio di essere uomini e Céline e le donne, tutti per Solfanelli. Céline magico riprende un aspetto già presente nella biografia e anch’esso per il solito trascurato da critica e lettori, ossia le esperienze trascendenti che si ritrovano nei romanzi. Pare che Céline fosse dotato d’una capacità diremmo metafisica, una capacità di intercettare l’oltre che si cela dietro il velo di Maya. Leggere per credere.

Il vizio di essere uomini per certi versi vola assai più basso, ma per altri svetta. È infatti dedicato al Céline medico, analizzato al microscopio, e del quale Alberghini traduce per la prima volta alcuni scritti del periodo in cui Céline lavorava presso la Società delle Nazioni. È un libro straordinario perché ci aiuta a capire meglio la grandezza umana di Céline, oltreché la sua generosità, la sua lungimiranza (era un sostenitore dell’omeopatia e della fitoterapia), la sua diffidenza e la sua ostilità verso la classe medica e verso il mercato farmaceutico di cui erano vittime i malati.

Il terzo studio non necessita di spiegazioni.

Curiosissimo come Alberghini sia arrivata a Céline. Nemmeno sapeva chi fosse e un’amica le accenna a uno scrittore francese in fuga sotto i bombardamenti con la moglie e un gatto, Bébert. Si incuriosisce seduta stante e presto se ne innamora. Aver ella stessa raccontato la scaturigine della sua ricerca disarma per onestà e la dice lunga sul personaggio. Chiunque altro avrebbe taciuto o mentito non tanto per il gatto, quanto piuttosto per non dover ammettere di non aver mai nemmeno sentito nominare l’autore del Viaggio al termine della notte.

L’amore per i gatti unito al fascino per gli irregolari induce Alberghini a indagare anche altre biografie. Nascono così Il gatto cosmico di Paul Klee, L’angelo libertino, un meraviglioso profilo di Paul Léautaud, figura trascuratissima, e Gatti e ribelli e Gatti e artisti, due sillogi che illustrano lo speciale rapporto dei protagonisti umani con i protagonisti felini. Davvero mirabile è il capitolo, presente nel primo libro, su Charles Bukowski, scrittore a cui critica e lettori prestano perlopiù attenzione per via delle sue “sporcaccionate” (peraltro irresistibili e spassose) ignorando però il suo amore per i gatti, che ha dato vita anche a commoventi pagine.

E tu vuoi che questa scrittrice non si sia occupata anche del creatore di una delle figure gattesche letterarie più memorabili? Il sorriso del gatto è una stupenda biografia di Lewis Carroll, da cui emerge tutta la magia del grande scrittore inglese e che, tra le altre cose, finalmente fa piazza pulita delle dicerie sulla sua pedofilia. A giudizio di Alberghini Carroll, olteché un genio, era un’anima delicata e impacciata, vissuta nell’infanzia in un ambiente oppressivo e soffocante e che ha trovato una via d’uscita rifugiandosi nel mondo dei bambini. È molto facile oggi pensare male di Carroll. Ma omnia munda mundis!

Purtroppo Alberghini, forse perché compresa dal sacro fuoco della scrittura e della passione per i suoi autori, non di rado ha una prosa spericolata e costella le sue opere di svariati refusi. La capiamo e la perdoniamo. Chi non è comprensibile né perdonabile sono invece i suoi editori, che sembra non abbiano letto i lavori o lo abbiano fatto in maniera a dir poco superficiale. Soprattutto da Mursia ci saremmo aspettati maggiore attenzione. Tuttavia il lettore attento saprà porre rimedio da sé all’incuria e soprattutto non sarà certo questa a oscurare l’arte di Marina Alberghini, uno dei pochissimi scrittori viventi schietti, sinceri, intelligenti, che non soltanto possono arricchire il nostro bagaglio culturale ma anche nutrire il nostro spirito. Gliene rendiamo grazie. E che gli dèi gliene rendano merito.

Gruppo MAGOG