Come si fa a leggere Čechov? O si prendono i due mattoncini della Garzanti e si prega la buona sorte che non siano stati esclusi dalla scelta antologica le cose piccole ma efficaci del russo; oppure si scappa in biblioteca, quando mai verrà riaperta, e si sfogliano le traduzioni storiche, più ‘risalenti’ e forse più poetiche di altre, svolte da Agostino Villa con Einaudi.
La seconda mossa richiede al lettore un alambicco. Prendere Čechov, trapiantarlo mentalmente in America e farlo reagire con Dostoevskij. Rilevare come ne viene fuori, giulivo, il vecchio Faulkner.
Oppure combinare Čechov con un’altra soluzione e ricavarne Salinger. Se non vi siete stufati, immergere Čechov in soluzione acida: avrete un minore (chissene: comunque si chiama Cheever).
Volete forse un cocktail più di moda? Fate incontrare Čechov con Carver e vedrete subito un sosia di infimo livello del russo. Nella sontuosa e pacchiana (fin dal titolo) edizione Einaudi Di cosa parliamo quando parliamo d’amore Carver se ne viene fuori con un raccontino che è un elogio sperticato del maestro. Fin dall’esordio: “Čechov. La sera del 22 marzo 1897 andò a cena, a Mosca, col suo amico e confidente Alexei Suvorin. Questo Suvorin era un ricchissimo editore di libri e di giornali, un reazionario, un uomo che si era fatto da sé. Suo padre aveva combattuto come soldato semplice nella battaglia di Borodino…”.
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Siete un gocciolo curiosi, ora, di vedere un dialogo maestoso tra Čechov e, che so, Tolstoj? Continuate a leggere il raccontino fesso di Carver. A proposito, di là dalla tenue ironia esercitata sia da Čechov che da Carver sui loro materiali narrativi, io non riesco a vedere analogia tra i due, nonostante le fascette editoriali e gli avvisi di garanzia dei geriatrici gerarchi culturali. Pazienza, mi sarò perso qualcosa.
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Così Carver scolpisce il suo idolo: “Anche Lev Tolstoj si recò a fargli visita. Trovarsi di fronte al più grande scrittore del paese ispirò un reverente timore al personale della clinica. Non era forse l’uomo più famoso di tutta la Russia? Dovevano per forza permettergli di vedere Čechov, anche se i medici avevano proibito le visite ‘non essenziali’. Così, circondato dagli ossequi rispettosi delle infermiere e dei dottori, il vecchio dall’aspetto fiero e barbuto fu fatto entrare nella stanza di Čechov. Nonostante non avesse una grande opinione delle capacità drammaturgiche di Čechov (Tolstoj considerava i suoi drammi statici e privi di tensione morale. ‘Dove vi portano i vostri personaggi?’, chiese una volta a Čechov. ‘Dal divano al ripostiglio e viceversa’), Tolstoj ammirava i suoi racconti. E ancor di più, semplicemente, ammirava l’uomo”.
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Chi vuole può saltare questo paragrafo.
Cito ancora Carver perché mi serve a far risaltare le differenze di scrittura con Čechov, alla fine. “Tolstoj si tolse la sciarpa di lana e la pelliccia d’orso e si sedette su una sedia accanto al letto di Čechov. Non si curò del fatto che l’infermo era sotto cura e che gli era stato addirittura proibito di aprire bocca, figurarsi quindi se poteva sostenere la fatica di una conversazione. Čechov si ritrovò ad ascoltare, con un certo stupore, le disquisizioni del conte sulle sue teorie dell’immortalità dell’anima. A proposito di quella visita, più tardi Čechov scrisse: ‘Tolstoj crede che tutti noi (uomini o animali, non importa) continueremo a vivere sotto forma di principio (come la ragione o l’amore) la cui essenza e i cui fini sono per noi un mistero. …Non so che farmene di una tale immortalità. Non la capisco e Lev Nicolaevič ne è rimasto molto stupito’”.
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Fine della carrellata.
Čechov è superiore: ha racconti che mi hanno fatto ballare il tango come Incubo, Un bacio, Ariadna, Dalle memorie di un uomo impulsivo, Una crisi di nervi e potrei dire altro ma saremmo sempre nel vago perché i suoi titoli sono, appunto, vaghi. Salvo rare eccezioni, dove comunque si vola sempre basso: Reparto n. 6. (Era medico, il grand’uomo…)
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Volete un attacco alla Čechov? Eccolo servito: “Per ragioni di cui non è questo il momento di parlar minutamente, mi si rese necessario farmi assumere come cameriere in casa di un funzionario pietroburghese, certo Orlov. Aveva costui trentacinque anni circa, e aveva nome Gherorghij Ivanyc”. Il racconto di uno sconosciuto è qui, il tema è come in Karenina ma al confronto il capolavoro del conte Tolstoj è un algoritmo, un dolmen. Ma non è detto che a tutti piaccia l’arte primitiva…
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Sciocchezze di lettore a parte, adesso obbligo voi a leggere questo racconto che tempo addietro, quand’ero giovane e bello, inserii in un libro di scuola per il biennio. Fu una scelta da minchione. La figura centrale, infatti, è molto bovaristica; all’epoca non conoscevo nemmeno il significato della parola.
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La moglie del farmacista fu composta dal nostro divo da giovane, a 26 anni. Mi piacque per il titolo. Da tre lustri mi sta conficcata nella memoria questa immagine: a sinistra del bivio, mia madre a casa che legge due libri spaiati di Čechov; a diritta sta Sherlock Holmes, a destra non si va da nessuna parte mentre la via che mi sono lasciato alle spalle è il passato, cioè l’errore.
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Entrate anche voi nella bottega del farmacista, senza farvi vedere dalla signora. Sempre che non vogliate cascare in trappola. Come ha scritto Stendhal – quasi anticipando Ĉechov, direbbe il comitato Adelphi – “una delle cause più comiche delle avventure amorose, sono i falsi colpi di fulmine. Una donna annoiata, ma priva di sensibilità, si crede durante tutta una sera innamorata per la vita. È orgogliosa d’aver finalmente trovato uno di quei grandi movimenti dell’anima che la sua immaginazione inseguiva. Il giorno dopo non sa più dove nascondersi, e soprattutto come evitare il disgraziato che il giorno prima adorò”. (Andrea Bianchi)
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Anton Ĉechov, La moglie del farmacista
La cittaduzza di B., composta di due o tre vie storte, dorme d’un sonno durissimo. Nell’aria stagnante, silenzio. Si sente solo, in qualche posto lontano, probabilmente fuori di città, un cane che abbaia con fievole, arrochita voce tenorile. Presto sarà l’alba.
Tutto da un pezzo ormai si è chetato. Non dorme soltanto la giovane moglie dell’aiuto farmacista Cernomordik, titolare della farmacia di B. S’è coricata già tre volte, ma il sonno si ostina a non venire; e non si sa perché. Sta seduta presso la finestra aperta, in sola camicia, e guarda nella via. Soffoca, si annoia, è di cattivo umore… così cattivo che ha perfino voglia di piangere; ma perché, daccapo non si sa. Come un nodo le sta in petto e di continuo le sale alla gola… A tergo, a qualche passo dalla moglie del farmacista, rannicchiato contro la parete, ronfa dolcemente lo stesso Cernomordik. Un’avida pulce gli si è confitta alla radice del naso, ma egli non sente ciò e sorride perfino, poiché sogna che tutti in città tossiscono e ininterrottamente comprano da lui le gocce del re di Danimarca. Ora non lo sveglieresti né con le punture, né col cannone, né con carezze.
La farmacia si trova quasi all’estremo della città, così la farmacista in distanza può veder la campagna. Ella vede come a poco a poco imbianca il lembo orientale del cielo, come poi s’imporpora, quasi per un grosso incendio. Inaspettata, da dietro un lontano cespuglio, striscia fuori una luna grande, dall’ampia faccia. È rossa (in generale la luna, uscendo da dietro gli arbusti, è sempre, chi sa perché, enormemente confusa).
D’un tratto, in mezzo alla quiete notturna risuonano passi di qualcuno e un tintinnio di speroni. Si odono voci.
“Sono gli ufficiali che dalla casa del capo di polizia vanno al campo”, pensa la farmacista.
Dopo un po’ di attesa, compaiono due figure in bianche tuniche d’ufficiale: una grande e rossa, l’altra più piccola e sottile… pigramente, passo passo, si trascinano lungo la stecconata e discorrono forte di qualche cosa. Giunte a pari della farmacia, le due figure cominciano ad andare ancor più piano e guardano le finestre.
– Odora di farmacia… – dice lo smilzo. – Ed è la farmacia! Ah. rammento… La settimana scorsa fui qui, comprai dell’olio di ricino. C’è anche un farmacista con un viso acido e la mascella asinina. Quella, caro, è una mascella! Proprio con una così Sansone sconfiggeva i filistei.
– Ma sì… – dice il grosso con voce di basso. – Dorme la farmacia! Anche la moglie del farmacista dorme. C’è lì, Obtesov, una farmacista bellina.
– Ho visto. M’è piaciuta molto… Dite, dottore, possibile ch’ella sia in grado di amare quella mascella d’asino? Possibile?
– No, probabilmente non l’ama, – sospira il dottore con un’espressione come se gli dolesse pel farmacista. – Dorme ora la mammetta dietro la finestrella! Obtesov, eh? Si è distesa dal caldo… la boccuccia semiaperta e un piedino penzoloni dal letto. Quel babbeo del farmacista, penso, di questo ben di Dio non capisce nulla. Per lui, credo che sia una donna o che sia una damigiana d’acido fenico, fa lo stesso!
– Sapete che cosa, dottore? – dice l’ufficiale, fermandosi. – Su, entriamo in farmacia e compriamo qualcosa! Vedremo forse la farmacista.
– Che vi salta in mente; di notte!
– E che fa? Son ben tenuti a vendere anche di notte. Colombello, entriamo!
– E sia…
La moglie del farmacista, nascostasi dietro la tendina, ode una rauca scampanellata. Volta un’occhiata al marito, che russa come prima dolcemente e sorride, si getta addosso la veste, calza le babbucce sui piedi nudi e corre in farmacia.
Dietro la porta a vetri si vedono due ombre… La moglie del farmacista alza la fiamma e si affretta alla porta per aprire, e più non si annoia, e non è di cattivo umore, e non ha voglia di piangere, ma solo le batte forte il cuore. Entrano il dottore grassone e lo smilzo Obsetov. Ora li si può esaminare. Il panciuto dottore è abbronzato, barbuto e senza agilità. A ogni minimo movimento la tunica gli fruscia addosso, e sul viso gli spunta il sudore. L’ufficiale invece è roseo, senza baffi, femmineo e flessibile come un frustino inglese.
[I due avventori si fanno servire dalla moglie del farmacista. Dapprima chiedono delle pasticche di menta – dettaglio da tenere d’occhio – e poi del vino rosso, facendo i cascamorti. L’autore dà fondo alle sua abilità sceniche e teatrali.]
– Che civettina, però, siete voi! – ride piano il dottore, guardandola di sotto in su, con aria scaltra. – I vostri occhietti sparano a tutt’andare! Pif! Paf! Complimenti: avete vinto! Siamo battuti!
La farmacista guarda i loro visi coloriti, ascolta il loro chiacchierio e ben presto si anima ella stessa. Oh, si sente già così gaia! Entra in conversazione, ride, civetta e beve, perfino, dopo lunghe preghiere dei clienti, un paio d’once di vino rosso.
– Se voi, ufficiali, da campi veniste un po’ più spesso in città, – ella dice, – se no qui è tremendo, come ci si annoia. Io ci muoio, semplicemente.
– Sfido! – dice inorridito il dottore. – Un ananasso simile… un miracolo della natura, e in un sito sperduto! Benissimo si espresse Griboiedov: “In un sito perduto! a Saratov!”. È ora che andiamo, però. Molto lieto della conoscenza… lietissimo! Quanto dobbiamo?
La moglie del farmacista leva gli occhi al soffitto e muove a lungo le labbra.
– Dodici rubli e quarantotto copeche! – dice.
Obtesov cava di tasca un grosso portafogli, rovista a lungo in un fascio di biglietti e regola il conto.
– Vostro marito dorme soavemente… sogna! – egli sussurra, stringendo a commiato la mano della farmacista.
– Non mi piace ascoltare sciocchezze…
– Ma quali sciocchezze? Al contrario, non son punto sciocchezze… Perfino Shakespeare disse: “Beato chi da giovane fu giovane!”.
– Lasciate andare la mano!
Infine i compratori, dopo lunghi discorsi, baciano alla farmacista la manina e irresoluti, come dubbiosi di aver scordato qualche cosa, escono dalla farmacia.
E lei corre rapida nella stanza da letto e siede a quella stessa finestra. Vede come il dottore e il tenente, usciti dalla farmacia, pigramente se ne scostano una ventina di passi, poi si fermano e cominciano a bisbigliarsi qualcosa. Che cosa? Il cuore le batte, le tempie pure le pulsano, e il perché ella stessa non sa… Forte palpita il cuore, come se quei due, bisbigliando laggiù, decidessero la sua sorte.
Di lì a un cinque minuti il dottore si stacca da Obsetov e va oltre, e Obsetov ritorna. Egli passa davanti alla farmacia una volta, un’altra… Ora si ferma accanto alla porta, ora da capo cammina a gran passi… Infine il campanello tintinna cautamente.
– Chi c’è? Chi è là? – ode la farmacista d’un tratto la voce del marito. – Suonano, e tu non senti! – dice severo il farmacista. – Che disordini son questi!
Egli si alza, indossa la veste da camera e, tentennando nel dormiveglia, ciabattando, va in farmacia.
– Che cosa… volete? – domanda ad Obsetov.
– Date… datemi quindici copeche di pastiglie di menta.
Con un ronfare interminabile, sbadigliando sonnacchioso, e dando nei ginocchi contro il banco, il farmacista sale al palchetto e raggiunge il barattolo.
Dopo due minuti la moglie del farmacista vede come Obsetov esce dalla farmacia e, fatti pochi passi, scaglia sulla strada polverosa le pasticche di menta. Da dietro l’angolo gli viene incontro il dottore. I due si riuniscono e, gesticolando con le braccia, scompaiono nella nebbia mattutina.
– Come sono infelice! – dice la farmacista, guardando con astio il marito che si sveste rapidamente, per rimettersi giù a dormire. – Oh, come sono infelice! – ripete, sciogliendosi in un tratto in amare lacrime. – E nessuno, nessuno sa…
– Ho dimenticato le quindici copeche sul banco, – borbotta il farmacista, coprendosi con la coperta. –Riponile, per favore, nella scrivania.
E subito si addormenta.
Anton Čechov