
“Non ho più idoli”: dialogo con Davide Tura, pianista e compositore
Dialoghi
Clery Celeste
Miscelo parole e note musicale per il carburante del fuoristrada UAZ-CCCP macinante leghe di sassi e terra ocra sulla rotta Berlino Est-Istanbul-Mosca-Capo Dežnëv. La canzone che preferisco dei CCCP è Punk Islam. Nel testo, c’è una strofa che mi proietta in uno stato di forte eccitazione psico-fisica:
Mi sono perso ad Istanbul
e non mi trovano più
dovrebbero seguire le mie voglie
la sera appena alzato
o tardi la mattina
dopo la colazione
prima di addormentarmi
Ho ascoltato Punk Islam 18.456.666 volte e non mi stufo. Non so bene cosa mi immagino quando alzo impestato il volume della vecchia astronave novecentesca hi-fi del Regno di Danimarca Bang & Olufsen BeoCenter 9500 con quelle due casse artigianali dell’Anno Domini 1968, il tutto ereditato da mio nonno, di quando c’era il caldo benessere nordoccidentale industriale, in un’altra era di lussi, per morire di look, per morire con lo stereo a tutto volume. L’apparecchio dei primi ’90 ma degli ultimi del millennio morto sembra uno specchio magico: ne sfiori la superficie con le dita, ed ecco che per magia si accendono lucette e spie; e allora che le lucette verdi del volume si moltiplichino senza remore, in una scia luminosa che si fa via via più lunga sulla specchio, e i timpani scricchiolano, ma beati e dopati. I vicini non gradiscono, amen, perché oggi non importa, oggi son maleducato, che chiamino pure i civich, mi nasconderò nel frigo.
ho un passato e un futuro
ho un presente che è Dio
e fa la cameriera
non ne girano molte
solo nei posti giusti
Cambio idea e ora so che cosa mi immagino ascoltando Punk Islam, e non è un goffo tentativo di svelare parole in poetica successione criptica, non sono bravo nella parafrasi. Sono veloci e personali proiezioni mentali di Islam difformi, di angoli mediorientali e nordafricani scossi da versi enigmatici, di piste polverose su cui traballano al ritmo rock vecchi bus colorati e sovraccarichi di uomini e cose, di caravanserragli in agitazione, di minareti con altoparlanti gracchianti sinuosi baccani di chitarra-basso-drum machine su piazze affollate di chador neri e venditori ambulanti, l’esotico nuovo. È una roteante ed estatica danza punk-derviscia. Un rapimento, un’estasi. Su, dai, viaggiamo dal porto libico di Sirte fino al Corno d’Oro di Istanbul, nella confusione vociante del Gran Bazar o attraverso la Porta Imperiale per poi trovarci turchi di domani sotto la cupola di Santa Sofia o a spasso nelle vie genovesi di Galata, e senza stanchezza ci dirigiamo ancora più ad Oriente, nell’Iran rivoluzionario di Khomeini fino addirittura nell’Afghanistan in guerra, stavolta non siamo in montagna coi mujahideen e Rambo III armati con missili stinger del Massachusetts, ma con le brigate spetsnaz dell’Armata Rossa nei valichi dell’Hindu Kush; però invertiamo bruschi la rotta per entrare a Tripoli nel 1984 perché:
Allah è grande e Gheddafi è il suo profeta!
Bagliori storici, echi geografici: io in Punk Islam ci vedo tutto questo; probabilmente è solo un mio delirio anni ‘80, ma un delirio che amo.
Dito indice sul tasto luminoso Stop dell’hi-fi del nonno. Calma apparente. A Berlino Ovest è il 1981: tetro fascino storico, quartieri turchi, archeologia industriale, giovani sbandati. In una bettola di Adenauerplatz, il Superfly, un ragazzo di Reggio Emilia balla solitario sulla pista una vecchia canzone dei The Doors a tarda notte.
Un’amica vagabonda lo abbraccia e gli presenta un altro ragazzo, seduto in disparte, febbricitante e con l’idea in testa di andarsene in Tunisia, pure lui di Reggio. Massimo Zamboni, autostoppista e cameriere in una pizzeria di malavitosi vicino al Checkpoint Charlie, conosce Giovanni Ferretti, operatore psichiatrico. Diventano amici, un giorno vanno in gita a Berlino Est.
Tornati in Emilia, assieme al diciottenne Zeo Giudici e Umberto Negri fondano i MitropaNK, nel cui assemblamento del nome c’è una prima esplorazione di quel mondo che poi diverrà dei futuri CCCP: i café Mitropa, tavole calde della DDR e in particolar modo quelle di Berlino Est dove enormi cotolette Schnitzel ad un marco venivano servite ai funzionari dei grigi uffici della burocrazia orientale e ai curiosi punk occidentali in gite al di là del muro. Mitropa: entità mittleuropea + le due lettere punkettone NK = MitropaNK; le officine socialiste musicali emiliane forgiano l’inizio. Ferretti e Zamboni, tornano a Berlino, e se la prima volta la metropoli tedesca del Novecento assoluto li aveva trasformati in punk, questa volta li trasforma in VoPos della Volkspolizei, la polizia militarizzata della DDR, e quindi colbacchi, stivali neri, cappotti verdi, effigi di martello e compasso su sfondo rosso. Estetica – Ästhetik – эстетика. Se a Berlino Est ci sono le gigantografie di partito e musica classica diffusa nelle strade, a Berlino Ovest c’è un locale che si chiama Linientreu – fedeli alle linee, e soprattutto ci sono i turchi, tantissimi turchi in Germania, l’Islam nel cuore d’Europa.
Su un muro leggono un graffito: Punk Islam.
E poi c’è la new wave dei Fehlfarben, l’industrial dissonante degli Einstürzende Neubauten, l’electropunk dei D.A.F. Deutsch Amerikanische Freundschaft, sarcastici parolieri di Düsseldorf.
Geh’ in die Knie
Und klatsch’ in die Hände
Beweg’ deine Hüften
Und tanz’ den Mussolini
Tanz’ den Mussolini
Tanz’ den Mussolini
Dalle ceneri del autunno del 1982 dei MitropaNK nascono i CCCP Fedeli alla Linea.
Giovanni Lindo Ferretti: voce;
Massimo Zamboni: chitarra elettrica;
Umberto Negri: basso;
Drum-machine: batteria.
Tre animali a sangue caldo + una drum-machine, estremi, non esiste nulla di simile nella scena underground italiana, si spingono oltre, spiazzano. Fieri ed orgogliosi, coniano la loro musica che è solo loro. Sul palco c’è grande potenza ma il pubblico rimane allibito, ghiacciato, immobile. Occorre una svolta teatrale.
Alla sala Tuwat, ex-mattatoio di Carpi, c’è un barista che si fa chiamare Josè Lopez Macho Frasquelo, che mischia intrugli per offrire agli avventori pozioni assassine sottoforma di cocktail marroncini e demoniaci alla popolare cifra di 700 L. Tipo curioso, questo Danilo detto Josè Lopez Macho Frasquelo, di giorno facchino di notte barista ma anche spogliarellista sui generis. Palestrato e atletico, diverso dai CCCP per storia, definito parafascista da Ferretti, durante una sua pièce al Tuwat, una roba del tipo Wojtyła sado-maso strip sex show, folgora i CCCP, lo arruolano nell’Armata Pankow. Danilo Fatur stripteaser sovietico impressiona la gente, esagitato e tremante, muscoli che guizzano, che spruzzano sudore ed elettricità; sputa, spurga energia epilettica, quasi un delirium tremens neo-fututista. Va bene, funziona, ma è addirittura troppo, è pauroso, occorre un’altra figura che controbilanci quella belva in trance tribale. Occorre una Madonna, occorre un’Annarella. Antonella Giudici è eccentrica meravigliosa. Antonella che diviene Annarella benemerita soubrette del popolo. Annarella che è mondina/ dottoressa/ resdora/ domatrice/ fotomodella/ presentatrice/ danzatrice/ suora/ cabarettista/ militaressa DDR/ guardia rossa/ sibilla/ statua/ occidente rosso/ ginnica/ cinese/ sposa/ matrioska/ matrona/ danzatrice/ ballerina liscia/ ballerina classica/ danza del ventre/ danza classica cinese. Indossa innumerevoli abiti, è una di quelle rare donne a cui sta bene qualsiasi cosa indossi, sia un vecchio abito da sera, una veste da monaca, uno chador. Annarella è bella: mai vista ad un concerto, mai visti dal vivo i CCCP, io son del ’81, al Cremlino c’era ancora Brèžnev, quando si esibivano i CCCP io giocavo con la macchine Burago non andavo per baraonde punk-rock, però la guardo in un vecchio documentario, lei è di profilo, fiera, con un caschetto in movimento nervoso, l’immagine è in bianco e nero, ha un collo aristocratico sopra un vestito a fiori e al microfono strilla l’attacco ad Emilia Paranoica. Mi sono innamorato.
Annarella e Fatur, la bella e la bestia. Il bailamme ora è forgiato e completo. Nell’interessante libro Gli altri ottanta – racconti della galassia post-punk italiana di Livia Satriano, e nel capitolo La mia ortodossia, Massimo Zamboni ricorda:
“Quando salivamo sul palco, mettevamo subito del filo spinato perché non volevamo avere un pubblico. Naturalmente in seguito il nostro approccio è cambiato molto, ma agli inizi quello che ritenevamo fondamentale era costruire un “manipolo guerriero” ed è quello su cui abbiamo lavorato”.
Un manipolo guerriero. Zamboni racconta anche l’estetica da Patto di Varsavia, di come si sia rilevata azzeccata la scelta di “punk filosvietico”, come originale e unica scelta alternativa al punk americano e inglese, un fronte tenuto da pochi elementi armati di microfono, danza, chitarra, amplificatore contro tutto il resto, affollatissimo, occidentale, omogeneo, televisivo. Loro invece, diversi.
“A noi piacevano i disastri, ci piaceva l’ortodossia, il grigiore, la monumentalità sovietica che qui era disprezzata”.
I CCCP vogliono andare alla scoperta di quel mondo al di là di Trieste e di Berlino. Le parole giocoliere di GLF – Giovanni Lindo Ferretti sono la ceralacca di questo percorso metallurgico avanguardista. C’è spazio per il comunismo, il cattolicesimo, il punk, l’avanguardia, la retroguardia, i passi dell’oca che battono marziali su piazze ghiacciate. Morte ai McDonald’s, morte al consumo, morte … la morte …la morte è insopportabile per chi non riesce a vivere. La morte è insopportabile per chi deve vivere. Scegli, seppuku rituale, o colpo di pistola al cuore? Lode a Mishima, e a Majakóvskij.
PRODUCI, CONSUMA, CREPA.
Produci, consuma, crepa: profetica, è dedicata a noi. Noi, proprio noi. Viene un capogiro, gira la testa, siamo qua, proprio oggi io ho prodotto degli inutili file di merda, poi ho consumato comprando dei prodotti, e ora che faccio, lo tiro il freno a mano ai 200 km/h in autostrada per vedere l’effetto che fa in termini di lamiere contorte e servizi di tiggì regionali?
Viene da chiedersi, anzi, da chiedermi, ma perché i vecchi CCCP hanno un tale fascino dopo tanto tempo? Perché
1) erano dei fighi
2) perché rimango con le orecchie dilatate quando li ascolto, per acchiappare messaggi e rimandi culturali continui, coraggiosi e liberi, molte volte misteriosi ed è un mistero che tale deve rimanere
3) c’è questa estetica totalitaria sovietica, io ad esempio non sono mai stato comunista, altroché, ma chissenefrega, è un’immagine generale di tempie rasate, di cori emiliano-russi, di esperimenti riusciti, di bellezza, di icone del Patto. Il Novecento è poesia in suoni, parole, marachelle. Novecento mi manchi, amore mio.
Arte, i CCCP sono stati arte italiana. Nel 1989 il muro crolla, i CCCP perdono la loro raison d’être, ma la perdono nel modo migliore possibile, a Mosca, nel cuore cardiopatico del gigante malato URSS, dopo una sbronza da carristi, suonano e cantano la loro apoteosi, il punto più alto e ultimo. È uno spettacolo sadomaso. Annarella e Fatur mimano il coito sul palco con frustini e nudità, posseduti. E nel mezzo della tempesta, con la corazzata del contrammiraglio Ferretti che cavalca onde sonore e potenza in burrasca, i nostri attaccano l’inno dell’URSS A Ja Ljublju SSSR. Tutti i militari dell’Armata Rossa presenti si alzano, e si mettono sull’attenti. 22 marzo 1989, lo Zenit CCCP.
Ascolterò i CCCP fin che campo. Appartengono al passato, certo, ma un passato che diviene patrimonio collettivo per la Nazione ammalata. E dopo aver preso a sprangate il tivvùcolour, e aver maledetto con improperi e anatemi irripetibili le pubblicità su youtube, non occorre aggiungere altro, lasciami qui, lasciami stare, lasciami così, non dire una parola che non sia d’amore.
*Martedì 5 luglio 2020, dalle ore 20.30, a Roma, presso il Complesso Monumentale del Pio Sodalizio dei Piceni situato in Piazza San Salvatore in Lauro 15, Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni si incontreranno in pubblico, in occasione della nuova edizione del “Libretto Rozzo”
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