04 Gennaio 2020

“Ho ritrovato il celeste e il selvaggio”. Catherine Pozzi, la poetessa della notte

Nel 1920 incontra Paul Valéry, non ne è l’amante né la musa, piuttosto, il totem. Lo incontra il giorno del suo trentottesimo compleanno, la sua è una bellezza trasparente, elfica, d’androgino. Gli occhi sembrano un espediente della notte. Famiglia abbiente, quella di Catherine Pozzi: il padre, Samuel, chirurgo d’alta fama, amico di Clemenceau, eletto in stima da Robert Proust, il fratello di Marcel – che era solito frequentare il salotto di casa Pozzi – è dipinto in una affascinante vestaglia rossa da John Singer Sargent, è ammazzato, il giorno del compleanno della prima figlia, Catherine, nel 1918, da un paziente, un malato psichico.

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Figura di donna astratta, inflessibile e in fuga, Catherine: pratica la scrittura giovanissima, passa gli esperimenti poetici al vaglio del fuoco, studia a Oxford, si sposa nel 1909 con Édouard Bourdet, incerto drammaturgo, per noia, svogliatamente gli dà un figlio, Claude, preferendo la compagnia di Marcel Schwob. Destinata agli amori dispari, a stivare il corpo nella mandorla della mente, Catherine si fa incantare da André Fernet, letterato e ardito che nel 1916 muore durante un duello aereo. Nel 1921 pone fine al matrimonio con Bourdet, si unisce a Valéry – coniugato a Jeannie – ed è già rosa dalla tubercolosi che se la mangia, a Parigi, il 3 dicembre del 1934.

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Scrittrice iperborea, esoterica, che inietta il verbo in atto magico – perciò nascosto –, ardente nel carisma dell’autodistruzione, l’opera di Catherine Pozzi, di traslucida violenza, è del tutto postuma, prima nei Poèmes, per Gallimard, nel 1959, poi nell’Oeuvre poétique curata da Lawrence Joseph nel 1989. Il primo dicembre del 1929 è pubblica sulla “NRF” la sola poesia edita in vita dalla Pozzi – nome che s’incardina nel caso di quell’altra Pozzi, Antonia. La poesia s’intitola Ave, ha porzioni di indifesa grandezza, come se dagli occhi si potesse mungere vetro:

Quando sarò per me stessa perduta
E divisa nell’abisso infinito
Infinitamente, quando sarò sconfitta
Quando il presente di cui sono rivestita
Avrà tradito,

Per l’universo in mille corpi frantumata
Di innumerevoli istanti non ancora riuniti
Di cenere setacciata nei cieli fino al nulla
Rifarete per una strana stagione
Un solo tesoro

Rifarete il mio nome e la mia immagine
Con mille corpi portati alla luce
Viva unità senza nome e volto
Cuore dello spirito, oh centro del miraggio
Altissimo amore.

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Quindi va distillata come un arcano, da ispirati che leccano la provvisorietà della parola, Catherine Pozzi. Intorno ad Ave Michel de Certeau, concludendo Fabula mistica, scrive Ouverture a una poetica del corpo. Scrive, tra l’altro: È mistico colui o colei che non può fermare il cammino e che, con la certezza di ciò che gli/le manca, sa di ogni luogo e di ogni oggetto che non è questo, che qui non si può risiedere né contentarsi di quello. Il desiderio crea un eccesso. Eccede, passa e perde i luoghi. Fa andare più lontano, altrove. Non abita da nessuna parte”. Per questo è appropriato che la poesia della Pozzi, specie di lamina orfica, lunare, non si faccia leggere, chieda di andare alla macchia – e cercarla.

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Tre anni prima di Ave, la Pozzi, “Sotto influsso della morfina scrive Vale, la prima delle poesie maggiori. Rifiuta di pubblicarla perché prefigura la rottura con Valéry” (Marco Dotti).

Ho ritrovato il celeste e il selvaggio
Il paradiso dove l’angoscia è desiderio.
Il passato che cresce di tempo in tempo
È il mio corpo e sarà la mia sorte,
Dopo il morire.

Quando in un corpo, mia delizia obliata,
Dove fu il tuo nome, prenderà forma di cuore
Rivivrò il nostro grande momento
E questo amore che ti avevo dato
Per il dolore.

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La pubblicazione della Correspondance tra la Pozzi e Valéry, La flamme et la cendre (Gallimard, 2006) fu un evento, stipato in un malloppo di oltre 700 pagine. “Distrutto? Perduto? Sequestrato negli abissi di una biblioteca pubblica? Per tre quarti di secolo si sono sommate voci, sono esplosi pettegolezzi intorno a questo epistolario solforoso… Sullo sfondo dei salotti parigini e delle opulente stazioni di villeggiatura popolate dal bel mondo delle teste pensanti degli anni Venti, si sviluppa una relazione turbata, turbolenta, di insondabile disperazione, di indicibile pienezza. Diciamolo: queste lettere costituiscono, nel loro campo, un capolavoro”, scrive il curatore, Lawrence Joseph.

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In Italia, l’esigua opera poetica della Pozzi è stampata in due libri, Il mio inferno (Medusa, 2006; per la cura di Marco Dotti) e Nyx e altre poesie (Via del Vento, 2013; a cura di Claudia Ciardi). Legata a Rainer Maria Rilke, di lui più glaciale – la Correspondance 1924-1925 è edita nel 1990 da La Différence –, installata da Cristina Campo tra gli spettri santi, la vita letteraria della Pozzi, che chiede il culto tributato alle divinità del sogno, è relegata nelle lettere – vasta la corrispondenza pure con Jean Paulhan – e soprattutto nel diario (edito nel 1987 come Journal: 1913-1934), pieno di agnizioni, di ulcere, di devote fratture. Da alcuni frammenti del diario, sembra che sia lì il diamante nero del carisma: “Io sono uno di quei punti particolari attraverso cui si irradia la sofferenza del pianeta”. Qui, in Agnès: “Tutto l’amore che nessuno raccoglie, chi sa mai dove va a finire? Ma io, io vi costringo anzitempo… Quando l’ora verrà, quando sarò pronta, con il vestito e col cuore – quando dirò: ‘adesso, adesso’, e voi non verrete (come tante altre volte in cui non siete venuto), non lascerò quel che ho di migliore dissiparsi fino all’altra riva del mondo”. Qui scrive di Valéry: “Parla, parla della sua potenza: un’ambizione implacabile improvvisamente alzata come un grande vento dietro questo spirito di cristallo, questo sentimento insensibile, questa impotenza della volontà. Vedo l’estremità della sua intelligenza. Il resto: vuoto assoluto”. Da qui andrebbero estratti materiali, macerie epistolari, per un grande libro su Catherine Pozzi.

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Fu adorata da tutti – da Julien Benda a Ernst Robert Curtius e Paulhan – come l’altro che viene a screziare la fiducia nel mezzogiorno, come il veleno che rende sfrenata la gioia, sfuggente, in adempimento ai lutti. (d.b.)

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