12 Maggio 2020

A volte evadere (almeno con la mente) è necessario. La cinematografica fuga dai Piombi di Giacomo Casanova (messa in dubbio da Foscolo)

La prima cosa che si vede uscendo dalla reclusione è il chiarore della luna. Così l’avventuriero e scrittore, donnaiolo e romanzesco, Giacomo Casanova, nella sua Fuga dai Piombi (traduzione dal francese di Mario Mazzucchelli, Superbur Classici), racconta la bellissima notte della sua evasione: “Messa la testa fuori dal buco, vidi con dispetto il chiarore della falce lunare. La luna doveva giungere l’indomani al primo quarto. Era un contrattempo, ma bisognava sopportarlo con pazienza e aspettare la mezzanotte per uscire, quando la luna fosse andata a rischiare i nostri antipodi”. È il primo novembre 1756, Mozart muoveva i primi passi (aveva già nove mesi). Giacomo Casanova, che era nato a Venezia il 2 aprile 1725, aveva invece 31 anni, come afferma lui stesso, era “nel mezzo del cammino di nostra vita”. La celebre storia della sua evasione furoreggiava nei salotti di tutta Europa nel Settecento e, quando qualcuno gli domandava: “signor Casanova, perché non ci racconta la sua fuga dai Piombi?”, lui rispondeva, sincero: “Vi avverto che ho bisogno di almeno due ore per questo”. Infatti la sua fuga si legge in un paio d’ore, immergendosi nel fascino senza tempo di Venezia.

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Scrivere della propria vita non è facile, si prova un certo malessere, ma quando si deve raccontare la versione della propria storia più e più volte è forse anche peggio. Meglio liberarsi del peso della propria esistenza attraverso la scrittura. “La causa che m’induce a scriverla è il desiderio di liberarmi dalla fatica di raccontarla ogni qualvolta rispettabili personaggi o amici insistono e mi pregano d’usar loro questo favore. A volte, dopo aver narrato questa storia, mi è capitato di avvertire un qualche malessere fisico, causato o dall’angoscioso ricorso della mia triste avventura, o dalla fatica del lungo parlare, dati i molti particolari che mi sentivo in dovere di precisare; e cento volte ho deciso di scriverla”. La luna proiettava lunghe ombre al passaggio dell’avventuroso Casanova sul lastricato della piazza San Marco. Nelle fughe di prigione è meglio affidarsi a Dio: “mi rimisi alla volontà di Dio domandandogli aiuto e non miracoli”. Oltre a Dio, occorre fare affidamento anche su un compagno, un religioso, il monaco Balbi, colpevole di aver messo incinte ben tre perpetue. Ma quali sono gli strumenti della fuga? Corde, e uno spuntone. Per recapitare lo spuntone al suo complice, Casanova ha pensato d’infilarlo nel dorso della Bibbia e, sopra questa, sistemare un gran piatto di maccheroni che navigano nel burro. Giocare d’astuzia è necessario, per fuggire. Perché non si resiste, dentro i Piombi, e il male fisico sovrasta quello spirituale: “Chi ha proclamato che i dolori morali opprimono più che non i maggiori che affliggono il nostro corpo ha mal sentenziato: i mali dello spirito attaccano soltanto l’anima, i mali fisici abbattono l’uno e sconfortano l’altra”.

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Giacomo Casanova aveva calcolato il percorso della luna che doveva tramontare prima delle sei e il sole spuntare alla una e mezzo: rimanevano sei ore di perfetta oscurità durante le quali avrebbe potuto agire e la fuga sarebbe avvenuta dal tetto. Un passo falso sulle lastre di piombo e sarebbe caduto nel canale. E sarebbe certamente morto: “la profondità del canale era di soli otto o nove piedi durante l’alta marea, e di due o tre durante la bassa: dunque un uomo cadendo da tanta altezza, avrebbe battuto sul fondo e si sarebbe ammazzato, non essendovi abbastanza acqua per attutire la violenza del tuffo”. Oppure, male minore, si sarebbe spezzato braccia o gambe. Nella fuga ci si lega al collo “il fagotto” dei propri stracci. Il monaco Balbi, ad un certo punto, perde i propri cenci e Casanova ammette di essere stato tentato di sferragli un calcio. L’immagine di Casanova, a cavalcioni insieme al monaco sul tetto dei Piombi, è stupenda; “volgevamo le spalle all’isoletta di S. Giorgio Maggiore e avevamo davanti le numerose cupole della cattedrale di S. Marco, che fa parte del Palazzo Ducale: è la cappella del doge, e nessun monarca della terra può vantarsi di averne una uguale”. Poi Casanova va in cerca di un abbaino, quando improvvisamente la campana di San Marco rintocca la mezzanotte. Ecco il segno. “Se una grande sventura può rendere devoto uno spirito incredulo, è quasi impossibile che la superstizione non c’entri qualche cosa. Il suono di quella campana mi parlò, mi disse d’agire e mi promise vittoria”. Con l’ausilio dello spuntone, riesce a togliere l’inferriata ed entrare dalla finestra dell’abbaino. La fatica fisica ed emotiva di una evasione prostra il corpo e lo costringe al riposo: “dormii quasi quattro ore; mi svegliò il monaco con le sue urla acute e con energici scossoni, dicendomi che erano suonate le undici, e quel mio sonno, nella nostra situazione, era incredibile ed inconcepibile. Aveva ragione, ma il mio sonno non era stato volontario. Le mie forze erano agli estremi; la fatica del corpo e dello spirito, la gran debolezza proveniente dal non aver mangiato né dormito da due giorni, avevano richiesto il soccorso del sonno, il quale m’aveva già reso il mio vigore. Il Balbi mi disse che cominciava a disperare del mio risveglio, poiché tutti gli sforzi da lui fatti con grida e scossoni, erano riusciti vani da due ore in qua. Ne risi, tutto contento di vedere che la camera dove eravamo non era più tanto oscura: da due abbaini entravano gli albori del nuovo giorno”.

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I due evasi dai Piombi, i fuggiaschi, attraverso molteplici avventure, riescono miracolosamente a raggiungere Bolzano e mettersi in salvo. Ma sarà vera questa storia della fuga di Casanova dai Piombi? Il primo a denunciare la bufala è stato Ugo Foscolo. “Non appena, qualche mese prima della morte (1827), – scrive Giacinto Spagnoletti nell’Introduzione – ebbe letto alcuni estratti dei Mémoires, tra i quali compariva la famosa fuga, egli si mostrò del tutto scettico. Ignaro che il racconto di Casanova era stato già fornito, quale narrazione a sé, fin dal 1788”. L’eroe romantico Ugo Foscolo ha le idee chiare: “A noi quello scrittore ha faccia di eroe da romanzo”. Gli articoli che dedica allo smascheramento del compatriota sono due, pubblicati su Westminster Review, aprile 1827 e Edimburgh Review, giugno 1827. Nel secondo pezzo, il Foscolo è convinto che il racconto di Casanova sia “congegnato a illudere”, “né l’esattezza della descrizione interna parrà originale da ispezione oculare a chi la vede ricopiata da tante gazzette e giornali periodici e opuscoli scritti a Venezia, allorché l’entrata dei Francesi dischiuse que’ luoghi, e molti v’accorrevano a soddisfare la loro e la pubblica curiosità”. La verità, si sa, in letteratura conta come la fedeltà degli amanti. E Giacomo Casanova, da amante per antonomasia, giura di dire la verità. “Dirò dunque che non pretendo né vantarmi né confessarmi: il mio scopo è di scrivere la pura verità, senza preoccuparmi del giudizio che chi legge potrà dare sul mio modo di pensare o sulla mia morale”. E ancora: “Né mi pento d’aver fatto quello che ho fatto, perché non ne arrossisco, non ne provo rimorso, e perché sento che agirei allo stesso modo, anche oggi, se la necessità lo esigesse”. A volte, evadere dalla reclusione è necessario, anche soltanto con la fantasia.

Linda Terziroli

*In copertina: Donald Sutherland in “Il Casanova di Federico Fellini”, 1976

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