Per abitare la casa, il mondo, dobbiamo prima imparare ad abitare noi stessi accettando ciò che è intorno a noi, dentro di noi. Se vedo un ragno in casa, lo schiaccio, o penso che sia fratello ragno? Lo riconosco nella sua bellezza, lo accompagno dolcemente fuori dalla finestra o addirittura godo dei suoi servigi di “assassino” di zanzare? Sto un po’ scherzando, ma per quanto si possa cercare di avvicinarsi agli ideali di un Santo, alla fine da esseri egoisti ed opportunisti quali siamo, stringiamo subito alleanze per distruggere un comune nemico: la zanzara!
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Abitare significa aver cura delle cose (alleati compresi), allora si abita veramente solo se si intrattiene con il mondo, con le cose, un rapporto essenziale, contrapposto al rapporto strumentale che usa e manipola il mondo. “Chi abita nel senso essenziale salva e non sfrutta la propria dimora, conserva il dispiegarsi degli eventi, senza stravolgerne il corso, si mantiene aperto all’appello dell’essere senza imporre a esso un senso umano, troppo umano, e in questo dispiega la propria essenza di mortale, come di colui che è capace della propria morte, perché abitare è un soggiornare presso le cose”, scrive Heidegger.
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Chi sa guardare al mondo con occhi poetici, sa vivere poeticamente la propria casa e cogliere nel suo ossidarsi l’eterna bellezza della vita che si trasforma, muore e risorge ogni giorno, così come fa il sole. Ad un monaco di clausura basta guardare come cambia la luce sulla parete bianca di calce della propria cella, o osservare il lento lavorio di una muffa su un angolo umido della parete, l’avanzare screziato della ruggine su una maniglia di ferro, per mettere le ali alla stanza e volare nell’universo alla ricerca di Dio.
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Il lockdown che la pandemia ha determinato, ci ha insegnato a scoprire i segreti del mondo senza prendere istericamente voli low cost sulla base di offerte economiche assurde (volo a poche decine di euro), ma ripartendo da noi stessi, dalle nostre case, dai nostri affetti, dai nostri morti vorrei dire, ma non è stato così. Però, anche sotto questo aspetto forse il virus ci ha insegnato qualcosa. L’impossibilità di dare degna sepoltura ai morti, con una cerimonia e un ultimo saluto ci ha fatto capire quanto la nostra società non sia più in grado di parlare della morte come della vita, perché ne abbiamo paura. Siamo terrorizzati dall’inevitabile ossidazione dei corpi, non ci vogliamo vedere invecchiare, così come non vogliamo vedere invecchiare le nostre case con noi. Cerchiamo allora materiali inossidabili per le case, che non necessitano di manutenzione per non perdere tempo nel curare qualcosa che non abitiamo più, perché cerchiamo la felicità fuori, altrove, dove?
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Così accade con i nostri cari, non abbiamo più tempo per assistere i vecchi perché non troviamo il tempo per curarli per amarli per “Abitarli”. Nelle nostre case non c’è spazio per un altare dei ricordi, per gli oggetti della memoria perché non in linea con una asettica ed impersonale visone estetica, superficiale della casa che non prevede ragnatele, ragni, un po’ di polvere, la vita che scorre.
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Anche su di noi, agiamo con tatuaggi, lifting, per combattere ad ogni costo il tempo che scorre. Una civiltà di persone che non vogliono morire, che desiderano più di ogni altra cosa apparire più giovani nel fisico, che non coltivano la mente, preferiscono l’erba sintetica al prato vero, il finto legno al legno, che deve sembrare legno, perché privi di una cultura dell’estetica della bellezza, animati solo da un desiderio di ordine stabile dettato dai luoghi comuni.
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Oggi Matera e i suoi sassi, reduci da un anno da capitale mondiale della cultura, sono al centro dello sguardo del mondo, quello radical chic in particolare. Da alcuni anni “La città dei sassi” rimasta disabitata per decenni, è al cuore di una rinascita. Nei suoi antichi insediamenti ci sono oggi hotel a 5 stelle che vendono a prezzi altissimi l’esperienza di dormire lussuosamente in un sasso (grotta), ristoranti, gallerie d’arte, negozi di artigianato tipico. L’unicità, la bellezza che toglie letteralmente il fiato (siete mai giunti a Matera al tramonto?) di un paesaggio naturale-artificiale creato in modo spontaneo da millenni di simbiosi uomo-natura, ha commosso e conquistato il mondo.
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La civiltà contadina che ha abitato i sassi dalla preistoria, ed è stata forzatamente resa felice dalla “vera” civiltà nel dopoguerra, avrebbe dovuto essere studiata meglio senza i paraocchi dei pregiudizi e dell’ideologia. La “legge speciale per lo sfollamento dei sassi” emanata nel primo dopoguerra, ha fallito miseramente e ciò che fu etichettato come una vergogna oggi è l’eccellenza di un territorio. I quartieri costruiti nella città del piano sono invece in degrado e scarsamente abitati. Nel progettare una casa, una città, bisogna partire dalla vita e dalla morte, non dalla sua schematizzazione-ideologizzazione.
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Ad esempio il sogno del Bauhaus, che nel nome di un nuovo design, per il popolo, di un nuovo mondo, alla fine divenne simbolo dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, antiche, ma che oggi potremmo definire radical-chic. Il “popolo” non desiderava altro che i mobili Biedermeier, simbolo della scalata sociale avvenuta.
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La stessa cosa accadde all’architettura, con il linguaggio universale democratico e privo di orpelli proposto dal “movimento moderno”, che prese nel mondo derive terrificanti. Pensiamo alle nostre bruttissime periferie, alle case popolari (chi ci vive è già etichettato di default), nascono tutte dalla interpretazione distorta del movimento moderno che presupponeva, per essere replicato, di una cultura da intellettuale e non da geometra (con tutto il rispetto per la categoria).
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La cultura, ovvero la ricerca della supremazia di una certa cultura, che prevede molta catechesi e poco ascolto, ecco la probabile causa di tutti i fallimenti sopra citati. Quando si astrae un pensiero, lo si concettualizza e poi si ha la pretesa di calarlo dall’alto come lo spirito santo su persone occupate a sopravvive, c’è qualcosa che non torna. La casa non è il soddisfacimento ideologico di una teoria. La casa è il nido della nostra individualità, al massimo del gruppo ristretto e complice della nostra famiglia.
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È, da noi, dalla nostra casa, dai nostri affetti, che parte la costruzione della città della civiltà, non il contrario. Noi siamo parte del tutto ed ogni nostra azione singolare privata, si riflette sul plurale sul pubblico, perché noi non siamo nel modo, noi siamo parte del mondo, abitando noi stessi, la casa, la morte, abitiamo il mondo, coronavirus compreso.
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Al termine della videochiamata, il prof. Parini si congeda da me con la sua abituale frase: “Fabio ricordati di cancellare tutto quello che ci siamo detti perché sono solo supposizioni”. Io dico: idem.
Fabio Mariani
(fine; la prima parte la leggete qui)
*In copertina: 1926, una donna indossa una maschera di Oskar Schlemmer, su una sedia Wassily di Marcel Breuer, icona del Bauhaus