“Fecero scempio di cose vere”: le poesie di Egle Marini
Poesia
Blu Temperini
Il dribbling
4 febbraio 1983
1. È la marcatura a uomo che reclama il dribbling. Il dribbling è l’evasione dal corpo (a corpo). Il suicidio è un dribbling esemplare. Che non si addice agli sportivi. Sivori preferiva scavare maestosi tunnel nella maschia corpulenza dei suoi avversari. Il dribbling è un thrilling: «Come disfarsi di un corpo».
2. La marcatura a uomo è volgare. Si usava nelle tribù antropofaghe. La caccia all’uomo di certi nostrani terzini degenera, in non troppo dissimili mischie, bollori di femori, frattaglie, cosci, unghioni e chiappe.
3. Il corpo (a corpo) è triviale. Due corpi si amano per dribblarsi. L’amplesso è il dribbling del corpo a corpo “amoroso”. Due avversari si affrontano e si aggrovigliano per eludersi. Il dribbling è un peccato carnale.
4. Il calcio dribblato esibisce due cose di troppo: l’avversario e la palla. Il gioco a uomo è gioco del “tatto”. Da qui la “tattica” che è ammaestramento sulla scurrilità (l’andar di corpo alla sudamericana di certi presunti campioni “dentro la classe” come Maradona, che vanno a cercarsi il contatto fisico e nessuno li arresta. Senza avversario e senza palla non esistono). La tattica è ignobile attentato, al gioco prima di tutto. La “zona” è gioco del sesto senso: né palla, né avversario, né dribbling. La “zona” si burla del tatticismo, scagiona la volgarità del dribbling e quella peggiore del fallo.
5. Se accadessero in strada le cose che accadono in campo davanti a centomila, si scatenerebbero proteste, censure, querele. L’arbitro è un giudice eccentrico che ha smesso la toga per indossare le mutandine nere. È lì in campo per castigare il fallo. La “zona” esclude l’utilità di un arbitro. Basterebbero due guardalinee per segnalare il fuorigioco in senso tecnico ed estetico.
6. Chi con il dribbling ridicolizza l’avversario, ridicolizza prima di tutto se stesso. Un tempo negli sport più nobili come la scherma era considerato un imperdonabile sgarbo ridicolizzare l’avversario. L’unico autorizzato a dribblare dovrebbe essere il portiere in emergenza. Si ricordi l’irridente dribbling di Schumacher a Rossi in Italia-Germania. La “finta” invece non è uno sgarbo perché non riguarda quasi mai l’avversario, ma un compagno di squadra (vedi finta di Falcao per Eder in Brasile-Russia).
7. Nella “zona” si conserva la palla liberandosene al primo tocco. È un disfarsi della palla per dominarla. Contraddizione solo apparente. Anche in poesia il verso si disfa e “fa gioco” rilanciando ciò di cui manca. La voce del poeta libera il suono perché trami l’incanto.
8. Nella “zona” tutto congiura perché la palla non capiti a estranei. L’avversario è sempre l’inattesa interferenza nelle trame del bel gioco. Quando due squadre giocano a “zona” l’una è l’immagine allo specchio dell’altra. Non s’incontrano né si scontrano mai. Ognuna gioca di suo. Nella “zona” sono ventidue che giocano insieme. Nel “dribbling” sono undici contro undici.
9. La marcatura a uomo esige a bordo campo uno staff di medici, infermieri, barelle, cani da guardia. Le partite sono festival del trauma ortopedico. All’eccessiva velocizzazione del gioco fa eco uno sfrigolio di tibie.
10. Il dribbling è volgare e scatena la volgarità di massa. Lo stadio è un catino di risonanza. Centomila applaudono alla derisione collettiva di chi è stato ridicolizzato. Lo stadio allora si fa inno alla volgarità. La rissa in campo degenera nella rissa sulle tribune. Gli spettatori inferociti demoliscono il loro stadio, la loro casa, come nelle commedie di Peppino De Filippo. Se non trovano avversari si contentano di svellare i marmi delle gradinate. La partita è la vacanza del crimine domenicale. La brava gente va allo stadio per riconoscersi nell’altrui bravata prosaica di scontri, astuzie e miserie. Come a teatro il pubblico si preclude la possibilità di stupirsi del “diverso”. Si riconoscono nel prossimo e lo fanno a pezzi. Annientando l’altro annientano sé stessi. Questa è la marcatura a uomo.
11. Dai bassifondi del dribbling può uscirne al massimo una squadra d’incontristi non giocatori. Dai cieli della “zona” spuntano il Brasile la Roma di oggi. Il Brasile dovrebbe pretendere tanti miliardi a partita piuttosto che trascendere partecipando a un “mondiale” dove a tutti è data licenza di palpare. Avanzo ufficialmente la mia candidatura al ruolo di “manager” autorizzato a trattare scritture della nazionale brasiliana. Attendo una delegazione brasiliana per concordare l’impegno.
Ai fini di un’educazione estetica e degenere del popolo sportivo mi riprometto di trattare la prossima volta i principi del gioco a “zona” applicati alla boxe.
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La zona nella boxe
11 febbraio 1983
Senza Dio non c’è match – Eccoci come promesso a vaneggiare di boxe. Da non addetti. Basta disvolere e il vaneggio sarà la puntualità dell’“abbandono”. Previsto, secondo Stendhal. Purché il prevedere sia nell’attimo stesso in cui si vede. È la Grazia che premia chi sa disfarsi di sé. Il che esige una metodologia, un allenamento di rigore gesuitico.
Questa volta il campo è il ring. Senza Dio non si può salire sul ring. Non c’è match.
Chi è davvero grande sa di dover combattere e perdere con ciò che non esiste. L’avversario è solo una caricatura prossima dell’Io. Gli stordenti corpo a corpo di “Boom Boom” Mancini sono la sciagurata prova dell’esistenza di Dio. Quel “Poveraccio” che non esiste rischia di esistere per lo zelo di un pugilatore.
In principio era la boxe – La “zona” non è un’esclusiva del calcio. In quanto “poesia” è ovunque. In ogni performance. L’“abbandono” è danza di morte che disattende qualsivoglia rapporto. Arguello ha insegnato a tutto il mondo la necessità di perdere. «Il mondo è il luogo dell’eterno combattimento dell’eterna vittoria di Dio».
In principio era la boxe. I suoi rudimenti riecheggiano in ogni altro sport. Nella scherma e perfino nell’automobilismo. Nel pugno serrato del boxeur scintillò a distanza di secoli una lama. Nella scherma la sciabola fu la protesi del pugno. Quando diciassettenne guidavo la Porsche a Vallelunga capii qualcosa che nessuno aveva mai capito: assecondare un motore è un gioco di polso che equivale ai moti della scherma e quindi della boxe. I cambi di marcia corrispondono alle parate di scherma: parata di prima, di seconda, di terza, di quarta, ecc. Ogni colpo è un diverso modo della stessa strategia: eludere l’avversario. Anche il motore è “umanissimo”! Son pronto a dimostrarlo. Mi piacerà discuterne con Eddie Cheever.
La boxe e la sottrazione del corpo – La boxe si svolge in un recinto. È l’inoltrarsi sollecitati da chissà che, ma sicuramente da chissà chi. Come nel calcio, la “zona” nella boxe esclude l’avversario. Lo ignora. Scriverò un libro con Giancarlo Dotto su questa non minima questione. Intanto, per ragioni di spazio, mi limiterò a qualche esempio.
Rocky Marciano si teneva sempre al centro ring in “mezza guardia”. Si faceva tempestare di colpi ai fianchi, e poi lasciava partire inesorabili fendenti. Non concepiva che il centro. Era una boxe rinascimentale. Non è ancora la boxe celeste dei grandi. Dante l’avrebbe destinato al limbo.
Cosa inventa Cassius Clay peso massimo? Inventa il barocco nella boxe. Era la “Circe” e il “Pavone” nello stesso tempo. Dio era con lui, perché lui era Dio. Inventa un balletto da non confondere con quello del danceur Joe Louis, fantasista e stilista dal gesto leggiadro. Clay inventa l’essere ovunque, come il barocco inventa un policentrismo. Si è ovunque comunque al “centro”. Non per sottrarsi all’avversario, ma per dimenticarlo e dedicarsi ad altro. Anche quando fu costretto al corpo a corpo, Clay lo fu sempre dalla parte del cielo. Obbligato alle corde da Frazier, Clay gabbava quel ceffo da macelleria porgendo profili alla telecamera distribuendo sorrisi al pubblico e allo “sponsor”, monologando sconnesso al cielo. Negli intervalli della sua disattenzione subiva e tempestava di colpi l’inopportunità fattasi avanti.
La sottrazione del corpo con Leonard arriva ai suoi vertici. Duran si va ancora lambiccando. Gli avevano assicurato che il suo avversario era sul ring. Non l’ha mai trovato. Le sue “mani di pietra” sbattendo contro il nulla si sono fatte male. Leonard: “zucchero” amarissimo per avversari sfegatati. Il picchiatore alla Mancini non è un boxeur. È solo un ragazzo di molto temperamento. Nel ring privato di Dio, nella pugna rissaiola, si avventurano i disperati, gli affamati. Ci vuole il “fisico” per giocare a “zona”. Motore, braccio, gioco di gambe e assetto mentale. Seminatori di distanze alla Clay, Leonard. Dove, quando, rivedremo un campione? «Verso le terre della sera, la sera si troverà».
Carmelo Bene