26 Settembre 2020

“C’è un’estate invincibile dentro di me”. L’intensità dionisiaca di Albert Camus

“Nel profondo dell’inverno, ho finalmente imparato che c’è un’estate invincibile dentro di me”. Se hai già sentito questa citazione, bloccami. La troverai sui biglietti di auguri, sulle magliette, sui portachiavi e sulle tazze da tè, inclusa quella scheggiata che sta di fianco al tuo computer. Un regalo che qualcuno, se soltanto avesse voluto conoscerti, non ti avrebbe mai fatto. È una frase che sta bene su una tazza da tè, divincolata dal contesto, meno ispiratrice che insipida.

La frase è estratta da Nozze a Tipasa, l’ultimo dei testi di Personal Writings, una raccolta di racconti e brevi saggi di Albert Camus. Chi cerca buone citazioni a inaugurare il giorno, stia in guardia. Lo scrittore francese non ti ispira. Voglio dire, non ispira come una frase su una tazza di tè. Questa raccolta di testi ci ricorda che Camus ha una ispirazione difficile, cruenta – non ci mette a nostro agio, ma ci irrita; non glassa nell’oro la vita, la guarda con occhi autentici. Come ha scritto, “Voglio mantenermi lucido fino all’ultimo, guardare la mia morte con tutta la pienezza della gelosia e dell’orrore”. Una frase che dice tutto.

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Nella sua introduzione Alice Kaplan osserva che chi conosce Camus soltanto per Lo straniero “sarà sorpreso dalla lussureggiante e intensa emotività di queste storie”. Piuttosto, sono stato sorpreso dalla loro intensità dionisiaca. Il lirismo ha una energia particolare, radicale: Dioniso ci pensa due volte prima di indire un baccanale. Per Camus, il lirismo è radicato nel paesaggio fisico e umano della sua Algeri. Deriva dall’infanzia trascorsa in un quartiere povero di Algeri, cresciuto da una nonna imperiale e analfabeta, da una madre sorda, in una casa che cadeva a pezzi, con la tromba delle scale infestata di scarafaggi e la latrina in comune. Quella latrina gioca un ruolo determinante nel romanzo incompiuto di Camus, Il primo uomo. Volendo tenersi il resto della spesa fatta al negozio, l’alter ego adolescente di Camus dice alla nonna che i soldi sono caduti nella latrina. Senza dire nulla, arrotolandosi la manica, la nonna scava nella latrina per cercare il resto. “Capì che non era l’avarizia a costringere la nonna a brancolare tra gli escrementi, ma la terribile necessità che rendeva due franchi una cifra importante in quella casa”.

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Camus rivendica la sua infanzia. In un saggio del 1937 scrive che alla sua famiglia “mancava quasi tutto ma non invidiava praticamente nulla”. Questo spiega perché “la povertà mi ha impedito di pensare che tutto procedesse bene sotto il sole della storia”. Eppure, “quel sole mi ha insegnato che la storia non è tutto”. La povertà non fu una disgrazia, era, al contrario, “raggiante di luce”. La radiosità riluce nei saggi con una forza tale che è difficile alzare la testa da questa cascata di parole. Durante una visita a Tipasa, sopra un mucchio di macerie romane arse dal sole del Mediterraneo, Camus pare letteralmente entusiasta, colmo di dèi, pagano. Quel luogo, scrive, è abitato da divinità “che parlano al sole e al profumo delle foglie d’assenzio, nell’armatura argentea del mare, nel cielo azzurro, crudo, tra ruderi ricoperti di fiori ed enormi bolle di luce tra i cumuli di pietra”. E poi: “Apro gli occhi e il cuore alla spietata grandezza di questo cielo grave di calore. Non è facile diventare ciò che si è, scoprire la propria profonda misura”. Sorprende pensare che sia l’iconica figura in bianco e nero, nel cappotto, che fuma una Gauloise, l’autore di queste parole. Eppure, il lirismo affiora, ogni tanto, anche nella prosa austera dei romanzi, quando Meursault è sulla spiaggia inondata di sole, nello Straniero, o quando Rieux e Tarrou fanno una nuotata notturna, ne La peste.

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Il lirismo di quei saggi – che vanno dalla metà degli anni Trenta, quando Camus è ancora un oscuro ventenne che cerca di diventare uno scrittore, all’inizio degli anni Cinquanta, quando è una celebrità e la scrittura gli si presenta come un terribile fardello – riflette un carattere di Camus, che condivide con Sisifo. Camus odiava le ideologie e le astrazioni, si legava saldamente alle ragioni della vita. “Non c’è felicità sovrumana, non c’è eternità al di fuori della curva dei giorni”, scrive. “Pietra, carne, stelle, e quelle verità che la mano può toccare”.

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L’infanzia di Camus è radiosa di luce, e immersa nel silenzio. Nell’appartamento di Algeri il giovane scrittore convive con lo zio Etienne, che parla con difficoltà e si esprime principalmente con i gesti delle mani e del volto. La madre, Catherine Hélène Camus (nata Sintès), ha perso quasi del tutto la capacità di parlare quando ha saputo della morte del marito, il padre di Camus, durante la prima battaglia della Marna. La madre è l’epicentro del silenzio che avvolge i primi anni di vita di Camus. In uno dei primi testi, Camus scrive della madre che di giorno va a fare le pulizie nelle case di altre persone e la notte è a casa, immobile, a pensare a nulla. Non pensa a niente perché “tutto era lì” nell’appartamento: i due figli, i pochi mobili, le tante incombenze, il solo ricordo del marito (la scheggia di granata rimossa dal cranio). In un ritratto indelebile, Camus descrive la madre che “si rannicchia sulla sedia, fissando di fronte a lei, alla ricerca vertiginosa di una fessura sul pavimento. Mentre la notte si inspessisce intorno a lei, il suo mutismo sembra irrimediabilmente desolato”. Il ragazzo ha timore di questo “silenzio animale”, poi sperimenta un’ondata di sentimenti, qualcosa di prossimo all’amore, “perché dopo tutto quella è sua madre”. Questo silenzio materno, che diventa una presenza metafisica, è il centro dell’opera di Camus.

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Contrariamente a quanto è scritto sulle tazze da tè, la speranza per Camus è il più terribile dei mali, perché “equivale alla rassegnazione – ma vivere non è rassegnarsi”. Questo spiega l’affermazione paradossale di Camus per cui sebbene non ci sia motivo di speranza, ciò non significa che bisogna essere disperati… Nel 1939, subito dopo che la Francia aveva dichiarato guerra alla Germania, Camus scrisse: “Dobbiamo riparare ciò che è stato lacerato, rendere la giustizia immaginabile in un mondo così palesemente ingiusto, ridare un senso alla felicità di popoli avvelenati dalla miseria di questo secolo. Certo, è un compito sovrumano. Ma sovrumano è il termine per i compiti che chiedono molto tempo per essere portati a termine”. La citazione è lunga ma è proprio quella che vorrei leggere su una tazza di tè.

Robert Zaretsky

*L’articolo è pubblico in origine su “Los Angeles Review of Books” come “For Camus, It Was Always Personal”

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