27 Dicembre 2020

“Ho scritto, questa volta, da un luogo oscuro”. Cristina Campo, sulla soglia del nuovo anno

L’epistolario tra Cristina Campo e la grande poetessa argentina Alejandra Pizarnik è destinato, per ora, a restare inedito. Si tratta di una testimonianza possente, tra personalità diverse e sfrontate. Le lettere – ci restano quelle della Campo, custodite alla Princeton Universitysono state tradotte e curate da Stefanie Golisch, e sono un autentico tesoro. Il rapporto tra la Campo e la Pizarnik, che si sono conosciute a Parigi, nel 1962, e comunicano in francese, è censito da un fascio di lettere, spesso meravigliose, scritte dal gennaio 1963 all’aprile 1970. Qui ricalchiamo le lettere scritte dalla Campo durante le feste del 1965: il giorno di Natale le morì la madre.

***

Venerdì, (Gennaio), 1965

Mia cara Alejandra, mi perdoni se il Natale è trascorso senza una parola da parte mia. Lei mi ha donato il Suo libro più bello. Le assicuro che poche delle cose arrivate a me in quei giorni sono state accolte con altrettanta dolcezza. La notte di Natale, Alejandra, ho perduto (o trovato) mia madre. Era mezzanotte e mezzo, tutte le campane di Roma suonavano. È degno di lei, mia piccola principessa umile e altezzosa. Da 10 giorni era muta. Anche questo è degno di lei. “Non parlava mai, mai di sé” dice Elémire, il quale non l’ha lasciata nemmeno un istante, né prima, né dopo questa ora d’Avvento.

Mio padre è peggiorato, molto, naturalmente. Tutto questo è difficile da spiegare, da pensare.

Mi perdoni. L’abbraccio.

Sua Cristina

[?], gennaio, 1965

Mia carissima Alejandra,

spero che questa lettera La raggiunga alla partenza, come una rondine che si ferma per un istante sul davanzale della finestra. Scrivo, contemporaneamente a questo viatico, un benvenuto a B.[uenos] A.[ires]. Non abbia paura: il volto del nostro spavento non è mai quello che si teme, né si trova laddove lo si sospetta: è una delle terribili civetterie della vita.

Il ritratto che mi fa di Sua madre è temibile, forse, per lo charme, ma io so che Lei non è più la piccola Biancaneve che può temere la bella regina e che, questa volta, Lei saprà vedere in sua madre, al di là dell’antico fascino, la vera bellezza che forse è altrettanto timida e delicata quanto la Sua.

Molte lettere si sono intrecciate, ingarbugliate in questi ultimi tempi, così che io non riesco più a trovare il bandolo della matassa. Credo che le scriverò più a lungo a B.[uenos] A.[ires]. Per il momento non posso che raccomandarLe, ancora una volta – e Le regalo questa parola come un talismano, una di quelle pietre, tagliate in due, che ci si divide tra amici – di amare se stessa seriamente, di proteggersi senza tregua – con la vera sprezzatura, questo orgoglio delicato che fa di una donna, e soprattutto di una donna come Lei, una principessa, protetta ovunque dalla propria scorta. Conosce la piccola Marie Bashkirtseff? Personaggio assurdo e patetico, ma c’è qualcosa in lei che adoro e che non ritrovo nelle donne di oggi, ed è proprio la sprezzatura – questo orgoglio che sembrerebbe puerile ed è invece soltanto la prima maschera del rispetto della propria arte, ciò che fece dire a M.[arie] B.[ashkirtseff]: nessun principe è degno di toccare la mia mano con le sue labbra. È da qui che comincia la strada che può arrivare al dono di sé (perfino all’arte), non il contrario.

Da tanto tempo, prima delle atroci notizie che mi diede 2 mesi fa, temevo per Lei. Sentivo attraverso i Suoi poemi – soprattutto quelli pubblicati da Sur, in particolare – questo “bisogno atroce di crocifissione pubblica”, che è come il parafulmine per il fulmine e richiama da lontano la catastrofe. Questo è, lo so fin troppo bene, uno dei volti della disperazione, uno dei più commoventi, soprattutto per una persona esigente. Ma è anche, al contempo, un residuo tragico dell’adolescenza che bisogna gettare a mare (che possa farlo in mezzo all’oceano!): questo bisogno dell’uccello di ferirsi contro i coltelli e di credere che si tratti di “esperienza”. Ma l’esperienza esiste soltanto a posteriori: essa appartiene sempre al passato, non al futuro: non è se stessa finché non la si riconosca dopo il suo passaggio, per il suo solco nella nostra arte, perfino prima che nella nostra vita. L’esperienza esiste solo a posteriori – non la si precede.

Alejandra Pizarnik (1936-1972)

Lei mi diceva, quasi un anno fa – quanto tempo è trascorso dalla Sua prima lettera – che parole come religione, patria, famiglia “naturalmente” non hanno alcun senso per Lei. Può benissimo essere vero, ma non è affatto naturale. È solo tragico – e se il poeta accetta tutto ciò come naturale, questa è la fine, lontana o vicina, della sua stessa arte perché il poeta, cioè l’aristocratico, ha la sua patria, la sua religione, la sua famiglia: ce l’ha, in ogni caso: la religione della parola, la patria della lingua, la famiglia dei morti meravigliosi e severi. È sorvegliato ovunque, controllato da un seguito implacabile, da un cerimoniale più duro e più puro di quello degli imperatori di Bisanzio. Se si sottomette da asceta a questa corte invisibile più tardi troverà perfino la patria reale, la religione reale, la famiglia reale: è, in ogni caso, il passato, la tradizione ritrovata, l’infanzia trasfigurata nella rivelazione della morte. L’esperienza, infine, così com’è: “un’altra vita, irriconoscibile, solenne e perfetta”.

Ci sono, tra le Sue carte della Spagna (che, mi perdoni, questa volta ho letto più come sorella preoccupata che non come amica della Sua arte) delle strane antitesi tramite le quali Lei sembra voler condividere la vita. Ora, è tipico del demonio porre dei falsi dilemmi, e non c’è nulla di più falso della scelta, proposta in uno di quelle poesie in prosa, tra l’industria pietosa e soddisfatta di una “Simone de Beauvoir” e la dissipazione patetica di una bambina randagia che si crede (o si vuole credere) perduta. Non so, mia carissima bambina, chi potrebbe mai porre questa alternativa tra “mescalina-sofferenza-sifilide-poesia” da una parte e “igienismo-finzione-metodo-suicidio-morale” dall’altra. “Mi querida amiga, por favor!” come direbbe Murena. Esistono ben altre cose e Lei naturalmente è la prima a saperle. Esiste un ordine differente, il più alto e il più pericoloso di tutti – un ordine che è il ponte sul quale passarono, sopra l’abisso spalancato della follia e della morte (preparando torte, lavando le stoviglie, prendendosi cura degli altri) Emily Dickinson, Hölderlin, le sorelle Brontë, Cechov – anche il Suo Baudelaire verso la fine della vita; per non parlare degli antichi, tutti. In una delle sue lettere, Günderode distinse molto bene tra le forme diverse della vita reale: da una parte la grande arte della vita comune, dei rapporti, dei bambini; dall’altra, la “vita monacale” del poeta. È così che esattamente diceva: “Eine Art Nonnenleben”. (Ho riso, un attimo solamente, pensando a quante signore che conosco, romanziere metodiche e di successo, si imbottiscono di mescalina e “vanno a dormire sotto i ponti” con i loro ultimi gigolò-barboni…).

“Allein, Du mit den Worten/und das ist wirklich allein.“ Tu, solo con le parole/ e questo vuol dire veramente solitudine”. Questo è, di nuovo, il Suo Benn. Sia dunque unica, sia orgogliosa, mia carissima amica. Questa è l’unica via certa non soltanto verso l’umiltà, ma verso la vera pietà (che è diversa da questa spaventosa giustificazione che Lei qualche volta esprime vero il crimine “in nomine peccatorum nostrorum”).

Mi rendo conto di non averLe scritto una lettera gioiosa di buon viaggio, ma uno dei miei soliti sermoni. Mi perdoni, non “nel nome dei Suoi peccati” ma nel nome della Sua squisita indulgenza. Ho scritto, questa volta, con una serietà quasi opprimente, ahimè! E ho scritto, questa volta, da un luogo oscuro dove ogni parola si distacca dalle profondità, dove evito di fissare lo sguardo. Ho cominciato l’anno nuovo sotto una spessa nube, mia cara amica; e ciò non significa altro che malessere. In qualche modo, tutta la mia esistenza è trasformata. La prego di accettare quindi, da questo luogo senza distrazione, la mia tenerezza profonda, perché severa… Mi scriva… Sia felice.

La Sua Cristina

Buon viaggio, anche da parte di Elémire e tanti saluti al nostro caro Murena.

Gruppo MAGOG