“Eppure viviamo attimi d’eternità, quand’è l’incontro”, scrive George Byron nei suoi diari editi da Adelphi nel 2018, traduzione a cura di Ottavio Fatica con un meraviglioso titolo (davvero uno dei più splendidi – di tutta la storia della letteratura), Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno.
E in effetti è proprio l’incontro con quelle pagine a provocare lampi d’eternità, di fronte alle complesse vicende della vita del Lord “stratega” che contribuì alla nascita della Grecia (liberandola dagli invasori turchi – e per questo sempre sia lodato), grande poeta, dandy, libertino e viaggiatore.
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A proposito, in questo anno 2021 tutto in sordina per via della pandemia, il 25 marzo si è celebrato il bicentenario della nazione greca, infine indipendente nel 1821 dopo quattro secoli d’atroce occupazione da parte turca. La data, che per il cristianesimo è l’Annunciazione alla Vergine, non è tuttavia quello della liberazione dagli invasori musulmani.
Essa corrisponde infatti non solo, significativamente, a tale ricorrenza religiosa, ma anche al giorno in cui fu dichiarata la guerra al nemico, conflitto che durerà più di dieci anni, fino alla firma del Trattato di Adrianopoli. E va pure ricordato che nei primi cinque anni d’indipendenza greca, la capitale fu Nafplio, o Nauplio, o Nauplia, nel Peloponneso.
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Da quei lampeggianti attimi sono scaturite la traduzione di tre poesie dedicate ad altrettante fanciulle e a una serie di cinque sonetti che interrogano la memoria, i luoghi, gli amori, il destino di una vita la cui filosofia è ben riassunta in un libro di Gabriel Matneff, La diététique de lord Byron.
Accanto alle traduzioni, del 2020, i versi scritti tra il 19 – giusto il giorno della morte di Byron a Mesologhi – e il 26 aprile del 2019, avranno se non altro l’umile merito di tenere viva una forma frequentata da tanti autori italofoni, anglofoni, francofoni, e di fare un modesto omaggio al poeta.
Marco Settimini
(Beninteso: non c’è modo alcuno di superare come possibile epitaffio i quattro versi del suo Manfred: “La loro sete d’ambizione non è stata la mia, / L’obiettivo della loro esistenza non è stata il mio; / Le mie gioie, le mie pene, le mie passioni e le mie forze, / Mi hanno reso uno straniero…”)
Sonetto a Ginevra
Lunghe chiome e l’azzurra tenerezza
D’occhi e l’esangue lustro contemplato
Dei tuoi tratti – di solito pacato –
Par rapito in dolente morbidezza.
Le parole ti han recato tristezza
Ma il petto tuo benedetto scavato
So d’intento schietto e immacolato –
E ti credo a cure terrene avvezza.
Tale aspetto – nel mescolìo di tinte –
Guido, quando ne tratteggiò il contorno,
(Ma tu di che pentirti non hai niente)
Diede alla Maddalena nel suo giorno –
E così tu – ma quanto più eccellente!
Rimorso non c’è. Né Virtù ha scorno.
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“Come la notte nella bellezza cammina…”
Come la notte, nella bellezza cammina,
La notte stellata nel più limpido clima;
Il meglio d’ogni tinta chiara e d’ogni scura,
S’incontra nei suoi occhi e nella sua figura;
In quella soffice luce è così distesa,
Quella che il cielo nega alla giornata accesa.
Un’ombra di troppo o un raggio in meno di luce,
Rovinato avrebbe la sua grazia soave
Che saluta l’onda delle corvine trecce,
O che soffice il suo viso va a illuminare,
Là ove esprime i suoi pensieri, serena e dolce,
In così pure dimore, e così care.
E su quelle sue guance, su quella sua fronte,
Il lustro incarnato e il suo vincente sorriso
Così tenero e calmo, eppure eloquente,
Dicon dei giorni cortesi che abbiam ben speso,
Di una mente in pace e di un cuore che è innocente,
Tutto il resto infimo, rimosso, irriso.
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“Fanciulla di Atene, ci dobbiam separare…”
Fanciulla di Atene, ci dobbiam separare
Ridammi, ti prego, oh, ridammi il mio cuore!
Oppure, visto che ormai ha lasciato il mio corpo,
Tienilo e il resto prenditi pure!
Senti il mio dolore ora che parto,
Zoë mou, sas agapò.
Per quelle tue trecce liberate
Da tutti i venti egei corteggiate;
Per quelle tue palpebre frangiate di nero,
Bacio le tue soffici e accese guance in fiore;
Per gli occhi selvatici come il capriolo,
Zoë mou, sas agapò. /// Zoi mou, s’agapò.
Per quel labbro che vorrei assaggiare
E i tuoi fianchi che vorrei serrare;
Per tutti i fiori colti e ciò che esprime un fiore,
Che le parole non sanno dir così bene;
Per l’amore che alterna la gioia e il dolore,
Zoë mou, sas agapò. /// Zoi mou, s’agapò.
Fanciulla di Atene! Sono partito ormai:
Pensami oh dolce, ora che sola sarai!
E anche se a Costantinopoli devo andare,
Atene ha la mia anima e il mio cuore;
Potrò mai smetter di amarti? No!
Zoë mou, sas agapò. /// Zoi mou, s’agapò.
Sulla fanciulla d’Àbido (di M.S.)
D’efferatezze e di carneficine
Simbolo planetario è il Colosseo.
Delle saggezze, seppure in rovine,
Epitome è al contrario il Tempio egeo.
“Gelosia” per Carolus Cergoly
È la prima parola in italiano.
Com’è diverso qui imparar, tra voi,
Invece amare: Σ’αγαπώ! — “Ti amo!”
Onde e insenature, isole e vento,
Gambe e labbra scure che Dio plasmò,
E della città ugual portamento.
Fanciulla mia d’Atene, ti dirò,
— Mi scorre nelle vene — ciò che sento,
Nel greco tuo: Ζωή μου σας αγαπώ!
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Sulla fanciulla d’Atene
Dalla realtà all’immaginazione
I suoi pensieri dirà aver stornato,
E dalle storie, voci e indignazione,
Alle vivide memorie passato
Dal suo rimpianto, con colori e luce
Fusa col buio, in un cupo alvo
Sposa d’Àbido, perduto e fugace
Amore ellenico che mise in salvo.
La turca legge puniva il buon bacco,
E l’adultera annegava in un sacco —
Per aver levato il suo triste velo.
Poco m’importa se cronaca o mito,
Traccia su carta o in terra col dito —
“Chi è senza peccato…”, dice il Vangelo.
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La Speranza nel futuro
A Ravenna, il diciotto di gennaio
Del tuo milleottocentoventuno,
Con la penna e il sedotto calamaio,
T’interrogasti come deve ognuno:
Memoranda: “Che cos’è la poesia?”
Tua agenda di tormentato scrittore:
Senso di passato e futuro, sia
Esso bramato o insicuro, dolore
O piacere, avido “addirittura”
Di gioie e lussi dei quali t’intendi,
Somma Speranza o strali di paura,
Tutto però con leggiadria di dandy.
Profeta è ciò che fu: gaudio e sventura
Che nella vita e nei tuoi diari effendi.
Sulle memorie d’amore
Curioso è come poco a svanire
Basti a ciò che si ha di più costante
Agli occhi! Cinque anni posson tradire
Ricordi che si rischiaran d’istante;
Sforzo non è però immaginazione
Nell’evocar modi di dire e fare
Degli amici? Con solo un’eccezione
Nel gentil sesso che ci fa dannare;
Le donne, come puoi dimenticarle?
Lustro non è tempo in loro ma luce:
Come delle ere straordinarie.
Come la peste o la guerra più truce!
Sue predilette l’uomo riesce a farle:
Sian funeste o care, a sé le adduce.
NdA: Una versione in versi di alcune righe dei diari di Byron.
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In una camera a Parigi
Mezzanotte — Ho iniziato una missiva
Che ho poi gettato nel fuoco a bruciare,
E ho letto — ma l’attenzione fluiva
E sigari in serie son qui a fumare.
Senz’esser Lord ho visto, nel mio viaggio
Il tuo “glorioso Eden” ch’è un’inezia
(Kitch) ben lungi dalla grazia di Viareggio
Missolungi Ravenna Este Venezia.
D’Atene greca sei infine un pilastro:
Scorribande consegnate all’eterno —
Bel titolo: Un vaso d’alabastro
(Diari) illuminato dall’interno:
Caro Byron, in terra fosti un astro —
Ma sei in paradiso ora o all’inferno?
NdA: Su quindici giorni a Parigi, nel mese di aprile del 2018. La prima quartina è la riscrittura di quattro righe dal diario del giorno 18 febbraio 1814 in quel di Londra. Il “glorioso Eden” si riferisce a Sintra, in Portogallo, borgo contraddistinto da un orrendo stile massonico. E lord Byron aveva notoriamente vestito il grembiulino. Ma mentre la cosiddetta unità italiana è esito di moti e gruppi anticlericali legati alla massoneria, sicché la nazione è stata fondata contro la Chiesa con episodi quali la Breccia di Porta Pia e la conseguente separazione dei poteri, l’unità in Grecia ha portato alla fondazione della locale Chiesa ortodossa. È altrettanto noto che “le vie del Signore sono infinite”. Se così non è stato in Italia, almeno lo è stato in Grecia.