“Esistono spiriti liberi e coraggiosi a cui piacerebbe non ammettere che hanno un’anima a pezzi, tracotante, incurabile. A volte, impazzire è un travestimento, per chi ha certezze troppo infelicemente sicure”.
Una prosa essenziale, spesso spezzata e veloce, sempre in corsa come la vita dell’autore: precipitato di mille incontri, avventure, sensazioni e sentimenti, i Diari di Byron – o quel che oggi ne resta – sono pagine superstiti, scampate al destino della sua biografia. Che gli amici e l’editore Murray hanno distrutta l’indomani della sua morte, per occultare scelte considerate disonorevoli per lui e per coloro che rimanevano dopo di lui.
I Diari sono sei testimonianze di momenti decisivi nella vita del poeta: un breve Memorandum del 1811 sul solco dell’ennui europeo, riconducibile al solitario di Rousseau, a René di Chateaubriand e, prima, a Werther (“A ventitré anni il meglio della vita è andato e le sue amarezze raddoppiano”), quel mal du siècle su cui Byron torna comunque (“Perché sono stato, in ogni epoca della mia vita, sempre più o meno ennuyé?”).
Al “Diario londinese”, steso al culmine del successo personale e letterario raggiunto con la pubblicazione dei primi due canti di Childe Harold – “Mi sono svegliato una mattina per ritrovarmi famoso” dirà lui –, segue il breve “Diario alpino” del 1816, cronaca dei mesi trascorsi a villa Diodati dopo l’incontro con gli Shelley, nella celebre estate ‘senza luce’ in cui la sfida dello stesso Byron a scrivere una storia di fantasmi darà origine a Frankenstein. Con il “Diario ravennate” il poeta si è già trasferito a Ravenna per seguire Teresa Guiccioli e infine, oltre una serie di coevi “pensieri slegati”, il “Diario di Cefalonia” è una serie di appunti del suo impegno per la liberazione della Grecia, in cui la smania d’azione s’intreccia all’incertezza del futuro, in fogli sfibrati dalla disillusione vicina.
Scrive Diego Saglia, che di Byron ha indagato i più intimi risvolti in studi per cui due volte gli è stato assegnato il Premio Emma Dangerfield della International Byron Society:
“Nei diari si alternano due tendenze inscindibili […]: l’autore travolto dal presente, abbandonato a un movimento costante, corrispettivo della sua irrequietezza d’animo, che pervade tutto il volume, […] ma ci sono anche continui ritorni sui propri passi e affondi nel passato, per nostalgia, rimpianto o rimorso, temi tanto byroniani e dunque non a caso fondativi del profilo interiore dei suoi anti-eroi. Attraverso tutte queste scissioni e dispersioni, l’io del poeta è sempre, inevitabilmente, in primo piano, assieme alla consapevolezza che la scrittura di sé è un gesto rivolto a un pubblico da un palcoscenico di parole”.
Già il Memorandum – una pagina di appunti numerati – termina infatti con una sorta d’intento programmatico:
“Sono sopravvissuto a tutte le mie brame e alla maggior parte delle mie vanità, sì, persino alla vanità di ritenermi uno scrittore”.
Byron ha solo 23 anni. E nel “Diario londinese” racconta, non senza amarezza, il suo esordio alla Camera dei Lord, il discorso in difesa dei luddisti, la votazione contraria e il conseguente abbandono delle “pagliacciate parlamentari”. Le letture – Burns, Shakespeare, Pope –, i rapporti con gli amici Rogers e Moore, Hobhouse (“il mio miglior amico, il più vivace, e l’uomo dalle qualità più schiette”) e l’editore Murray. Gli scambi epistolari con Madame de Staël – la signora che “scrive tomi in-ottavo e parla formato in-folio” – o con l’amica Lady Melbourne, a cui si rivolge “con il massimo piacere” e da cui riceve “risposte, così assennate, così tactiques – mai incontrato nessuno con metà del suo ingegno”, i convegni con Lord e Lady Holland, il cui “salotto è il migliore e il più distingué” di Londra.
Rievocano anche, queste pagine, il primo infelice amore per Mary Duff, memorie che s’insinuano nel presente incidendolo di lucida elegia:
“Stupenda è l’immagine che serbo nel ricordo – i capelli castano scuro, gli occhi nocciola… Mi sarebbe assai penoso vederla, adesso: la realtà, per quanto bella, distruggerebbe […] le sembianze che tuttora vivono nella mia immaginazione […]. Eppure viviamo attimi d’eternità, quando c’è l’incontro…”.
Anche la futura moglie Annabella Millbank è descritta in termini molto affettuosi, sebbene si sposeranno “senza un briciolo d’amore da parte di entrambi”:
“È una donna davvero superiore e, cosa strana per un’ereditiera, pochissimo viziata – una ragazza di vent’anni – nobile di nascita – figlia unica nonché savante, che ha sempre fatto di testa sua. È una poetessa – una matematica – una metafisica, eppure è al tempo stesso dolcissima, gentile e generosa, quasi priva di presunzione”.
Dai Diari emerge anche la sua quasi idiosincratica paura d’invecchiare, cono d’ombra di una vitalità convulsa:
“Fra poco avrò ventisei anni. Cosa potrà mai riservarci il futuro che possa mai consolarci di non essere rimasti per sempre a venticinque?”.
E, a tratti, una spossatezza esistenziale che appare sconcertante, se posta in paragone con la frenesia di una vita giocata sugli estremi, vissuta sul fil di lama:
“Quando dalla vita si sottrae l’infanzia […], il sonno, il cibo, le bevute – e abbottonarsi e sbottonarsi – quanto resta di esistenza vera e propria? L’estate di un ghiro”.
Dopo questi piccoli mulinelli in cui il ritmo rallenta, il torrente riprende a scorrere, impetuoso, inarrestabile: Byron e Napoleone, Byron e l’esterno (“più conosco gli uomini, meno mi piacciono”), Byron e Augusta, la “dilettissima”, Byron e la scrittura (“Per arrivare al cuore scrivendo, bisogna aver messo il cuore alla prova”). Byron e la solitudine: “Hobhouse dice che sto diventando un loup garou – un orco solitario. Vero – “Io stesso sono solo”, passo in cui riprende Shakespeare prima di echeggiarlo in Manfred: “Io disdegnai di mischiarmi a un gregge, / Anche per esserne il capo – persino di un branco di lupi. / Il leone è solo, lo sono anch’io” (III, 1). Infine, malgrado tutto, Byron e la nostalgia, non cancellabile, per l’Inghilterra: “Come vorrei essere sulla mia isola…”.
Tra teatri, occasioni letterarie, pubblicazione di opere, lettere da scrivere e avvicendarsi di donne, l’ansia di fare, scrivere e vivere (“Devo imbarcarmi subito in qualche nuova impresa; il cuore ricomincia a divorar se stesso”), Byron si scopre in questi diari anche nell’amore per gli animali. Racconta di aver visto sei aquile “sulle pendici del Parnaso. È insolito vederne tante tutte assieme”, e quindi della decisione presa e mai più revocata:
“L’ultimo uccello a cui ho sparato è stato un aquilotto, sulle rive del golfo di Lepanto […]; da allora non ho più attentato, né lo farò in futuro, alla vita di un altro uccello”.
Di questo brano si ricorderà Emily Brontë, lettrice infervorata di Byron come i fratelli, quando in Wuthering Heights Catherine chiede a Heathcliff di non uccidere mai più un’altra pavoncella: “Gli ho fatto promettere che non avrebbe mai più sparato a una pavoncella, da allora in poi, e non l’ha fatto (XII)”.
Sempre Emily Brontë ripeterà il ritmo byroniano del diario ravennate del 5 gennaio 1821, “Alzato tardi – depresso e fiacco – tempo fradicio & fosco – Neve in terra – Scirocco in cielo – Cenato intorno alle sei – Dato da mangiare ai due gatti, il falco, & il corvo domestico (ma non addomesticato)”, nel suo Foglio di diario 1834, una delle brevi cronache che con Anne scriveva ogni quattro anni su pezzi di carta di fortuna e zeppi di errori d’ortografia, macchiati e spiegazzati per esser stati con lei sulle brughiere.
Emily parla qui – come Byron – dei suoi animali, tra dettagli della vita alla canonica: “Dato da mangiare ad Arcobaleno, Diamante, Fiocco di neve Gaspare fagiano […] Taby ha detto vieni Anne spellapatata […] i Gondaliani stanno scoprendo l’interno di Gaaldine”. La zia, che li detesta, vuole gli animali fuori dalla canonica e le ragazze possono avere un cane solo, ma Emily terrà anche un falco addomesticato e due oche, annotandone la presenza alla canonica sul modello del laconico fraseggiare byroniano.
Il quale ha spesso toni insolitamente pacati in questi diari, come parlasse a mezza voce con un amico – lontano dalle tonalità affascinanti ma ‘ardenti’ di molte lettere – e si confessi senza maschere o infingimenti. Ci sono i tuffi giovanili nel Cam a Cambridge, “anche se il Cam non è proprio l’«onda traslucida»” di Milton, e il ricordo dell’amico Charles Matthews, ufficialmente ‘annegato’ nel fiume. Ci sono figurine gentili come la figlia di Sir Thomas Lawrence, il pittore, che suona l’arpa “con tale modestia e candore da sembrare lei stessa musica”, e la figlia Allegra, affettuosamente chiamata “l’Allegrina”. Ci sono “il dotto Fletcher”, il fedele domestico che l’ha seguito in Italia e andrà con lui fino in Grecia, la compagnia degli amici, le speranze di libertà per l’Italia, la lettura di Milton che fa riapparire all’immaginazione “i giorni forse più felici della mia vita […], quando vivevo a Cambridge”.
La sensazione finale è che a popolare queste pagine sia sempre lui, diviso in mille personaggi, che tutti s’irradiano da una brillante inquietudine e dalla certezza che ogni riga, ogni verso, ogni parola ha come destinatario primo e ultimo un lettore. Fino al 22 gennaio 1824, quando “i miei giorni han messo gialle foglie”, in cui trascrive i versi Per il mio trentaseiesimo compleanno, profezia del destino che lo aspetterà a Missolungi:
Rimpiangi la giovinezza? E perché vivi? La terra per morire con onore È qui – tu scendi in campo, va’ e combatti Fino all’ultimo respiro. Va’, cerca e troverai – ché pochi cercano – Una tomba per te più adatta: di soldato; Guardati intorno, scegli il terreno E lì giaci placato!
Germinazioni letterarie infinite. Di questi diari si ricorderanno anche Rupert Brooke e Auden, per citarne altri due. Per il suo Soldato, Brooke non avrà che da lasciarsi ispirare: se dovesse morire, dirà nel suo sonetto più noto, potrà esserci per lui “un angolo di un campo straniero”, una terra che sarà “per sempre Inghilterra” in cui poter ritrovare “la dolcezza / Di cuori in pace, sotto un cielo inglese”.
“Placato”, Byron però non appare mai. È come respirasse in lui una volontà di dominare il mondo, la vita e la morte tramite il fare poetico, volontà di afferrare quella folgore che nemmeno lui riesce del tutto a guidare. E da ultimo affiora, immancabile, un’invincibile malinconia:
“Perché, all’apice del desiderio e del piacere umano […] si mescola una certa sensazione di dubbio e di dolore […]? Non lo so, ma la verità ci coglie più facilmente su una vetta, e la vertigine ci prende solo davanti a un precipizio, il più alto, il più spaventoso e il più sublime…”.
Per lui, quel “precipizio” sarà la Grecia: l’ultima “vertigine” prima della “sublime” caduta.