
L’obbedienza alla disciplina. Franco Rella: ipotesi per un ritratto
Filosofia
Tommaso Scarponi
Nel 1919, l’editore Kurt Wolff pubblica il racconto Un medico di campagna, inserito nell’omonima raccolta delle “nuove meditazioni” kafkiane. Vi si rintracciano nuovamente gli archetipi che l’autore boemo infligge ai suoi personaggi: la presa di coscienza, la metamorfosi, il viaggio. Curioso come in quegli anni, paura e miseria avessero condizionato le vite di alcuni tra medici-scrittori e scrittori-medici, che come fantasmi kafkiani si aggiravano per il mondo alla ricerca di una nuova coscienza, compatibile con il progresso e raggiungibile a mezzo di una dolorosa metamorfosi. Si contano diversi esempi, perlopiù rintracciabili all’interno della stessa generazione: quella di Céline, Cronin, Benn, Bulgakov e Carlo Levi. La professione medica li accomuna tutti, ma i loro Viaggi derivano da scelte e vocazioni diverse. Meglio si comprende se si considerano le metamorfosi di Céline e Bulgakov, rispettivamente un medico avverso alla scrittura e uno scrittore fortemente provato dall’esperienza di dottore.
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Quanto allo scrittore parigino, in un’intervista di fine anni Cinquanta ci dice: «Trovavo ridicolo essere uno scrittore. Mi sembrava una cosa di poco conto, sarei stato uno dei tanti». Va detto che la scarsa credibilità dell’intero corpus di interviste e dichiarazioni del dottor Destouches, ci prepara al compito non facile di leggere tra le righe di ogni sua asserzione. Alla tentazione di scrivere aveva infatti ceduto già all’età di 23 anni, quando durante la traversata che lo portò in Africa per la prima volta realizzò una galleria satirica di personaggi ispirati ai passeggeri della nave. Eppure, Céline ha continuato fino all’ultimo a raccontarci di come considerasse il mestiere di scrittore «una cosa assolutamente grottesca, pretenziosa, imbecille, che non era fatta per me». È vero però che ammise anche di «scrivere solo per rendere impossibile agli altri farlo», ed è quindi vero che la sua premura più grande fosse quella di tirarsi fuori dal parco di scrittori occidentali, snobbandone la vocazione e negando di aver mai avuto ambizioni giovanili di questo tipo.
Tutto ciò si spiega a partire da uno dei tratti più ingombranti della sua persona: l’alterità. Che grosso modo si risolve in quel paradigma per cui io sono io e voi non siete un cazzo. Quando Céline scriveva, lui che tutto diceva di essere tranne che uno scrittore, l’intera tradizione veniva giù in mille pezzi. Ma la sua alterigia non era abbastanza grande da nascondere la gigantesca consapevolezza di essere il migliore. Anche Hemingway amava mostrare i muscoli, ma lo faceva proprio per ricordare al mondo di essere il più forte. Céline non aveva invece alcuna intenzione di salire sul palco di Mister Olympia, piuttosto si limitava a guardare i concorrenti dal fondo della sala. Parte della sua alterità deriva poi dalla sincera ammirazione per il mestiere di medico. Gli studi furono infatti per lui una inesauribile fonte di fierezza: «Sono gli studi che fanno l’orgoglio di un uomo», ci dice nel Voyage.
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Céline si laurea a Rennes nel 1924 con una tesi su Ignazio Filippo Semmelweis, il medico ungherese che negli anni Quaranta del XIX sec. individuò la causa delle febbre puerperale. Semmelweis ebbe il merito di scoprire che l’origine della sepsi fossero le particelle di cadavere trasmesse alle degenti dagli studenti di medicina, che dalla sala settoria si recavano ad assistere le donne in travaglio senza igienizzarsi. La raccomandazione impartita di sterilizzare le mani con cloruro liquido diluito servì ad abbattere il tasso di mortalità delle partorienti, ma per il medico ungherese fu l’inizio della fine. La comunità scientifica asburgica considerò oltraggiosa la tesi del medico untore, per di più le sue simpatie per i moti secessionisti ungheresi contribuirono a far terra bruciata intorno a lui. Semmelweis cadde in depressione e venne rinchiuso in manicomio, dove nel 1865 morì di setticemia causata dalle ferite inferte dalle guardie. A questo punto si ha una misura netta e immediata della sovrapposizione del destino di Semmelweis con quello del giovane Destouches, che nel redigere la tesi-romanzo fa per la prima volta anche lui i conti con il demone della persecuzione.
Dopo gli studi partecipa a diversi congressi sull’igiene e sulla profilassi contro la tubercolosi, collabora con la Società delle Nazioni viaggiando in Europa, Africa e America. Poi il ritorno a Parigi, dove prende servizio nell’ambulatorio di un degradato rione della capitale. A quel tempo aveva già sperimentato la frustrazione dell’aspirante scrittore, vedendosi respinte due proposte editoriali da parte di Gallimard: L’Eglise e la tesi su Semmelweis. Tuttavia comincia a dividersi tra le visite ai pazienti diseredati e la stesura del Voyage. D’altronde, l’esercizio della professione medica gli aveva sbattuto in faccia una dose di miseria maggiore di quella che gli si era attaccata addosso sin dalla nascita. Nel rione ribattezzato Le Garenne-Rancy, il dottor Destouches faceva i conti con il paradosso del progresso e con la forbice delle diseguaglianze, constatava come la miseria operaia fosse un fertile terreno di coltura dei bacilli della tubercolosi.
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In una parte del Voyage ci si imbatte dunque nell’immagine di un medico povero, impotente, sfiduciato, che tanto ricorda gli Appunti di Bulgakov al tempo del servizio prestato presso il remoto ospedale di Nikol’skoe, nel governatorato di Smolensk, ribattezzata Mur’e. Così Céline ci invita nei sobborghi parigini: «la luce del cielo a Rancy, è la stessa che a Detroit, colate di fumo che inzuppano la pianura dopo Levallois. Scarti di casamenti ancorati al suolo da fanghi neri. Le ciminiere, grandi e piccole, fanno l’effetto da lontano di grossi pali nella melma in riva al mare. Lì dentro, ci siamo noi». Non meno desolante Bulgakov, che con franchezza ci confessa cosa pensò una volta arrivato sul posto: «A destra la campagna gobba e rosicchiata, a sinistra un boschetto tisico, e lì vicino izbe bigie e sgangherate. E pare che dentro non ci sia anima viva. Silenzio, silenzio intorno. A quanto pare non era impossibile che un uomo potesse assiderarsi sui campi, e mentre stai morendo di morte lenta, vedi sempre lo stesso identico spettacolo».
Dalle loro esperienze ricaviamo un’immagine della professione medica distante anni luce dallo status alto borghese a cui siamo abituati. Sono entrambi medici impantanati nella miseria, nel più basso livello di sussistenza. Rispetto a Bulgakov, Céline ha però il privilegio di poter viaggiare e togliersi lo sfizio di osservare da vicino l’esperimento sovietico. Mea Culpa (1936) potrebbe allora essere inteso come un secondo Voyage, che se accostato alle pagine su Rancy concorre a completare l’equazione celiniana per cui la miseria è una inclinazione naturale dell’uomo, e non una condizione politica. Non esiste ovvero strumento politico-economico che possa risolverla.
Da una parte infatti, «il proletariato francese è il più malnutrito, il più alcolizzato, il più male alloggiato, il più sporco, il più trascurato, il più mal difeso contro la malattia e la morte che i proletari di gran parte degli altri paesi europei». Dall’altra, il comunismo non è che «l’ingiustizia messa sotto un altro nome, ancora più terribile dell’antica, molto più anonima, perfezionata, intrattabile […] Più ancora che le ricchezze vuol dire spartirsi le sofferenze […] I soviet si perdono nella propaganda. Cercano di farcire la merda, di servirla con il caramello». La testimonianza di medico e scrittore rigurgitata da Céline direttamente dalle viscere della società, contiene la ferma convinzione che nel girone delle classi subalterne non ci sia speranza di riscatto, perché «l’individualismo la fa da padrone, mina tutto, compromette tutto».
E così, in questo «regno di frenesia, in cui gli uomini vogliono il progresso e il progresso vuole gli uomini», come un personaggio kafkiano Céline prende coscienza della sua condizione miserabile, e si abbandona alla metamorfosi per stare al passo coi tempi e non sfuggire al perpetuo divenire. La metamorfosi era senza dubbio una tensione latente, che gli aveva provocato alcune cicatrici fisiche e spirituali. Le guerre, la fuga, la prigionia, l’impeto di ricambiare gli schiaffi presi a mezzo di una scrittura in cui «la forma è l’unica cosa che conta». Perché in fondo, come tutte le esperienze patite, anche quella di dottore è servita a nutrire uno stile letterario di diretta derivazione voyeurista. Prima di raccontare i fatti, Céline li raccoglie nella loro forma grezza, per trattarli poi secondo un assurdo procedimento che li restituisce in una forma ancora più grezza. Durante le notti di Rancy si compie definitivamente la mimesi di Destouches in Céline. L’attesa è finita, il Voyage è pronto per essere proposto. Il medico, suo malgrado, è divenuto scrittore.
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Il destino di Bulgakov si è invece compiuto in una direzione del tutto opposta a quella di Céline. Il Maestro ha scelto togliersi il camice per dedicarsi in tutto e per tutto alle ambizioni letterarie, e contrariamente al suo omologo francese non ha mai potuto sperimentare il viaggio. Artista avverso alla teoria dell’arte come commissione sociale, il logorante rapporto con la dirigenza URSS lo ha privato dello spazio fisico e letterario, costringendolo all’interno della gabbia sovietica e cercando di assoggettarlo a una forma di servitù artistica coattiva. Ma prima di ciò, Bulgakov aveva guardato alla medicina con la stessa ammirazione confessata da Céline. «Ho scelto la carriera del medico perché ero attratto da un lavoro brillante. Ero attratto dal microscopio: quando ci guardavo dentro mi pareva molto interessante», ci dice senza risparmiarci la sua tipica punta di ironia, la stessa che ritroviamo miscelata agli angoscianti aneddoti raccolti negli Appunti di un giovane medico, a tutti gli effetti il Voyage di Bulgakov.
Al contrario di Céline, il Maestro non è andato incontro alla guerra. Piuttosto il contrario. Le chiamate alle armi nel ruolo di ufficiale medico e i quattordici rivolgimenti politici di Kiev – come ci ricorda nelle sue Memorie – dovettero persuaderlo che andare incontro alla propria vocazione letteraria sarebbe stata oltretutto l’occasione di abbracciare lo status meno compromettente di scrittore. Come si sarebbe appreso da un documento pubblicato alla fine degli anni Ottanta, Bulgakov era stato convocato da ciascuno dei governi che transitarono per Kiev dalla rivoluzione di febbraio fino alla definitiva annessione sovietica. Occupata prima dai Bianchi, poi da Rossi, nel 1919 la città diviene capitale dell’etmanato fantoccio instaurato dai tedeschi e retto da Skoropad’skyj, a sua volta rovesciato dai nazionalisti di Petljura nel dicembre 1918, in seguito sconfitti dai Rossi che successivamente cedettero l’Ucraina ai Bianchi, salvo poi invaderla definitivamente nel 1920, quando però Bulgakov aveva già lasciato la città.
In quegli anni il Maestro esercitò dunque la professione al servizio di poteri diversi, inclusi i più sanguinari. Dell’occupazione petljuriana soffrì non soltanto lo sconcerto provocato dai cadaveri disseminati per le strade di Kiev, ma anche la drammatica presa di coscienza a cui solo un medico può essere esposto. Proprio come il chirurgo del racconto Io ho ucciso, personaggio invocato dall’autore per rappresentare l’intelligencija prerivoluzionaria, che ammette di aver assassinato consapevolmente il suo paziente, un truce colonnello petljuriano. Probabilmente è la storia che meglio si candida a rappresentare la follia virale di quei mesi.
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Gli altri Appunti completano il quadro precedente all’abbandono della professione medica, quello in cui un giovane dottore sperimenta l’isolamento e il cruccio dell’eroe. Quando nel settembre 1916 viene inviato presso lo sperduto ospedale rurale di Nikol’skoe, Bulgakov è un eroe appena consapevole dei suoi poteri. Gli studi compiuti sono la sola arma di cui dispone per affrontare l’amputazione della gamba di una giovane ragazza, la sifilide, la bambina soffocata dalla difterite, la superstizione dei contadini, certi di poter agevolare il parto inserendo zollette di zucchero nelle vagine delle partorienti e somministrando loro un intruglio a base capelli. Bulgakov combatte e sconfigge ciascuno di questi mali grazie al coraggio e alla consultazione del manuale di medicina Döderline. Ma quando la sera si ritira in camera, il suo animo gli restituisce niente più che la pietà per se stesso. Quantomeno utile a lenire gli effetti dello sconforto, «e se mi portano un caso di ernia strozzata? Quarantotto giorni fa mi sono laureato con lode. Ma la lode è una cosa, e l’ernia un’altra».
A Mur’e, l’isolamento lo costringe a riflessioni di questo tipo: «Qui le serate erano straordinariamente lunghe, la lampada con paralume blu si rifletteva nella finestra nera, e io sognavo, guardando la macchia che brillava alla mia sinistra. Sognavo il capoluogo di distretto, che si trovava a quaranta verste di distanza. Avevo una gran voglia di fuggire dal mio ospedalucolo fin là. Ma fuggire era proprio impossibile, e poi a tratti capivo anch’io che la mia era vigliaccheria. Non era per questo infatti che avevo studiato alla facoltà di medicina?». Curioso come neppure due anni dopo Kafka sembri scrivere di lui nel racconto lungo meno di dieci righe e intitolato Il villaggio vicino. «La vita è incredibilmente breve. Faccio fatica a concepire come un giovane possa decidere di cavalcare fino al villaggio più vicino, senza temere che, a parte gli imprevisti del caso, il tempo stesso di una serena vita ordinaria possa bastare anche solo lontanamente per un tale viaggio».
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La dipendenza dalla morfina sviluppata accidentalmente da Bulgakov, lo intrappola poi nel limbo della perdizione. Qui l’eroe è posseduto dall’euforia, dalla depressione, dai momenti di spietata lucidità. Il personaggio al quale affida il racconto di questa esperienza, il dottor Bomgard, rappresenta per lui il privilegio di cedere alla tentazione del suicidio e di poter così reprime il medico. Perché non è improprio dedurre che la presa di coscienza del Maestro sia stata innescata dalla vocazione letteraria, e in un secondo momento infiammata dagli eventi politici che lo hanno indotto a correre a braccia aperte verso tutt’altra sorte, imprevedibilmente più disgraziata. Già nel 1917, un anno dopo l’esperienza di Mur’e, Bulgakov scrive e raccoglie i suoi racconti medici, dotandoli di uno stile sorprendente ed efficace nel conservare la verità dei fatti senza mai scadere nel naturalismo.
Poi, «una notte del 1919, mentre viaggiavo su un treno sgangherato, si era in pieno autunno, alla luce di una candelina ficcata in una bottiglia per il petrolio, scrissi il mio primo raccontino. Nella città dove il treno mi aveva trasportato presentai il racconto alla redazione di un giornale. Me lo stamparono. Così lasciai la mia laurea in medicina, conseguita con lode, e mi misi a scrivere. Vivevo in una lontana provincia e misi anche in scena, in un teatro locale, tre commedie». Quell’anno Céline si avviava agli studi di medicina, le potenze vincitrici si radunavano per la Conferenza di Parigi, Kafka pubblicava Un medico di campagna. Era il tempo in cui si compiva la presa di coscienza di Bulgakov e della sua metamorfosi in scrittore di città. Come scrisse Eridano Bazzarelli, la città era infatti il centro della sua fantasia creatrice. Se la Gerusalemme di Pilato è l’epicentro della geografia fantastica del Maestro, Kiev e Mosca lo sono della sua geografia reale. Nella capitale sovietica inizia la collaborazione con diverse redazioni, ricevendo dall’esperienza giornalistica lo stile rapido, chiaro e trasparente che mette al servizio della scrittura creativa. Al contrario di Céline, Bulgakov è uno scrittore-medico che non ha mai avuto alcuna ragione per rinnegare le proprie ambizioni letterarie né tantomeno per osteggiare se stesso nella coltivazione di una forma propria.
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I medici Céline, Cronin, Benn, Bulgakov e Carlo Levi – e prima ancora Veresaev – hanno esercitato la professione al servizio di una società pregna di dolore e morte. Le disillusioni premature, la guerra, la persecuzione, il progresso, li hanno resi testimoni della condizione umana, ma diversamente consci della propria missione. Che si ritenessero medici-scrittori o scrittori-medici, ad ogni modo hanno condiviso la tensione ad intraprendere ciascuno il proprio Viaggio, alla ricerca della grazia e del successo. Ma come in tutti i viaggi kafkiani, c’è la meta ma non c’è la via. Compiuta la metamorfosi, i voyageur hanno attraversato infiniti mondi seriali, divenendo voyeur nell’attesa di poter realizzare il proprio desiderio. La frustrante ricerca di una strada sicura da imboccare, proiettata a loro insaputa da un destino beffardo come quello di Céline e Bulgakov, medici e scrittori a cui non è stato concesso altro che miseria e persecuzione. Tutto ciò che è giunto alla meta sono le loro testimonianze, tragiche ma anche comiche, di ciò che hanno vissuto prima e dopo la metamorfosi.
Enrico Picone