“L’universo era per lui una ferita; ne provava un profondo e indicibile dolore”. Se volete qualcosa di autenticamente moderno leggete “Lenz” di Büchner, uno di noi
Sembra incredibile da dire, ma se volete leggere qualcosa di veramente moderno, nel senso più pieno della parola, qualcosa cioè in cui ritrovare le inquietudini più intime e segrete del vostro animo di uomini del terzo millennio, allora correte a leggere Lenz. È un racconto di una quarantina di pagine di Georg Büchner (1813-1837), scritto due anni prima della sua prematura morte. Se non lo conoscete sarà una scoperta prodigiosa, oltre che una lettura piacevolissima perché il linguaggio è diretto e cristallino.
Il protagonista che da il titolo al racconto è veramente esistito. Si tratta del drammaturgo romantico Jakob Lenz, e la storia non è altro che la ricostruzione del suo precipitare verso la follia durante un breve periodo di soggiorno presso la casa del pastore Oberlin, che di quei giorni ha lasciato un resoconto, a cui Büchner si è largamente ispirato. Accanto a Lenz l’altro grande protagonista è l’ambiente naturale, descritto con uno splendido realismo. Quasi come in una sequenza fotografica, Büchner mette a fuoco ora gli scarti frenetici della psiche di Lenz, ora la furia degli elementi naturali in un continuo gioco di rimandi tra normalità e follia, tra giorno e notte, luce e buio.
Se vogliamo stare ai dati scientifici i sintomi manifestati da Lenz sono quelli di una psicosi schizofrenica, ma ai nostri occhi il suo è molto di più di un caso clinico. La sua paura, la sua angoscia, quel senso di vuoto che lo prende alla gola («Lo colse una paura senza nome in quel nulla… il pensiero senza scampo che tutto fosse soltanto un sogno») sono le stesse che proviamo noi oggi di fronte a un mondo che ci è sempre più estraneo. Lenz è stato una figura di spicco nella letteratura tedesca dello “sturm und drang” come poeta e drammaturgo, ma nel racconto di Büchner assurge a simbolo dell’assurdità della condizione umana: «L’universo era per lui una ferita; ne provava un profondo e indicibile dolore».
E il suo dolore è anche il nostro, anche se noi non abbiamo a portata di mano un pozzo pieno di acqua fredda in cui buttarci dentro come faceva lui nel cuore della notte per affogare la propria angoscia. Alla fine Lenz viene preso da un senso di vuoto, dalla noia, da un’indifferenza che nemmeno il dolore fisico riesce più a contrastare. Viene allontanato dalla casa del pastore Oberlin che lo ospitava e portato a Strasburgo per sottoporsi a una improbabile cura. Lui lascia fare, non reagisce, ormai qualcosa si è spezzato per sempre nel suo animo: «Faceva tutto come lo facevano gli altri, ma dentro di lui c’era un vuoto atroce, non provava più paura, non provava più desiderio; la sua esistenza era un peso necessario».
La storia è ambientata alla fine del Settecento ed è stata scritta nel 1835, ma Lenz è a tutti gli effetti già un uomo del Novecento, è uno di noi. Il suo Io è esploso, si è frantumato e non costituisce più una identità piena di senso.
È un uomo sradicato dalla vita, nel senso che non ha bisogno di vivere, bensì è costretto a vivere. Non stupitevi quindi se leggendo Lenz, tra una pagina e un’altra, vi capiterà di sentire l’eco dei passi di Kafka, di Svevo e dell’Uomo senza qualità di Musil.
Silvano Calzini
*In copertina: Klaus Kinski nel “Woyzeck” (1979), film di Werner Herzog tratto dall’opera di Büchner