Soffriamo di troppa realtà. Pensiamo che la realtà sia, semplicemente, ciò a cui ci addestra l’illusione ottica, e questa realtà entra dalla finestra, dalle fessure della porta, soffocandoci. Che peccato! Gli scrittori pensano che basti scrivere pane per evocare il pane: la grande letteratura ce ne fa sentire l’odore, l’entità fragrante, il ruggito della crosta. Questo difetto di sguardo ci censura all’ovvio, all’epoca in cui l’arte della parola è diletto, dileggio del vero.
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Per questo, Le botteghe color cannella di Bruno Schulz (l’edizione fondamentale, che raduna “tutti i racconti, i saggi e i disegni” è Einaudi, 2001; 2008, con un saggio di Francesco M. Cataluccio) è un libro salvifico, da tenere sempre sotto la giacca. Quando la realtà vi morde fino a sfinirvi, sfibra il sogno in sabba di grigiori, aprite quel libro a caso. Vi solleva, vi salva. Esempio: “E quando stendevo la mano per cogliere l’azzurro, passava per le vie, attraverso tutte le finestre, il riflesso di una primavera di cobalto, si aprivano tintinnando i vetri, uno dopo l’altro, pieni di azzurro e di fuoco celeste, le tende si alzavano come per un allarme, e una corrente gioiosa e lieve trascorreva quella spalliera di ondeggianti mussole e oleandri sui balconi vuoti, come se all’altro capo di quel viale lungo e chiaro qualcuno fosse apparso molto lontano e si avvicinasse raggiante, preceduto da avvisi, da un presagio, preannunciato da voli di rondini, da segnali luminosi, diffusi di luogo in luogo”. Così termina la seconda stanza di un racconto memorabile, L’epoca geniale. Vedi? Leggi e ne sei travolto, stai già meglio, ti siedi sulla testa di Bruno a spigare l’azzurro del cielo.
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Per parlare di Bruno Schulz bisogna partire dalla fine. Siamo a Drohobyč, è il 19 novembre del 1942, Bruno ha 50 anni, pochi anni prima, nel 1937, ha pubblicato Il sanatorio all’insegna della clessidra, che si è illustrato da sé, è uno scrittore delicatamente riconosciuto (nel 1938 è premiato dall’Accademia polacca di letteratura). Bruno cammina. Ama Irène Némirovsky (“questo eccellente libro”, giudica La carriera) e Ivo Andrič, “questo straordinario poeta-scrittore”. Un uomo gli si fa accanto. Bruno ha comprato il pane. L’uomo gli spara alla testa: è un ufficiale tedesco della Gestapo. Gli spara così, senza avviso, senza prurito verbale, come si spara a un barattolo. Uccide uno dei grandi scrittori del secolo così, per gioco. Del corpo di Bruno Schulz, schiaffato in una fossa comune, non si sa niente. Ucciso per scherzo, con agghiacciante crudeltà, per strada, il pane in mano. Il corpo scomparso in uno sbadiglio della Storia. In questo desolato spreco – la sparizione dello scrittore – c’è, a posteriori, il senso di una scrittura, sgargiante sul nulla.
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Penso che la vita di Bruno Schulz sia riassunta nell’incipit di un racconto che si intitola Il Libro. “Lo chiamerò semplicemente Libro, senza alcuna definizione o epiteto, e c’è in questa astinenza e restrizione un sospiro di perplessità, una tacita capitolazione di fronte all’inafferrabilità del trascendente, giacché nessuna parola, nessuna allusione riuscirà mai a brillare, odorare, scorrere con quel fremito di terrore, presentimento della cosa senza nome, il cui solo primo gusto sulla punta della lingua va oltre la capacità della nostra estasi”. In quel brillio della “cosa senza noma”, in quell’estasi dell’ignoto è Schulz – in una alterità del linguaggio al di là di ogni borghesia borgesiana.
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Descrizione di Bruno Schulz secondo Witold Gombrowicz, anno di grazia 1961: “Gnomo, minuscolo, dalla testa enorme, quasi troppo spaurito per aver il coraggio di esistere, era un espulso dalla vita, uno che sguscia furtivo, sul margine. Bruno non riconosceva a se stesso alcun diritto all’esistenza e cercava il proprio annichilimento: non che sognasse il suicidio, soltanto tendeva al non essere con tutto il suo essere. A mio avviso, in quella tendenza non c’era alcun senso kafkiano di colpa, ma piuttosto l’istinto che impone a una bestia malata di scansarsi, di ritirarsi in disparte”. Come a dire: è lui, Bruno, che ha magnetizzato la pallottola del bastardo verso di sé. Credo che Schulz, piuttosto, i cui disegni sono generati dai Caprichos di Goya, sia un compagno di chiacchiere efficacissimo, sa guardare come nessuno, guardate qui: “Ogni giorno alla stessa ora per il viale del parco passa Bianka con la sua governante? Che dire di Bianka, come descriverla? So soltanto che è meravigliosamente conforme a se stessa, che esegue fino in fondo il suo programma. Col cuore serrato da profonda gioia, la vedo ogni volta entrare nuovamente, passo a passo, nel suo essere, lieve come una ballerina, e inconsapevolmente, con ogni suo gesto, colpire il segno… Una volta alzò gli occhi su di me e l’intelligenza di quello sguardo mi penetrò fino in fondo, mi trafisse come una freccia da parte a parte. Da allora so che niente le è segreto, che conosce tutti i miei pensieri fin dal principio”.
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Amava Gombrowicz (“Nella nostra letteratura siamo da tempo disavvezzi a fenomeno così sconvolgenti, a scariche ideali di tale misura quale il romanzo di Witold Gombrowicz Ferdydurke”), fino a rimproverarlo, con fiera dolcezza (“I tuoi prolissi parlottamenti e negoziati, tutta la tua ambigua e ingarbugliata politica. Per l’amor di Dio, torna in te! Scuotiti dall’accecamento!”), riconobbe subito Il processo di Franz Kafka (“Il suo rapporto con la realtà è del tutto ironico, perfido, animato da cattiva volontà – il rapporto del prestigiatore con la propria attrezzatura. Egli simula soltanto l’esattezza, la serietà, la sforzata precisione di quella realtà allo scopo di screditarla ancor più radicalmente”), che tradusse, insieme alla fidanzata, Jozefina, ma egli, astronomo del microscopico, non è kafkiano. Sapeva che “è l’arte, come espressione spontanea della vita, ad assegnare compiti all’etica e non il contrario. Se l’arte avesse solo la funzione di confermare ciò che è già stato stabilito, sarebbe inutile. Il suo ruolo è quello di una sonda affondata in ciò che non ha nome”.
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La Northwestern University Press pubblica le Collected Stories di Schulz, nella traduzione di Madeline G. Levine. Bruno non ha mai lasciato il suo borgo polacco, ora attracca con enfasi negli immensi Stati Uniti. “Dopo averlo letto, è come svegliarsi da un sogno febbrile”, ha scritto Becca Rothfeld in un lungo servizio pubblicato da “The Nation”, Territory of Dreams. “Di Schulz sopravvivono una manciata di racconti, qualche lettera, alcuni saggi, tutti i lavori occupano un libro di piccole dimensioni. Eppure, questo libro ha una statura incommensurabile. Dopo la sua morte, la vita di Schulz si è liberata da una biografia claustrofobica. Amato da John Updike, V.S. Pritchett, I.B. Singer e Czeslaw Milosz, è stato l’oggetto degli omaggi narrativi di Cynthia Ozick (Il messia di Stoccolma), di Philip Roth (L’orgia di Praga), di David Grossman (Vedi alla voce: amore)”. Insomma, da Schulz discende una generazione di scrittori, una scrittura.
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In un testo del 1936, Schulz capisce la norma che regola l’ordalia dei giorni. “Che cos’è la storia? Chi ha penetrato il segreto delle sue grazie, l’enigma dei suoi favori? Ignoriamo il mistero che si svolge a quattr’occhi tra essa e l’eroe, ignoriamo i patti segreti che stringono tra loro. È forse il segreto tra la fanciulla e il suo prescelto? Quanti ne passa in rassegna con insofferenza, quanti ne sorvola senza uno sguardo, come le pagine non lette di un libro, finché improvvisamente si ferma davanti a uno, fatta di colpo fervida e attenta. Gli altri li consuma in fretta, sommariamente, durano giusto il tempo del fiato contenuto nell’unica parola con cui riescono a rispondere alla sua domanda. Non sono in grado di pronunciare che una sola parola, tutta la loro vita basta ad esprimere una sola sillaba nel verso del suo indovinello”.
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Il proiettile fu una sillaba, la pistola un verbo coniugato male, quell’uomo la creatura senza aggettivi, e Bruno una grammatica, da un foro il fiorire di una storia, dove sono riassunti tutti, assolti e assassini. (d.b.)