10 Aprile 2021

Intervista totale a Bruno Dorella, musicista & sound designer: dai libri che si porta in tour alle opinioni sui social. Quando l’artista è inattuale compone "vedendo il sepolcro"

Bruno Dorella è un musicista e sound designer italiano. Ha attraversato ormai più di vent’anni di musica non convenzionale tra la sua casa discografica procacciatrice di musiche “altre” (BarLaMuerte) e i suoi innumerevoli progetti sonori.

Dal noise tribale degli OvO (con svariati tour in Europa e in America) all’heavy-blues dei Bachi da Pietra, passando per le musiche immaginarie dei Ronin (con tanto di colonna sonora per un film di Alina Marazzi) sino all’elettronica del GDG Modern Trio, il weird Jack Cannon o con l’industrial dei Sigillum S. Insonorizzazioni per il teatro e in luoghi inediti (sua la colonna sonora ambient permanente nel celebre ristorante vegetariano Joia, fondato dallo chef stellato Pietro Leemann) oltre ad avere una spiccata curiosità onnivora tout court. Lo abbiamo intervistato. (Fabrizio Testa)

Ciao Bruno, mi piacerebbe sapere innanzitutto se un musicista è un buon lettore; se è anche ispirato dalla letteratura e dal leggere in generale. Quanto è importante per te leggere? perché leggi ma soprattutto cosa leggi? Quali sono i libri che più hanno formato il tuo percorso di uomo e musicista?

Un buon musicista non è necessariamente un buon lettore. Io lo sono. E non lo dico (solo) per arroganza, è un dato di fatto. Alle elementari ho letto tutti i libri della biblioteca della scuola, ok non erano tantissimi, ma credo che nessun bambino l’abbia mai fatto né prima né dopo. Dopo ho compiuto studi umanistici e la lettura è sempre stata con me. Con un amico al Liceo ci siamo creati questa convinzione: moriremo quando non avremo più un libro da leggere. Ti assicuro che quando viaggio è più facile che mi scordi lo spazzolino che un libro. E se ne finisco uno mentre sono in tour devo subito far tappa in libreria. Tutto questo non vuol dire automaticamente essere un buon lettore, ma insomma fidatevi, o quantomeno accettate il fatto che io sia un appassionato, nonostante il mio aspetto che sta tra il guerriero vichingo in pensione e il camionista ucraino. Ovviamente la letteratura ispira in un suo modo speciale, a volte con la semplice suggestione di un titolo (come per “Cor Cordium” degli OvO, da Shelley), altre volte fungendo da scintilla per un intero album, com’è stato per “1/4 inch- XLR” di Jack Cannon, ispirato alla graphic novel “Trama”di Ratigher. Leggere è per me una funzione vitale, una cosa che faccio con la stessa naturalezza e la stessa necessità con cui dormo, bevo o suono. Leggo di tutto, mai un solo libro alla volta (è la mia assicurazione sulla vita, ormai lo sapete). Sul mio comodino troverete sempre almeno un romanzo, un saggio e un volume di poesia. Questo è proprio il minimo sindacale. Fumetti anche, certo. Ma ogni genere ha il suo modo di essere letto.

Un romanzo si legge dall’inizio alla fine, anche divorandolo, ma una raccolta di poesie richiede un altro tempo, una concentrazione diversa sulla parola e sul ritmo. I romanzi restano sul mio comodino giusto il tempo del loro consumo, che spesso mi assorbe in modo totalizzante, ma poi ci torno raramente. Invece i poeti restano lì anche per anni, torno e ritorno su alcune poesie, leggo un saggio critico e me le rivedo alla luce degli elementi che vi ho trovato. Li frequento come amici. I “Canti” di Leopardi se ne sono andati da poco, dopo almeno 3 anni di permanenza, e non era certo la prima volta che sostavano a lungo sul suddetto comodino. Durante il lockdown ho affrontato l’opera omnia di Giorgio Caproni, intervallata da un ritorno di fiamma per lo snobbatissimo Giovanni Pascoli, partito per caso da un articolo che dovevo scrivere sul vino, e proseguito poi da un paio d’anni con ripetute letture dei suoi versi. Per lavoro sto anche rileggendo il “Paradiso”, straordinario con la sua (fanta)scienza teologica medievale. I saggi poi possono essere veramente tanti contemporaneamente, mi piace leggere di storia, filosofia, enogastronomia, naturalmente musica, letteratura, esoterismo, arte, geografia, antropologia.. Ti manderò una foto del comodino, credo al momento non vi siano meno di sei o sette volumi aperti.

Il pazzo viaggiare è una cosa che, soprattutto in passato, ha coinvolto svariati artisti. Mi vengono in mente personaggi come John Lurie (da New York ai Caraibi) o Willy DeVille (che è passato da Parigi a New Orleans). Vivere spesso in città o luoghi diversi, oltre all’evidente arricchimento culturale, forma tantissimo un artista che si lascia ispirare dai luoghi, dalle atmosfere, dalle persone. Mi vorresti raccontare la tua genesi di viaggiatore? Sia i tuoi frequenti spostamenti di vita sia il tuo approccio al viaggio come musicista in tour o come semplice turista?

Il viaggio ha per me un’importanza pari alla musica. Forse per questo non mi pesano i tanti tour massacranti che ho intrapreso, e che spero riprenderò presto a fare. C’è chi dice che andare in tour non sia viaggiare. Non sono d’accordo. Anzi, è un modo molto più diretto e immediato di entrare a contatto con la vita reale e la gente del posto. Da turista vedrai i monumenti storici e le attrazioni, ma ti ci vorranno svariati giorni per capire le persone e il mood di un luogo. Noi siamo costretti a farlo nell’arco di meno di 24 ore, da quando arriviamo in una città per il soundcheck a quando partiamo la mattina dopo. Poi chi è curioso lo sarà sia da turista che in tour, e chi non lo è non lo sarà comunque. Certo mi piace anche viaggiare senza suonare, da solo o in due. Non amo troppo viaggiare con gli amici e non ho mai viaggiato in comitiva. Credo che 2 persone per un viaggio siano il massimo ammissibile per goderselo. Ho anche vissuto in diversi luoghi e, come dici tu, questa cosa mi ha arricchito molto. Dalla Lombardia alla Liguria, dalla Liguria a Berlino, da Berlino a Ravenna dove vivo ora, e mi appresto a spostarmi di nuovo, questa volta a Bruxelles.

L’infanzia spesso ci porta, anche per vie del tutto inconsce, a utilizzare pensieri, ricordi, emozioni di quel periodo nel nostro quotidiano. Gli artisti poi riescono anche a scomporlo e ricomporlo nel loro percorso (che sia letterario, cinematografico, pittorico, ecc…) giocando fortemente con un continuo rincorrersi di presente e passato. La tua infanzia oggi si riflette nelle cose che fai?

Praticamente tutto quello che faccio ha radici nella mia infanzia. Questa cosa è potentissima, e non trovo un modo migliore di spiegarlo che invitarvi ad acquistare il volume “Potente Di Fuoco” di Ericailcane. Una delle cose più toccanti che abbia mai visto. Confronta alcuni suoi disegni di quando era piccolo (scarabocchi che evidenziavano una fantasia già strabordante) con quelli di oggi. Incredibile, il suo mondo era già tutto lì. Si può davvero dire che il percorso di un artista non sia altro che l’evoluzione del mondo interiore della sua infanzia.  

Oggi la tecnologia è indubbiamente un aiuto per quanto concerne qualsiasi professione. Dalle fabbriche evolute grazie a macchinari programmati fino ad arrivare all’uso quotidiano dell’internet come mezzo per giungere ovunque, relazionarsi facilmente, vendere se stessi o un determinato prodotto. Sinceramente, durante i miei anni verdi, vedevo un mondo ancora molto naif ed analogico, sicuramente da raddrizzare, ma più concentrato sui rapporti umani. Oggi quello stesso mondo mi sembra incastrato in un buco nero, sorta di comfort zone sinistra, dal quale sarà impossibile districarsi. Ma il guaio è che quel buco tende ad allargarsi sempre di più. Una breve considerazione a riguardo?

Non sono nato digitale, ma sono stato giovane durante il passaggio da un’era all’altra. Venendo dal mondo punk/do-it-yourself, sono stato tra i primi a capire che la rete poteva essere utilissima per organizzarsi da soli tour e concerti. Ancora nel 2001 i concerti in Italia si organizzavano attraverso telefonate, e addirittura i tour all’estero via lettera fisica, perché telefonare costava una follia e i cellulari non li aveva quasi nessuno. Nel giro di pochi mesi è cambiato tutto. Sono stato tra i primi a usare l’ e-mail per organizzarmi tour all’estero, fa ridere dirlo oggi, ma nel 2002, col modem 56k non era così facile trovare i contatti, e moltissimi club non avevano ancora un sito web. Erano anni in cui un allegato da 1 Mega ti bloccava la posta per ore. Vivevo in un piccolo borgo ligure, Internet a casa non arrivava e per connettermi dovevo andare al ristorante in piazza nell’ora di chiusura, scroccandogli la linea telefonica per 2 o 3 ore. In cambio gli facevo usare il furgone per andare a raccogliere la verdura in campagna. Serviva comunque una lista cartacea di contatti per iniziare, e io la trovai nella fanzine punk “Book Your Own Fucking Life”, con cui ho iniziato. E poi i contatti umani, uno alla volta. Ti incontravi, e se scattava la scintilla ti scambiavi l’email. Quei contatti erano però solidi e reali. Oggi per organizzarmi un tour di 30 date devo iniziare spedendo circa 600 email, molte delle quali a persone che non conosco e che non sono interessate a quello che faccio.

Poi sono arrivati i social: inizio promettente con MySpace, ma poi già lì è arrivato il cancro: la gara dei numeri. Chi aveva più amici, più ascolti eccetera. Non ne siamo più usciti. Oggi, te lo dico francamente, il bilancio tra gli indubbi aspetti positivi dei social e quelli negativi, mi sembra nettamente in passivo. Gli aspetti morbosi e malati superano i vantaggi. Per me stare sui social è la parte sporca del mio lavoro. E ti dico anche che, se potessi permettermi di non usarli per lavoro, ne uscirei all’istante. Da tutti, subito e senza un rimpianto. Purtroppo non posso, rispetto molto chi lo fa, o perché si può permettere di farlo fare a qualcun altro, o perché è disposto a pagarne il prezzo in termini di visibilità. Mi stanno invece sulle palle quelli che non si sporcano le mani sui social e poi si lamentano dello scarso riscontro dei loro progetti. Io non conosco un modo efficace di uscirne senza compromettere la mia passione e il mio lavoro: la musica. Osservo molto attentamente alcuni recenti tentativi di trovare vie alternative ai social tradizionali (Uochi Toki su tutti).

Discorso diverso per quanto riguarda le piattaforme. Credo che, al netto delle disparità nella distribuzione dei proventi e del dubbio funzionamento degli algoritmi (cose su cui si può e si deve far pressione affinché diventino più eque e chiare), sia comunque irrinunciabile, avendone le possibilità tecniche, l’immensa disponibilità di materiale che abbiamo. Ci sono tanti aspetti da migliorare, ma mi sembra comunque più democratico della radio, dove in 5 decidono cosa deve ascoltare un’intera nazione (vi ricordate che frustrazione cercare della musica decente alla radio prima di Internet?) o delle recensioni (quanti dischi di merda abbiamo comprato a scatola chiusa?). Chi è curioso cerca, e chi cerca trova.  

Una delle cose che più mi inquietano e più mi affascinano durante il continuo presente che frequento è la paura della morte, il disfacimento di chi mi sta intorno, la forte certezza che tutto dovrà scomparire. Un ultimo pensiero, prima di congedarti, è su questo tema.

Il fotografo Luca Del Pia un giorno mi disse “Tu vedi il sepolcro”. Quello che intendeva è che, quando faccio musica, non penso al successo immediato, ma penso a ciò che di me sto lasciando, a qualcosa che mi sopravviverà e che sarà me dopo di me. Non l’avevo mai guardata da quel punto di vista, ma mi ci ritrovo. La morte ci circonda ormai sempre di più, anche a causa dei suddetti social che ci informano in tempo reale del bollettino di amici e conoscenti che poco a poco, com’è nell’ordine delle cose, se ne vanno. Perdite di cui, in molti casi, avremmo saputo giorni o anni dopo, o mai. Finché un giorno anch’io diventerò un ultimo post sul social del momento. E a quel punto sarà la mia musica a sopravvivermi, spero con dignità. 

Gruppo MAGOG