17 Aprile 2024

Esegesi di un gigante. Discorso intorno al Bruckner di Buscaroli

Avvio

Anton Bruckner campeggia quale più singolare apicale e sconcertante figura di compositore e di essere umano mai emersa nell’aurea tradizione che va da Bach a Shostakovich.

Mi rivelò un’allieva di Sergiu Celibidache, uno dei tre o quattro autentici segnori del podio, che il maestro romeno ma di gran formazione tedesca, un giorno degli anni Ottanta le confessò: «Sono venuto al mondo per dirigere Bruckner». Parole che erano il cartello indicatore, al contempo, d’una vocazione personale e musicale (rarissima tra i musicisti pratici) tradotta in termini trascendenti e della consapevolezza di quanta negligenza investiva Anton Bruckner, persino in anni meno infausti dei nostri, nei quali infatti la cocciuta stortura non s’è allentata, nonostante quanto dica qualche ottimista, ovvero distratto, o compiacente.

Il genio unico e uno snobismo che accomuna i cultori e i critici più preparati (o meno impreparati) vengono ora rispettivamente sanzionati e in notevole parte corretti dalla densa raccolta di saggi che compongono Bruckner, gigante della Sinfonia di Piero Buscaroli (Bietti), morto otto anni fa, il 15 febbraio 2016.

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Grandezza e miseria di Buscaroli lettore di Bruckner

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Chi volesse acconciarsi un’idea globale del compositore di Ansfelden troverà in queste trecento pagine ampia soddisfazione per il rifacimento, pur non integrale, di aspetti umani e creativi, senza, more solito, l’inutile ingombro di “notifiche” tecniche.

Anzitutto non correranno molte pagine (do per scontato l’ascolto di Bruckner) a che ci si renda conto che il maestro è l’autentico e per certi versi unico erede del lungo Big Bang della musica occidentale, che neppure a farlo apposta ne porta le medesime iniziali: Bach e Beethoven. Tutto quanto lanciato nel mondo da costoro, Anton Bruckner lo raccoglie e fa proprio – per un insopprimibile istinto nel senso inteso da Nietzsche – persino nella prassi organistica di interprete e improvvisatore, forse il massimo della sua epoca.

In queste pagine viene ad esempio in chiaro la tormentata e tormentosa questione delle Fassungen, plurale di Fassung, che vuol dire «versione», delle Sinfonie. Amici e meno amici, infatti, facendo leva sulla periclitanza psichica del musicista, sempre intervennero per modificare correggere e variare capolavori già pronti e sommi così com’erano usciti dal laboratorio originale. E ciò senza contare, anch’essi frutto del temperamento instabile e insicuro del legittimo padre, i liberi interventi di quest’ultimo. La storia della musica è zeppa di ripensamenti e manomissioni, ma nessuno è mai giunto ai livelli parossistici e talora irritanti che segnano la vicenda delle Sinfonie bruckneriane. Una disgrazia aggravata e dall’ampiezza d’ogni singola sinfonia, e dalla loro proverbiale costruzione “impossibile” e inusitata sino a quel momento da chicchessia.

Buscaroli riesce a rimettere ordine in questa babelica biblioteca, senza essere pedante o respingente con esempi di trattatistica musicologica, che confonderebbero il novanta percento di lettori e ascoltatori, occupando il giusto spazio e con semplici dettagli e rimandi. Certo, la più parte del lavoro, oltreché – si spera – ai direttori d’orchestra, è in capo al lettore. Suggerisco per orientarsi di dare un’occhiata ogni tanto anche alle note, ahimè cacciate in fondo al libro, e di attenersi, per il momento, a Celibidache e Furtwängler.

Nondimeno nella presentazione di problema e soluzioni Buscaroli commette un’imprecisione ben strana per un perfezionista come lui.

Trattando della sesta Sinfonia scrive: «Il Finale era pronto, in abbozzo, il 27 giugno, e il 3 settembre 1881, del diletto Sankt Florian, era terminata “la sola opera che il suo creatore abbia lasciato intatta nella sua forma originaria” [dal Bruckner di Max Auer]. È forse il solo momento della sua carriera in cui Bruckner non dubita, non traccheggia, non si trastulla dietro ai fantasmi di forme, alle diverse possibilità» etcoetera. Questo alla pagina 228; ma alla 236, protagonista ora la settima Sinfonia, ci informa: «Vale la pena di osservare che è la sola delle Sinfonie di Bruckner, oltre, naturalmente, alla Nona, che la morte interruppe, che non sia passata attraverso il tormento dei rifacimenti e delle varie versioni».

Spiace uno scivolone del genere, che però non va troppo sottolineato, se non per avvertire il lettore.

Ciò che invece non è una svista ma un’anomalia spiegabile solo con la volontà di avere ragione a tutti i costi, la troviamo tra la pagina 270 e 272, ancora a proposito delle Fassungen.

Buscaroli ogni tanto biasima e la debolezza di Bruckner e l’intrigare di maneggioni e saputelli: e sta bene, anzi benissimo. Ma è giusto per questo che quella piccola folata di pagine mi appare un mezzo tornado. Non possiamo in questo contesto, di che già abuserò, proporre tutte le opportune ma lunghe citazioni; sicché vi prego di fidarvi del mio sunto.

Lo storico poligrafo riferisce che Francesco Maria Colombo, «un giovanissimo critico, di intelligenza e preparazione straordinarie», gli domanda se davvero, come egli stesso aveva chiaramente scritto in precedenza, preferisse le versioni originali delle Sinfonie e non quelle cincischiate ovvero addirittura modificate in gran parte. Buscaroli risponde: «La Coda del primo movimento dell’Ottava Sinfonia [modificata] si è radicata nella nostra coscienza, assumendo restrospettivamente [sic!] un carattere di necessità [ri-sic!] e di rivelazione unica [!!!???], che non possedeva», per poi proseguire caracollando e terminando con ciò che in sintesi suona: ognuno ha il suo Bruckner.

Chi conosca e ami Buscaroli non può accettare questo cozzo di intenzioni e scelte, soprattutto dopo tanta acribia sulle Fassungen, e l’arcinoto rigore dello scrittore.

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Dove invece Buscaroli prosegue sicuro è nell’illustrare un aspetto decisivo di Bruckner, il quale a differenza di pressoché tutti i colleghi coevi passati e futuri (le eccezioni sono pochissime e certo non sono accostabili ai resultati di Bruckner), arrivò con un ritardo di circa vent’anni a essere un musicista compiuto, e ciò a causa di carattere e natali non fortunatissimi. Per tutta la vita dovette pagare questo scarto sotto certi riguardi, ma si dimostrò capace, come quegli atleti che concedono vantaggio agli sfidanti, di raggiungere e torreggiare su molti colleghi, se non tutti. Buscaroli è perfetto:

«Sull’età del ritardatario scolaro e la lunghezza e l’intensità di questo apprendistato [peraltro con maestri d’eccezione, Simon Sechter ad esempio], si usa spargere il sale di una compunta ironia, alla quale il candore dell’allievo si presta assai bene. Ma pochi hanno osservato che, grazie a quell’esercizio costante, scrupoloso, quale nessuno dei grandi maestri ebbe il tempo e la pazienza d’imporsi, Anton Bruckner divenne il più ferrato in teoria dei compositori dell’Ottocento; il solo in cui si realizzasse la compiuta fusione di un’arte individuale con le più astruse subtilitates della tecnica storica, quelle che solitamente restano confinate nella sterile sapienza dei teorici, e quasi mai passano nel dominio creativo» (p. 62).

La straordinaria maestria tecnica e teorica servì anche all’attività didattica, intrapresa tra le fatiche della composizione, e che diede vita a uno dei rapporti più felici e auspicabili che possano nascere tra insegnante e allievi, che non poco fece da contrappeso nella psiche di Bruckner agli affatto opposti atteggiamenti dell’ambiente musicale viennese, di che diremo a suo tempo.

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C’è poi la leggenda del Bruckner «mezzo genio e mezzo babbeo» (in realtà la frase dice ben altro che non babbeo, ed è uscita dalla solita grazia di von Bülow). Leggenda per modo di dire, ché invero il maestro non mostrava certo i caratteri d’un Wagner o d’un Brahms ed era attrezzato peggio persin d’uno Schubert o Chopin. Buscaroli ce ne offre parecchi esempi, però con estremo rispetto. A compensare ad ampi tratti tale sventura, che col trascorrere del tempo non di rado peggiorava, c’era la sovrana consapevolezza di sé quale volitivo creatore. Bruckner fu sempre cosciente di che volesse da sé stesso e dal mondo; che poi i resultati mondani non fossero sempre coincidenti con le aspirazioni, è altro paio di maniche. Ma mai in Bruckner c’è un tentennamento circa la volontà di diventare un sinfonista e, se possibile, il più grande di tutti. Non si era sbagliato affatto.

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A tal proposito sarà bene indagare un altro aspetto del libro davvero anomalo, cioè a dire il rapporto di Bruckner con Richard Wagner.

Tra i cultori di storia della musica è abbastanza nota la venerazione del primo per il secondo, così come l’alterigia di questo, il quale quando Bruckner s’affacciò sulla scena artistica aveva già raggiunte gloria e fama. Due caratteri e due temperamenti che più distanti e financo opposti si immaginano con difficoltà: ciò che rientrerebbe nelle umane cose e non farebbe testo se questi due poli così unici e reciprocamente anomali dell’arte musica non avessero, per il desiderio dell’uno, incrociata la strada dell’altro.

Buscaroli tiene a specificare che la dipendenza non solo psicologica ma soprattutto artistica di Bruckner verso Wagner è esagerata e per giunta, appunto, ricambiata con gesti e silenzi alquanto biasimevoli. Wagner, ad esempio, promise all’autore di dirigere tutte le sue Sinfonie, ed è ciò che non fece; e c’è il fondato dubbio se si sia mai interessato, oltre alla rapida scorsa, alla Terza che, insieme alla Seconda, Bruckner gli aveva portate a Bayreuth affinché il Maestro dei Maestri scegliesse in quale finire dedicatario.

Inoltre Buscaroli vede nella strada sinfonica ambita e scelta da Bruckner se non una contraddizione “programmatica” a Wagner, almeno la prova di un eccessivo peso dati all’adorazione artistica di Bruckner per Wagner. Bruckner rimase persino frastornato, dice Buscaroli, davanti all’immolazione di Brünnhilde, chiedendosi perché la donna dovesse fare quella fine.

Considerazioni meritevoli di qualche obiezione.

Anzitutto che Bruckner non scrivesse per il teatro e puntasse (quasi) tutto sulla Sinfonia, è evidente a chiunque; eppoi non costituisce una prova dell’autonomia artistica da Wagner. Anche questi, pur nella magna considerazione di sé stesso, teneva tra i lari suoi Bach e Beethoven e di significativo fece tutt’altro (dico «significativo», e quindi trascuro ad esempio le giovanili pagine pianistiche sfacciatamente beethoveniane).

Cionondimeno la presenza di Richard Wagner nel suono bruckneriano è incontestabile. Non voglio ripetere la solita solfa che dopo Wagner tutto è cambiato, non solo in musicis: eppure è così, come spiega bene Alex Ross in Wagnerismi che ho recensito su questa rivista, e bisogna farsene una ragione.

Si tenga poi in conto la presenza annuale di Bruckner a Bayreuth, anche dopo la morte del Maestro dei Maestri; le frequenti visite alla sua tomba; la succitata dedica alla Terza Sinfonia. Non è finita, perché proprio Buscaroli ci informa trattando della Nona, che sta tra gli “ottomila” bruckneriani e di tutta la musica colta: «La melodia dello sterminato Adagio, pari in misura soltanto a quello dell’Ottava Sinfonia, si leva da una reminiscenza del Finale della Quinta Sinfonia, raggiunge il Sehnsuchtmotiv del Preludio del Tristano; ascende, in appena cinque battute, all’Amen di Dresda del Parsifal» (p. 321).

Buscaroli giunge persino a liberarsi con inaccettabile disinvoltura dei contenuti d’una lettera al contrario assai eloquente. «Da Steyr – scrive Buscaroli – [Bruckner] inviò… una lettera alla scrittrice Gerturde Bollé, che lavorava sotto lo pseudonimo maschile di G. Bollé Hallmund, su un progetto di dramma musicale. Apparentemente aderendo all’offerta della scrittrice, Bruckner si diceva disposto a prenderla in considerazione dopo che avesse finito la Nona Sinfonia, “alla quale temo di dover dedicare due anni. Se vivrò ancora, e avrò le forze necessarie, mi volgerò di buon cuore a un lavoro drammatico. Mi piacerebbe una cosa alla Lohengrin, religioso-misteriosa e specialmente scevra di ogni impurità». Buscaroli così commenta: «La lettera, che i sostenitori di Bruckner compositore nient’affatto “assoluto”, ed anzi spasimante di desideri davanti ai cancelli fatati della musica a programma e del teatro, sembrano considerare una grande vittoria, appare piuttosto un modo educato di togliersi di torno l’aspirante librettista» (p. 303).

L’ipotesi di Buscaroli non è del tutto peregrina; ma è appunto un’ipotesi. Certezze sull’intenzione di Bruckner non ne abbiamo e quindi per un perfezionista che ha sempre riviste le bucce ai colleghi – che egli non considerava tali – il categorico punto alla questione stride assai, senza una pezza d’appoggio com’è, se non l’amore esclusivo di Buscaroli per la musica pura, o assoluta, e l’idiosincrasia per quella a programma, e in gran parte anche per il teatro e Wagner.

E se proprio volessimo emettere un giudizio su quella lettera, esso andrebbe in direzione opposta a quella di Buscaroli. In fondo «una cosa alla Lohengrin» era parecchio nelle corde di Bruckner.

Ciò che c’è di vero nella distanza tra Bruckner e Wagner è proprio nella dedizione alla sinfonia. È noto il così detto verboten wagneriano urbi et orbi, che poi era solo uno scrupolo artistico: non si possono più comporre sinfonie, dopo Beethoven, dopo la sua Nona; così come il conseguente imbarazzo e adeguamento di molti. Wagner intendeva dire che la forma sinfonia aveva colà raggiunto il suo apice, dopodiché si sarebbe soltanto potuto ripetere, fare della scolastica, sfiancare la forma: vedi Brahms e Mahler. Bruckner, invece, nota bene Buscaroli, se ne frega e tira dritto per la sua strada, dimostrando che lo scrupolo wagneriano era temerario. Bruckner compone Sinfonie che, insieme al florilegio beethoveniano (poni Terza Quinta Settima e Nona) e alla Grande di Schubert, costituiscono il grado sommo della venerata forma.

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5

Tangente alle ricostruzioni e osservazioni circa il rapporto Bruckner-Wagner, c’è quello tra Bruckner da una parte e Johannes Brahms e Eduard Hanslick dall’altra. Se Buscaroli è, a mia memoria, l’unico a precisare che la feroce ostilità del potente critico musicale arriva soltanto molto tardi, trasformando un iniziale favore e simpatia in aperta battaglia o, quando avrebbe rischiata la faccia esprimendosi con la solita malevolenza, in silenzio, è pur vero che il contegno assunto da Brahms, in questo caso dall’inizio della comparsa di Bruckner sino a dopo la morte di questi, fu sempre di aperti disprezzo e acrimonia: ma con Brahms, tra le sue erme musicali, Buscaroli è più che morbido. E ciò anche quando è lui stesso a riferire un episodio oltremodo disdicevole.

«Appena arrivato a Vienna come nuovo direttore dei Gesellschaftskonzerte, Perger, che evidentemente non era un seguace di Bruckner, andò a presentarsi a Brahms, il quale subito gli chiese se avesse visitato anche Bruckner. L’altro dovette restare meravigliato nel sentirsi consigliare: “Lei dovrebbe presentarsi al più presto anche a Bruckner, e credo che farebbe bene anche ad eseguire presto, nel primo anno, una delle sue opere per coro”. Era una resa dettata da un sentimento di equanimità, e, più ancora, dalla considerazione della comune condanna. E, tuttavia, una resa parziale. Brahms non raccomandò, al nuovo professionista della bacchetta, le Sinfonie del rivale, per le quali manteneva le sue riserve e, forse, le sue gelosie. Raccomandò una composizione per coro, il che gli consentì di conciliare l’umanità con le sue prevenzioni» (p. 314).

Ci sono almeno cinque cose che non tornano nella ricostruzione di Buscaroli.

«Rivale» di Brahms, Bruckner non lo fu mai. Semmai era il primo a essersi posto in tenuta da guerra, che mosse all’altro. Bruckner faceva la sua strada, cercando di schivare gli schizzi di letame e le infamie, e basta. Quanto al sentimento di equanimità, basti leggere che cosa combinava in Vienna Brahms, poi aiutato dal potente Hanslick, ai danni di quell’uomo venuto dalla campagna. Quanto alla «comune condanna», Brahms e Bruckner in comune non avevano un fico secco, e men che meno una condanna, che sempre gravò, anche grazie a Brahms, sul capo del solo Bruckner. Ciò che Buscaroli chiama di Brahms «riserve» e «gelosie», con l’aggiunta per queste ultime del «forse», erano carognate e pettegolezzi, acrimonia e vero e proprio forsennato livore, senza che l’altro gli avesse fatto alcunché se non essere sé stesso e a lui, pace a chi la pensi diversamente, di gran lunga superiore nel genere sinfonico. Circa poi l’«umanità» di Brahms, egli ne diede per tutta la vita prova non solo con Bruckner, ma anche con l’“amico” Robert Schumann, del quale si ripassava la moglie Clara Wieck, mentre l’altro era in clinica a farsi curare i gravissimi disturbi nervosi.

L’atteggiamento verso il maestro amburghese è così blando e viziato da smaccato favoritismo, da far dire a Buscaroli che l’odio di Brahms e poi di Hanslick per Bruckner erano dovuti a un’ingenuità dello stesso Bruckner, che, essendo un po’ tonto nei rapporti sociali, non capì la gravità di essersi messo nel partito wagneriano di Vienna (ma per questo non contro Brahms). Insomma, ad averla fatta grossa non è Brahms, lucido e scafatissimo uomo di mondo, ma Bruckner, che in fatto di diplomazia e trame civili e rapporti personali era un incolpevole sprovveduto.

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Altra curiosa posizione di Buscaroli la troviamo ripetuta per ben due volte: «Ogni composizione che si chiami Sinfonia, dopo la loro morte [di Bruckner e Brahms], sarà un falso»; e ancora: «Non c’è dubbio, per noi, che la Nona di Bruckner, la vera Incompiuta della storia di questa forma, sia l’ultima vera Sinfonia. Quelle che verranno dopo, per quanto ne portino il nome, saranno, tutte, cose diverse» (pp. 23 e 296). Ruhig, bitte.

Quando ho letto queste due perentorie asserzioni sono sobbalzato sulla sedia.

Se consideriamo la forma classica della sinfonia che va da Haydn alla fine del secolo decimottavo, Buscaroli potrebbe avere ragione, e ciò nonostante la rivoluzione beethoveniana (non ci si dimentichi della pertinentissima definizione di Charles Rosen, che a proposito del Gran Sordo parla di «classicismo rivoluzionario», definizione ben accolta dallo stesso Buscaroli). E in effetto le Sinfonie bruckneriane possono essere tenute per l’epitome, inaudita e irripetibile, di quel vasto torno di tempo, solo a gran fatica e per pura convenzione, concordo con Buscaroli, potendosi chiamare Sinfonie quelle di Mahler.

Tuttavia la mia reazione al verboten – questo sì vero e proprio – buscaroliano è stata dovuta in particolare alla forte impressione che provo ancora d’un breve ma istruttivissimo saggio dello stesso Buscaroli dedicato alla Sinfonia dell’obbedienza, che è poi la Quinta di Shostakovich. Vi risparmierò i noiosi particolari tecnici.

Siamo nel 1936 in Unione Sovietica, e il gigante russo era stato massacrato dalla «Pravda» dopo l’opera Lady Macbeth del distretto di Mcensk, accusata di formalismo, taccia che perseguiterà l’autore più volte nella sua lunga carriera.

La Lady era invero solo di duro ascolto per chi, comunista e rivoluzionario, era soprattutto nazionalista e legato, perché così voleva, alla tradizione classica europea, di cui già la Russia zarista era stata tonante e intelligente voce in capitolo. E il regime, pare nella persona dello stesso Stalin, chiese e ottenne riparazione all’offesa. E fu la Quinta Sinfonia, che in effetto corrisponde proprio ai criteri di questa tradizione, e ciò pur nella sua prospettiva avanzata e assai personale (non meno, sebbene diversamente, dai lavori di Bruckner o Beethoven).

Scrive Buscaroli: «Il materiale accademico della tradizione sinfonica vi è riscattato a nuova esperienza vitale. Sciotakovich [sic] smette d’interrogare il futuro, caro ai mediocri, e si volge al passato, fonte d’ispirazione dei grandi: non solo alla tradizione russa ché, anzi, si sceglie l’antenato giunto in Anton Bruckner, la cui ombra percorre da un campo all’altro la vasta partitura» (La vita l’udito la memoria, Fogola 1987, p. 261).

Buscaroli, come mi disse più volte, era convinto che, a dispetto di certi pettegolezzi colti, la fonte di ispirazione del russo era non già Mahler, come qualcuno grida, ma proprio Bruckner, ciò che non solo la Quinta ma anche altre pagine sinfoniche di Shostakovich attestano. E ciò pur nella sua totale autonomia creatrice e ideale, che, fusa a spaventose e totali conoscenze tecniche e a un’inventiva di rara presenza nella storia, colloca e fissa Shostakovich, nato nel 1906 e morto nel ’75, quale massimo compositore del Novecento e sicuramente l’unico che, nella catastrofe sonora e morale soprattutto del secondo dopoguerra, mantenne in vita il sacro fuoco della tradizione musicale europea.

La stranezza davanti a quelle parole di Buscaroli aumenta poi considerando che codesta ripetuta considerazione sulla forma sinfonica, come dirò meglio nella seconda parte dell’intervento, risale a mezzo degli anni Ottanta, e solo nel 1980 era apparsa la pagina sul maestro russo (credo sul «Borghese»), poi riproposta tale e quale in volume nel 1987. Direte: avrà mutato d’avviso. Per nulla: ancora a me disse di voler destinare La sinfonia dell’obbedienza a una sua nuova raccolta di lavori musicali (La cetra spezzata, purtroppo spezzata anzitempo); ed era il 2004. Passiamo ora a tutt’altro (si fa per dire) argomento.

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7

Restituendo Anton Bruckner alla musica assoluta e svincolandolo così da ogni programma, Buscaroli è tassativo nel sottrarlo a ogni tentativo di «annessionismo religioso», come si esprime già in proposito di Bach. Temo però che qui si sbagli di grosso, e ciò in grazia d’una delle sue più clamorose idiosincrasie, quella verso la religione, che Buscaroli, persona coltissima ma con limiti autoimposti, intende sempre in maniera popolare e segrestana, senza mai accennare, né qui, né mai, ad altri volti e voci del sentimento religioso. Per lui è solo clangore di catenacci che schiudono inferni o paradisi, tutto qui. Sicché la religione in Bruckner non conterebbe alcunché, e ciò nonostante evidenti prove contrarie, in parte da lui stesso addotte (anche se non troppo evidenziate), come ad esempio la dedica «al caro Dio» della Nona Sinfonia, liquidata in fretta. Che Bruckner – dopo Wagner, un’orchestra, una testa coronata – dedichi proprio al Padreterno, appellato persin «caro», la sua ultima fatica, in cui s’impegnò già molto provato nel corpo e nell’anima, è un fatto minuto sì, ma a cui non si può né deve togliere il giusto peso.

Di poi, nelle fatiche estreme dell’ultima Sinfonia Bruckner «ha forse perduto la speranza» di portarla a termine, e pertanto «medita di sostituire il Finale con il Te Deum», scritto qualche anno avanti, come lo stesso Buscaroli ricorda per due volte (pp. 315 e 318), così come altrove accenna alle preghiere mai assenti dalla routine quotidiana, anche quando è in viaggio.

Bruckner era un cattolico praticante e persin fervente, anche se non ottuso pur nella sua campagnola semplicità, tanto da chiedere al vescovo la dispensa per i giorni di restrizioni alimentari imposte dal calendario liturgico. E a Buscaroli, ça va sans dire, non può essere sfuggita la foltissima schiera tra Messe, Requiem, Salmi e svariate altre pagine perspicuamente religiose. Eppure.

È vero: Bruckner non fu compositore “religioso”, ma solo se si sostituisca a questa parola «clericale», o «chiesastico», oppure «bigotto», «ottuso baciapile». Questo, ovviamente, Bruckner non era affatto, né compose avendo in testa (solo) servizi liturgici: le Sinfonie erano parte a sé stante. Ma fino a un certo punto. Egli era, sì, nella schiera dei musicisti assoluti, ma ritengo sia assai improbabile, per non dire impossibile, che Bruckner non portasse anche nella sua attività principale gli Streben e Stimmung religiosi: lo fanno certi spazzini di mia conoscenza, che pensano alla loro mansione come servizio divino, figurarsi se Bruckner se ne fregasse, come fa intendere Buscaroli, del caro Dio e dell’assoluto (appunto!) scrivendo quei capolavori.

Credo che poi basti ascoltare le Sinfonie per rendersi conto di che cosa aliti lì dentro. E tutto questo, si badi, lo sostiene un non religioso.

Tale presa di posizione di Buscaroli va collocata e capita tanto nella cecità buscaroliana verso qualsiasi trascendenza, quanto verso la filosofia, quale che fosse.

A riprova basterebbe di sapere che cosa mi disse, dopo avermi accolto come figlio e allievo, venendo a sapere che studiavo filosofia: per poco non mi insultava. Ma conta soprattutto cosa accade coram populo, quando ad esempio gongola perché Beethoven rifiutò di andare a una conferenza su Kant del quale, aggiunge vieppiù contento, non sapeva niente, così come di Hegel. E scrive: «E ancora ringrazio il buon Wegeler che, quasi a redimere il grande amico dell’accusa d’essere poco colto in materie kantiane, fa sapere al suo lettore che in quel tale Quaderno n. 22 della primavere 1820, proprio lui [Beethoven] “ha tracciato, in caratteri lapidari” quella frase sulla legge morale e il cielo stellato, che non significa niente, ma sta sempre così bene» (Beethoven, Rizzoli 2004, p. 104). Che quella frase, detta così, lasci il tempo che trova, è certo: ma solo se si ignori tutto il libro che la precede e anche quello prima ancora (Ragion pratica e Ragion pura).

Per i soliti motivi di spazio, evito di citare che cosa dica, ancora nella monografia sul Titano, circa la filosofia della musica e Adorno.

Però è invece opportuno ricordare che tutta codesta acrimonia contro la filosofia urta contro il seguente orgoglioso avviso:

«Debbo dire, affinché il biasimo del mio metodo possa essere completo, che con le eccezioni di Blume, di Leo Schrade e di Heinrich Besseler, le ringhiere a cui sostenermi nell’interpretazione di quell’agire, di quel patire, di quelle testimonianze non mi furono offerte dagli scritti dei musicologi, ma da una schiera di guide dello spirito umano, e tedesco in particolare, e delle atmosfere delle epoche storiche, che mi sono liberamente scelto in Wolfgang Goethe, Arthur Schopenhauer, Jacob Burckhardt, Friedrich Nietzsche, Oswald Spengler, Gottfried Benn».

(Bach, Mondadori 1998, p. xi)

Come intendere poi che l’ultimo libro pubblicato in vita, Una nazione in coma (2013) si chiuda con entusiastiche citazioni, raccolte lungo tutta la vita, di Emil Cioran?

Sa chi lo abbia conosciuto, ma altrettanto chi se lo sia letto con una certa frequenza, che Piero Buscaroli era un uomo molto materico, quasi esaltatore della materia («Senti come frigge! Senti come frigge!», mi disse afferrando davanti a casa sua due grandi sassi saldati insieme milioni d’anni prima, che si era conservato, e aggiunse: «Io credo all’eternità della materia»). Non c’è una sua sola pagina in che si ritrovi la commozione per il mistero, lo sbigottimento davanti al silenzio o all’enigma della vita, niente, mai. Ha fatto altro, lo ha quasi sempre fatto bene quando non benissimo; ma questa lacuna, anzi voragine va segnalata, soprattutto quando in essa ci caschi un innocente Anton Bruckner.

L’irritazione contro filosofia e religione impedisce a Buscaroli di cogliere una possibile – non dico quindi né probabile, né tanto meno certa – esigenza di trascendenza insita in pressoché ogni espressione artistica. E dirò di più: se ripenso alle Sinfonie di Anton Bruckner non riesco a non associarle istintivamente a certi momenti della filosofia di Martin Heidegger – che, ça va sans dire, Buscaroli ovviamente ignorava da cima a fondo – e all’invito a quell’ascolto dell’essere. Che Heidegger, dopo la giovinezza convintamente cattolica, fatto da non scordare mai, sia transitato expressis verbis all’ateismo, non pone questione se non reputando la lucida scelta del filosofo quale distacco da certa fede e da certa religione. Non arrivo, perché non ne sono sicuro e anzi ho qualche dubbio non foss’altro per le complicatezzestoriche e concettuali che implica quel Nome, ad affermare che l’Essere di Heidegger, soprattutto del primo Heidegger, sia in realtà Dio, come suggerisce qualcuno. È però certo quanto Heidegger disse nella famosa intervista allo «Spiegel» (1966), pubblicata dopo la sua morte (1976) e che dà il titolo al libro in cui è raccolta: Ormai solo un Dio ci può salvare; e anche quanto la sua intuizione del mondo (Weltanschauung) tutto sia fuorché materialistica oppure ostile a un ascolto del mistero e a una espressione del mistero.

Dico in fuga che ci sono alcune pagine di Heidegger molto più vertiginosamente spirituali che non vasta parte della letteratura, filosofica e non, di matrice religiosa: si pensi soltanto al nucleo forte del Principio di ragione, argomento ariduccio ma che alla fine del procedere heideggeriano sboccia nei nomi di Meister Eckhart e Jakob Böhme, «il primo filosofo tedesco», come lo chiamò Hegel.

Ovviamente l’accostamento tra Bruckner e Heidegger è soltanto una suggestione personale, credo tuttavia non destituita di qualche senso, e che si aggancia a quanto segue.

A riprova del forsennato odio verso tutto ciò che anche di lontano sappia di spiritualità o filosofia stia giusto l’inizio del libro bruckneriano, in cui Buscaroli arriva persino a contestare Wilhem Furtwängler, uno dei suoi intoccabili, il quale in Suono o parola, capolavoro della musicografia, paragona Bruckner proprio a Eckhart e Böhme. Buscaroli conclude: «La tardiva comprensione della realtà di Bruckner, in quanto figura storica e responsabilità musicale, discende in buona parte da simili collocazioni misticheggianti».

È da ultimo osservare il silenzio nell’opera complessiva buscaroliana, soprattutto dove sarebbe stato necessario almeno accennarvi, circa gli studi filosofici di Furtwängler e in particolare di Celibidache, seguace della fenomenologia di Husserl, che trovò applicazione massima proprio nelle impareggiabili esecuzioni bruckneriane.

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8

Accennavo qualche capoverso fa ai Filarmonici viennesi.

Essi ebbero con Bruckner, e non solo una volta, atteggiamenti inqualificabili. Ma sbigottisce l’attitudine di Buscaroli in queste pagine, che contraddice a quanto egli stesso scrive altrove. Ora Buscaroli dice: «Il “martirio” della sua [di Bruckner] successiva esistenza viennese non può intendersi, come troppo spesso accade nella letteratura bruckneriana, come un caso di pura perfidia, come malignità di una cricca ostile e infame di teste ristrette; bisogna interpretarlo piuttosto come l’infelice conseguenza d’una contesa storica tra una linea di cultura, amorosamente e tenacemente ravvivata, che risaliva ai classici viennesi, a Schubert e Mendelssohn, e quella incarnata in Berlioz, Liszt e Wagner, della “musica dell’avvenire”, a Vienna odiata e temuta» (p. 161).

I Filarmonici viennesi sarebbero dunque mondi di qualsiasi colpa. Ma ben diversi i toni adoperati nel Beethoven:

«I suonatori d’orchestra, che oggi va di moda blandire con epiteti come “magico”, chiamare “artisti”, coprire d’applausi appena di presentino, alla spicciolata, sul palco, e ritrarre mentre soffiano e grattano sui loro strumenti alle televisioni, furono sempre la truppa per simili manovre. Chi conosca di quali mascalzonate e crudeltà seppero macchiarsi i magici Filarmonici di Vienna, quanto montati e unti a dovere inscenarono la disgustosa ribellione contro Anton Bruckner, che [lo] portarono alle soglie del suicidio per disperazione, non dubita che contro le Cantate di Beethoven quei manovali della musica montassero un simile ordigno» (p. 183).

E altrove c’è ancor di peggio.

Tuttavia, non ci si meravigli. Tutto questo Bruckner, gigante della Sinfonia, pur con la presenza di qualche stecca dietro le orecchie, tutto sommato lieve, non possiede se non in trascurabile parte la nota, notissima forza della prosa e dei contenuti cui Buscaroli per cinquanta e più anni ci aveva abituati. Sempre incisiva e rapinosa, qui essa perde parecchio smalto. Resta riconoscibile, ma induce in parecchie perplessità.

Una caratteristica poi dello stile di Buscaroli, pur sempre inconfondibile, era di sapersi armonizzare nei grandi libri ai suoi soggetti. Forse è una mia impressione, ma leggendo La morte di Mozart, Bach e Beethoven si sente e si vede l’andamento d’ognuno e dell’epoca di pertinenza. È solo una mia percezione? Se è così, sono in buona compagnia: perché l’autore mi diede ragione.

Quasi senza volerlo, parlando dello stile, siamo usciti dal tema Bruckner e abbiamo messo un piede in quello di questo libro e della sua curiosissima biografia.

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Silenzi, contraddizioni e strane loquacità attorno a un’opera

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Parlando del caso Shostakovich, alludevo alla nascita di questo libro quasi quarant’anni fa, e bisogna spiegare.

Bruckner, gigante della Sinfonia sarebbe invero la raccolta degli interventi pubblicati tra il 1985 e il 1987 dal Teatro Comunale di Bologna in occasione d’un vasto ciclo bruckneriano, voluto dall’allora sovrintendente Carlo Fontana, che chiamò Buscaroli in qualità di esperto. Alcuni particolari di quell’evento, ce li riferiscono i sensalidel libro, lo stesso Fontana in una «Testimonianza» e Luigi Ferrari, anche questi detentore di cariche musicali istituzionali, in una «Premessa». (Per inciso, se non si fosse un poco addentro alle questioni musicali, ci si dovrebbe rivolgere alla rete per sapere chi son costoro, su cui il libro infatti tace).

Fin qui parrebbe tutto in ordine. E invece…

Retromarcia di vent’anni esatti, 2004. Nel secondo risvolto di copertina del Beethoven, approvato da Buscaroli e forse addirittura scritto da lui, leggiamo: «Prepara ora La cetra spezzata, sulla fine della musica classica, e una monografia su Anton Bruckner». Assai più preciso l’interno:

«Un Beethoven c’era, ormai da decenni, nei programmi di un futuro ipotetico e sempre più indistinto. Di tanto in tanto, annunciavo di averlo cominciato. Riempivo vecchie agende, quaderni, che poi mettevo da parte. Ci scrivevo saggi, programmi, piccoli libri. Restava sempre la coppia dei miei traguardi, Beethoven e l’autobiografia, Dalla parte dei vinti (…). Poi c’è un Bruckner, anche quello che avanza e retrocede, in gran parte già scritto; ha bisogno d’esser messo in ordine e ricevere la passata finale» (p. 18).

Sono le stesse, stessissime parole che proprio quell’anno Buscaroli mi disse brandendo il plico di appunti e quant’altro su Bruckner nello studio, quello piccolo accanto alla cucina nella sua casa di campagna. Lo ricordo come se fosse stamattina; così come ricordo che l’annuncio era stato dato anche in diverse conferenze.

Si noti: egli scrive «Bruckner», così, in corsivo, come Dalla parte dei vinti, che sarà esattamente il titolo delle sue memorie (non un’autobiografia, avrebbe tenuto poi a dire l’autore) uscite nel 2010 da Mondadori. Il corsivo al libro sul maestro austriaco ci deve suggerire che l’idea di un titolo era già nella sua testa, da cui era ben difficile togliergli qualcosa.

La prima notizia stona con quanto afferma Beatrice, la figlia di Buscaroli, un anno dopo la morte del padre, annunciando iniziative per mantenere viva la memoria dello scrittore: «Lavoriamo alla pubblicazione degli scritti su Bruckner, i soli a cui ancora stava dedicandosi» («il Giornale», 14 febbraio 2017, corsivo mio). Ciò indurrebbe a pensare che nel torno dal 2004 al 2016, anno della morte di Buscaroli, questi abbia voluto cambiare direzione e quindi il libro bruckneriano fosse diventato qualcos’altro a petto del lavoro «in gran parte già scritto» e che necessitava solo di «ordine» e della «passata finale». Normale e legittimo supporlo, così come ancor più normale e legittimo è per un autore cambiare idea sulla propria opera.

Nondimeno, prestiamo maggiore attenzione. Beatrice, infatti, dice che il padre ci stava ancora lavorando – leggi: avanti di morire –, e ciò induce banalmente a supporre che il libro, ormai diverso da quello annunciato nel 2004, fosse ancora in fieri.

Qui però balza agli occhi una contraddizione: Buscaroli ha infatti sempre parlato di un libro su Bruckner e non di scritti. Il primo implica un’opera unitaria e coerente, l’altro una raccolta di lavori o qualcosa di analogo. Basterebbe a questo punto che qualcuno sciogliesse l’enigma e la faccenda sarebbe risolta. Ma non solo tutti tacciono (vedremo meglio questo punto dopo), ma chi parla ingarbuglia ancor di più la faccenda. Vediamo.

Dichiara Luigi Ferrari: «Purtroppo, per ragioni sulle quali sarebbe difficile e forse inutile lambiccarsi, l’aspirazione di Buscaroli [di pubblicare il «Bruckner»] non trovò il momento, o le condizioni, o gli stimoli che le sarebbero stati necessari per concretarsi» (p. 8). Lambiccarsi? I famigliari di Buscaroli, Beatrice in testa, sono ancora vivi e in salute e avrebbero potuto fornire ai “curatori” (virgolette obbligatorie) tutte le spiegazioni del caso. Perché quindi Ferrari si esprime in codesto modo?

Ulteriore stonatura, peraltro doppia, troviamo esattamente all’inizio e alla fine dell’intervento ancora di Ferrari, infatti stranamente intitolato «Premessa a un libro ritrovato» (corsivo mio) e la cui ultima riga parla del «ritrovamento di questo libro fin qui disperso» (p. 14, corsivi miei). Disperso: quando e da chi? Ritrovato: quando e da chi?

Anton Bruckner (1824-1896)

Sono dichiarazioni impegnative, quelle di Ferrari, se poi non le si spiega. Andiamo avanti ascoltando bene adesso Fontana: «Mi reputo fortunato… di aver avuto il privilegio di godere della stima e dell’indissolubile amicizia di un formidabile uomo di cultura quale Piero Buscaroli, di aver avuto compagni in questa indimenticabile avventura [il ciclo bruckneriano bolognese] il segretario generale Sergio Fiorelli e Luigi Ferrari, che, non a caso, ha curato con me questa ricostruzione» (p. 330, corsivo mio). Ricostruzione, dice proprio così.

Ciò, almeno in parte, è coerente con la notizia di Ferrari, che parla dell’«esigenza attuale di un lavoro “di connessione e sutura” (prendo a prestito la locuzione da Buscaroli stesso) indispensabile per ricomporre nell’unità consequenziale di un unico volume i testi pubblicati nell’ordine sparso imposto dai tredici eventi menzionati» (pp. 11-12).

Da tutto ciò possiamo trarre la conclusione che, quale che fosse il materiale su Bruckner, esso è stato in qualche maniera rimaneggiato.

Ulteriore conclusione: le parole di Ferrari e Fontana contrastano con una pacifica adunata dei programmi di sala già bell’e pronti, e che il primo ci fa capire essere questo Bruckner, gigante della Sinfonia. Se si fosse trattato semplicemente di mettere insieme ciò che era già stato stampato, perché i “curatori” parlano di «connessione», «sutura» e soprattutto di «ricostruzione»? E quindi dobbiamo ancora domandarci: Se il favoloso «Bruckner» di Buscaroli è soltanto questo che abbiamo tra le mani, ossia i programmi di sala, perché l’autore ci lavorava ancora prima di morire?Insomma, un libro composto di saggi già controllati e stampati, ha sì necessità di essere acconciato per bene, ma non di anni e anni di lavoro come pare invece emergere e dalle parole di Beatrice.

A vieppiù complicare l’imbrogliaccio, torna Ferrari, il quale esattamente alla riga successiva a quanto abbiamo appena letto circa «connessione e sutura», tiene a precisare: «Nulla, questo è bene sottolinearlo, è stato aggiunto, rielaborato o editato – se non in dettagli davvero minimi – rispetto alla stesura originaria degli scritti. Si è invece mirato a preservare la freschezza e l’immediata, impetuosa spontaneità… di una scrittura dal piglio inconfondibile» (p. 12). Prego? Ha appena alluso a interventi piuttosto forti e il suo collega Fontana parla di «ricostruzione» e adesso impariamo che gli interventi sono «davvero minimi» e che è pure «bene sottolinearlo»?

Sulla scorta di questa pur difficoltosa ricostruzione, qualche certezza, o almeno forte dubbio, la possiamo portare a casa.

Se è vero, come lo è, che Buscaroli, giusta Beatrice, stava ancora lavorando a degli scritti su Bruckner nella seconda decade del Duemila; e se è vero, come lo è ancora di più, che il «Bruckner», giusta Buscaroli, era un libro vero e proprio, allora Bruckner, gigante della Sinfonia, con tutta probabilità, non è il libro che Buscaroli aveva in mente.

Buscaroli non ha mai parlato né a me, né – ciò che più conta – nel Beethoven, nelle conferenze, né altrove, d’una raccolta di scritti già pubblicati e solo da rinfrescare. E a riprova del fatto che Buscaroli avrebbe inteso comporre un altro «Bruckner», che non fosse la raccolta dei programmi di sala, abbiamo lo stile e certi contenuti cui accennavamo sopra (vedi Filarmonici di Vienna). Mai e poi mai Buscaroli, soprattutto quello degli ultimi due decenni della sua vita, avrebbe adoperati i toni morbidi e concilianti di questo libro, cui verosimilmente Buscaroli si sentì costretto essendo ospite.

Che cosa fosse o sarebbe dovuto diventare questo «Bruckner», io non so con precisione. A quanto ricordo e posso intuire dopo un quarto di secolo in che frequento l’opera di Piero Buscaroli, oso supporre qualcosa di analogo alla Nuova immagine di J. S. Bach (Rusconi 1982), che in origine sarebbe dovuta essere la prefazione a I Bach. Storia di una dinastia musicale di Carl Geiringer, uscito nella collana musicale di Rusconi, curata da Buscaroli, l’anno avanti, ma che poi divenne, per comune decisione di Geiringer e Buscaroli un libro a sé stante viste le dimensioni inusuali per una prefazione. La mia supposizione poggia anche sulle discussioni con l’autore nel 2004, in cui quegli mi diede un’idea tutto sommato chiara: proporre un’immagine globale del maestro di Ansfelden, che in Italia mancava, ma che, va aggiunto, non fosse, né potesse essere per evidenti motivi paredra del Bach o del Beethoven.

Sarebbe in effetto stato salutare un più vasto e denso intervento di Buscaroli su Anton Bruckner, che non questi programmi di sala, utilissimi ma, va ripetuto anche al netto dei nostri rilievi, insufficienti per colmare il gigantesco vuoto bibliografico. Se infatti raffrontiamo, poni degli ultimi trenta/trentacinque anni, i libri usciti sui grandi e celebri compositori dell’Ottocento, con quelli affiorati su Bruckner, si contempla un discreto deserto.

Se le mie ipotesi sono sbagliate, farò la dovuta ammenda. A patto però che qualcuno spieghi con sincerità e chiarezza come stanno davvero le cose, ciò che in tutti gli apparati di questo Bruckner, gigante della Sinfonia non troviamo e quando c’è, come abbiamo visto, è un grande e sospetto pasticcio.

Avrei ancora molt’altro da dire circa la “curatela”; ma tempo e spazio sono quasi esauriti. Me ne prendo tuttavia ancora un poco per le doverose conclusioni.

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10

Ho tentato invero di contattare Luigi Ferrari per ottenere ufficialmente qualche spiegazione, ma senza esito. Quanto a Fontana, provai a chiedergli con la massima cortesia un’intervista per il mio libro su Buscaroli (ignorato ormai da una decina di editori), ma anche qui ricevendo solo un grande silenzio; sicché questa volta mi sono risparmiato il fastidio. Così come ho evitato di pigliar contatto con l’editore, che peraltro gode d’un rapporto privilegiato con la famiglia Buscaroli per la pubblicazione di novità o simili dello scrittore, e ciò dacché quando su questa rivista scrissi lungamente e con favore sul Paesaggio con rovine, appena uscito per Bietti, che meritoriamente resuscitava un bellissimo libro sepolto e dimenticato da oltre trent’anni, il curatore della collana l’Archeometro, che pur ben mi conosceva e a parole mi stimava, mi chiuse le porte in faccia e tolse persino il saluto. Sospettai subito, che il motivo fosse da rintracciarsi nella mia al prefatore, che qui ribadisco da cima a fondo, e alle correzioni a un capitolo in che Buscaroli prende grosse cantonate in tema di Romania, che il sottoscritto studia e conosce, lingua compresa, da quindici anni. Tutto ciò, attenzione, in un lungo intervento per il resto favorevole completamente favorevole a Buscaroli e alla scelta dell’editore di ristampare il volume. Il sospetto, fui informato da terzi, era fondato.

Se gli intellettuali, parola che qui adopero non certo in senso elogiativo, posto che l’abbia, e gli impiegati italiani non fossero così permalosi e allergici a ogni critica, pur fondata ed educata, e fossero persone alla loro volta ammodo che rispondono alle gentili e professionali richieste, non sarei qui ad annoiare tutti.

Invero, però, il problema non è a valle, ossia in rapporti degenerati; ma soltanto a monte, ossia nella trascuratezza e incompetenza di chi è incapace di svolgere il proprio mestiere o così pigro e negligente verso i lettori, da prenderli tutti per fessi. Ogni tanto, però, si casca male.

FINIS

Luca Bistolfi

*In copertina: Caravaggio, I musici, 1597

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