01 Maggio 2021

“Nell’infinito svanisce il mondo”. Sulla poesia di Hermann Broch

Questo è un mondo poetico visionario, interrogante, aspro e ondoso, capace di tante diverse e audaci soluzioni linguistiche e metriche, complesso e pieno di accensioni e fascinazioni. C’è, in questi versi, laterali, complementari rispetto all’opera in prosa, la voce di uno dei massimi autori tedeschi del Novecento, Hermann Broch. Canto e pensiero, lirismo e folgorazione metafisica, crisi profondissima dell’ego e volontà di ritrovare il divino, coscienza della crisi sociale e morale della Germania del tempo e senso della caducità della esistenza terrena, incanto del paesaggio e solitudine di fronte alla morte: tutti questi temi si fondono e innervano versi che raggiungono a tratti altezze da capogiro.

Nei “Quattro sonetti sul problema metafisico della conoscenza della realtà”, che richiamano la poesia di John Donne e di T.S. Eliot, domina una perfetta geometria compositiva e intellettuale che termina però in una professione di fede che rimpiange il turgore della vita, anche di quella dei sensi, che l’intelletto tende a tarpare: “Le nostre labbra devono tornare a baciare / ciò che i concetti ci assassinano sempre e di nuovo / esperienza, essere-io, mondo sono da sempre diventati astratti / presagendo qualcosa di bello, noi possiamo solo sapere”.

In certe poesie, si affacciano paesaggi composti in una calma quasi goethiana, per esempio in Sulla parete rocciosa: “Sulla parte rocciosa si piega / un pino / e da margine a margine / del giardino roccioso / vede il cielo fiorito”. O in Lago Maggiore, con questo bellissimo attacco: “Potente e clemente si rivela qui / il divino / in nessun luogo il suo sorriso è così grande / in nessun luogo così tenero”. Ha venature cosmiche il paesaggio di Prato notturno in settembre: “Superata dagli astri / vaga la nuvola e scivolano / lentamente i campi / nell’umidità della notte”. In Temporale notturno si legge: “riposa nella valle del mio essere / il pensiero / ripiegato nel ventre del silenzio / irredento”. Il pensiero, l’essere e il non essere, l’io e il non io, il tempo e il non tempo, il finito e l’infinito sono temi ricorrenti in tutte le poesie, qualunque soluzione adottino, dalla più ardua alla più immediata. In Centro della vita, il canto diventa flusso continuo, con la grandiosità espressiva e compositiva che è peculiare all’opera maggiore di Broch, La morte di Virgilio, romanzo audacemente non romanzo, monologante, inneggiante. “Sempre e di nuovo ci afferra il flusso dell’inizio e della fine”, e in questo flusso continuo diventa difficile capire “dove si separano foce e fonte”, forse non esistono separazioni, il principio è la fine, e l’essere è il non essere, e il tempo è il non tempo.

Nella poesia intitolata Mentre ci abbracciavamo ricorre l’immagine dei destrieri dell’apocalisse, che con i loro zoccoli sfondano crani come noci, e irrompe con essi la storia con tutta la sua brutalità e i suoi orrori. Broch è stato solo sfiorato da quei cavalli malvagi, è fuggito in tempo dalla Germania nazista non senza aver provato la carcerazione. Scrive mentre è in salvo, è illeso. Ma lui sa; solo chi è stato davanti alla porta dietro la quale uomini vengono torturati, martoriati, sa cosa vuol dire insensatezza, quanta sofferenza ci sia in essa. Nella seconda parte del libro, tre poesie sono dedicate a tre immensi poeti. Uno è Virgilio, non poteva mancare: si leggono in chiusura anche le Dediche apposte a La morte di Virgilio, l’ultima è per Albert Einstein, in segno di ammirazione, come tentativo di ringraziamento per “colui che regge il nostro cosmo”. L’altro è Dante, che in qualche modo Virgilio richiama, e che compare come ombra piena di coraggio, di solitudine, di forza e di tormento. Il terzo è Walt Whitman, autore di Foglie d’erba, uno degli ultimi libri sacri ed epici dell’umanità. Il patriarca della poesia americana suscita in Broch, ormai stabilmente negli Stati Uniti e professore di letteratura tedesca a Yale, queste riflessioni: “Dove germogliano i fili d’erba, al centro terreno dell’essere / là comincia la poesia: / arriva sino al confine estremo della vita / e, guarda, non è all’esterno, / è nell’anima”.

Nel disastro etico e politico del secolo scorso, portatore di buio e insensatezza, Broch sa che “misurato si spalanca l’inconscio / e nell’infinito svanisce il mondo”. Ma sa anche che in questo deserto angoscioso l’uomo deve continuare a cercare. La sua ansia di conoscenza, la sua aspirazione al divino lo conferma. Ma la ricerca è difficile, senza sbocchi.

Una delle più belle poesie del libro, “Dove stai cercando…” dice: “Dove stai cercando? / Dov’è la tua sosta? / Non senti freddo?” La risposta è lapidaria: “Cerco direzioni, cerco senso / in un essere che non sono, / che tu non sei”. Una sintesi perfetta della condizione umana nel secolo scorso: che vale certamente anche per il nostro tempo disorientato e vuoto. Una verità universale, dunque, come è sempre quella della grande poesia.

Giuseppe Conte

*Per gentile concessione si ricalca l’introduzione di Giuseppe Conte a: Hermann Broch, “La verità solo nella forma. Poesie 1913-1949”, De Piante, 2021, a cura di Vito Punzi.

**

Nel volto ardente della terra…

Nel volto ardente della terra

mai divenne mio il tuo terribile respiro,

Dio, che non conosco –

mi attacchi alle spalle di sorpresa,

strangolatore che non conosco,

e la grazia del tuo sorriso

è un colpo

alla mia nuca.

*

Prato notturno in settembre

Superata dagli astri 

vaga la nuvola e scivolano

lentamente i campi

nell’umidità della notte.

Poi lo sguardo cerca l’inimitabile,

le ombre argentee degli alberi e

il cantare che piove, cerca

il rilassato fluttuare dei prati radicato

nel fiato e nel silenzio. Lontano scorrono

fiumi ricoperti di stelle e al di là della lontananza

canta di notte il gallo.

Nulla sfugge allo sguardo, tutto resiste

avvolto dall’occhio, ridimensionato dalla domanda

fluttua un cielo di steli argentei

verso le mani che cercano tastoni, e ti getti nell’erba,

in ascolto del ventre della terra

essa si offre amorevole alla domanda amorosa

e accade il suo mistero.

Per quanto poi penetri nei campi irradiati

sempre più dal margine e sconfinato già il prato,

penetri il visibilmente celato e il presunto mistero

del fulgore inglese, il tuo procedere e cadere

il tuo amare e il tuo ascoltare diventa nuovo occultamento

e oltrepassa il mistero della luce, e oltrepassa

la tua domanda, e per quanto anche vaghi, oh anima,

tu resti al margine del prato. –

Puoi tu, mortale, tu che cammini al margine

di ogni oscurità, puoi tu,

contemplatore che mai riconosce, tornare ancora a casa

alle dimensioni del passato, nelle quali

il sorriso abita insieme al canto?

*

Lago Maggiore      

Potente e clemente si rivela qui

il divino,

in nessun luogo il suo sorriso è così grande,

in nessun luogo così tenero –

alito d’acciaio di questo paesaggio,

quando argentate le onde sbattono

sulle lontane cime nevose,

fluttuante lo specchio del lago

l’eco azzurrata.

Nelle pieghe dell’infinitezza

dimora l’uomo

e dalle misere suppellettili terrene

vaga il suo sguardo nell’ebbro

inebriato dal soave canto speculare

e perduta

la melodia delle colline

poiché i pendii franano, roccia e terreno ricoperto di prati

trascinano i boschi

verso le rive popolate dagli uomini,

ritrovate nell’illuminata

isola.

Proveniente da tempi remoti, toccante i tempi remoti

io come ogni uomo

nelle pieghe dell’infinitezza

indegno l’uno, degno l’altro,

il mio occhio, il mio sguardo

e la musica delle colline

oh suono orribilmente leggiadro,

mio cuore.

Chi può chiamare Dio, quando lui ride?

Chi può ascoltarlo, quando lui canta?

E attraverso i rami

Del sereno albero frondoso

riluce il lago

eco.

Isola dell’anima

mio cuore.

Hermann Broch

(la traduzione è di Vito Punzi)

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