“Con mani troppo grandi per regalare un fiore”. La Trieste di Umberto Saba
Poesia
Riccardo Peratoner e Marilena Garis
Questo è un mondo poetico visionario, interrogante, aspro e ondoso, capace di tante diverse e audaci soluzioni linguistiche e metriche, complesso e pieno di accensioni e fascinazioni. C’è, in questi versi, laterali, complementari rispetto all’opera in prosa, la voce di uno dei massimi autori tedeschi del Novecento, Hermann Broch. Canto e pensiero, lirismo e folgorazione metafisica, crisi profondissima dell’ego e volontà di ritrovare il divino, coscienza della crisi sociale e morale della Germania del tempo e senso della caducità della esistenza terrena, incanto del paesaggio e solitudine di fronte alla morte: tutti questi temi si fondono e innervano versi che raggiungono a tratti altezze da capogiro.
Nei “Quattro sonetti sul problema metafisico della conoscenza della realtà”, che richiamano la poesia di John Donne e di T.S. Eliot, domina una perfetta geometria compositiva e intellettuale che termina però in una professione di fede che rimpiange il turgore della vita, anche di quella dei sensi, che l’intelletto tende a tarpare: “Le nostre labbra devono tornare a baciare / ciò che i concetti ci assassinano sempre e di nuovo / esperienza, essere-io, mondo sono da sempre diventati astratti / presagendo qualcosa di bello, noi possiamo solo sapere”.
In certe poesie, si affacciano paesaggi composti in una calma quasi goethiana, per esempio in Sulla parete rocciosa: “Sulla parte rocciosa si piega / un pino / e da margine a margine / del giardino roccioso / vede il cielo fiorito”. O in Lago Maggiore, con questo bellissimo attacco: “Potente e clemente si rivela qui / il divino / in nessun luogo il suo sorriso è così grande / in nessun luogo così tenero”. Ha venature cosmiche il paesaggio di Prato notturno in settembre: “Superata dagli astri / vaga la nuvola e scivolano / lentamente i campi / nell’umidità della notte”. In Temporale notturno si legge: “riposa nella valle del mio essere / il pensiero / ripiegato nel ventre del silenzio / irredento”. Il pensiero, l’essere e il non essere, l’io e il non io, il tempo e il non tempo, il finito e l’infinito sono temi ricorrenti in tutte le poesie, qualunque soluzione adottino, dalla più ardua alla più immediata. In Centro della vita, il canto diventa flusso continuo, con la grandiosità espressiva e compositiva che è peculiare all’opera maggiore di Broch, La morte di Virgilio, romanzo audacemente non romanzo, monologante, inneggiante. “Sempre e di nuovo ci afferra il flusso dell’inizio e della fine”, e in questo flusso continuo diventa difficile capire “dove si separano foce e fonte”, forse non esistono separazioni, il principio è la fine, e l’essere è il non essere, e il tempo è il non tempo.
Nella poesia intitolata Mentre ci abbracciavamo ricorre l’immagine dei destrieri dell’apocalisse, che con i loro zoccoli sfondano crani come noci, e irrompe con essi la storia con tutta la sua brutalità e i suoi orrori. Broch è stato solo sfiorato da quei cavalli malvagi, è fuggito in tempo dalla Germania nazista non senza aver provato la carcerazione. Scrive mentre è in salvo, è illeso. Ma lui sa; solo chi è stato davanti alla porta dietro la quale uomini vengono torturati, martoriati, sa cosa vuol dire insensatezza, quanta sofferenza ci sia in essa. Nella seconda parte del libro, tre poesie sono dedicate a tre immensi poeti. Uno è Virgilio, non poteva mancare: si leggono in chiusura anche le Dediche apposte a La morte di Virgilio, l’ultima è per Albert Einstein, in segno di ammirazione, come tentativo di ringraziamento per “colui che regge il nostro cosmo”. L’altro è Dante, che in qualche modo Virgilio richiama, e che compare come ombra piena di coraggio, di solitudine, di forza e di tormento. Il terzo è Walt Whitman, autore di Foglie d’erba, uno degli ultimi libri sacri ed epici dell’umanità. Il patriarca della poesia americana suscita in Broch, ormai stabilmente negli Stati Uniti e professore di letteratura tedesca a Yale, queste riflessioni: “Dove germogliano i fili d’erba, al centro terreno dell’essere / là comincia la poesia: / arriva sino al confine estremo della vita / e, guarda, non è all’esterno, / è nell’anima”.
Nel disastro etico e politico del secolo scorso, portatore di buio e insensatezza, Broch sa che “misurato si spalanca l’inconscio / e nell’infinito svanisce il mondo”. Ma sa anche che in questo deserto angoscioso l’uomo deve continuare a cercare. La sua ansia di conoscenza, la sua aspirazione al divino lo conferma. Ma la ricerca è difficile, senza sbocchi.
Una delle più belle poesie del libro, “Dove stai cercando…” dice: “Dove stai cercando? / Dov’è la tua sosta? / Non senti freddo?” La risposta è lapidaria: “Cerco direzioni, cerco senso / in un essere che non sono, / che tu non sei”. Una sintesi perfetta della condizione umana nel secolo scorso: che vale certamente anche per il nostro tempo disorientato e vuoto. Una verità universale, dunque, come è sempre quella della grande poesia.
Giuseppe Conte
**
Nel volto ardente della terra…
Nel volto ardente della terra
mai divenne mio il tuo terribile respiro,
Dio, che non conosco –
mi attacchi alle spalle di sorpresa,
strangolatore che non conosco,
e la grazia del tuo sorriso
è un colpo
alla mia nuca.
*
Prato notturno in settembre
Superata dagli astri
vaga la nuvola e scivolano
lentamente i campi
nell’umidità della notte.
Poi lo sguardo cerca l’inimitabile,
le ombre argentee degli alberi e
il cantare che piove, cerca
il rilassato fluttuare dei prati radicato
nel fiato e nel silenzio. Lontano scorrono
fiumi ricoperti di stelle e al di là della lontananza
canta di notte il gallo.
Nulla sfugge allo sguardo, tutto resiste
avvolto dall’occhio, ridimensionato dalla domanda
fluttua un cielo di steli argentei
verso le mani che cercano tastoni, e ti getti nell’erba,
in ascolto del ventre della terra
essa si offre amorevole alla domanda amorosa
e accade il suo mistero.
Per quanto poi penetri nei campi irradiati
sempre più dal margine e sconfinato già il prato,
penetri il visibilmente celato e il presunto mistero
del fulgore inglese, il tuo procedere e cadere
il tuo amare e il tuo ascoltare diventa nuovo occultamento
e oltrepassa il mistero della luce, e oltrepassa
la tua domanda, e per quanto anche vaghi, oh anima,
tu resti al margine del prato. –
Puoi tu, mortale, tu che cammini al margine
di ogni oscurità, puoi tu,
contemplatore che mai riconosce, tornare ancora a casa
alle dimensioni del passato, nelle quali
il sorriso abita insieme al canto?
*
Lago Maggiore
Potente e clemente si rivela qui
il divino,
in nessun luogo il suo sorriso è così grande,
in nessun luogo così tenero –
alito d’acciaio di questo paesaggio,
quando argentate le onde sbattono
sulle lontane cime nevose,
fluttuante lo specchio del lago
l’eco azzurrata.
Nelle pieghe dell’infinitezza
dimora l’uomo
e dalle misere suppellettili terrene
vaga il suo sguardo nell’ebbro
inebriato dal soave canto speculare
e perduta
la melodia delle colline
poiché i pendii franano, roccia e terreno ricoperto di prati
trascinano i boschi
verso le rive popolate dagli uomini,
ritrovate nell’illuminata
isola.
Proveniente da tempi remoti, toccante i tempi remoti
io come ogni uomo
nelle pieghe dell’infinitezza
indegno l’uno, degno l’altro,
il mio occhio, il mio sguardo
e la musica delle colline
oh suono orribilmente leggiadro,
mio cuore.
Chi può chiamare Dio, quando lui ride?
Chi può ascoltarlo, quando lui canta?
E attraverso i rami
Del sereno albero frondoso
riluce il lago
eco.
Isola dell’anima
mio cuore.
Hermann Broch
(la traduzione è di Vito Punzi)