È difficile trovare, anche per chi abita in luoghi isolati, un tratto di bosco. Le arature hanno ridotto la foresta a un pulcino; le macchine agricole sembrano mammut: le loro zanne scavano la terra che prima o poi sanguinerà. Il vero oro: cespi di insalata, il grano che biondeggia al vento.
Le fauste colline sono un prodotto umano: urbanistica delle valli. Le città rispecchiano la mente di chi le ha costruite – l’impianto viario riproduce in palazzine, palazzi, pietre e asfalto un’idea: è il vocabolario del potente –: allo stesso modo, i declivi, le valli.
Il verde ha ripreso a coprire i colli, ne è il piumaggio. Eppure, tutto è domestico, è pelo ben tosato. Le colline sono cagnolini da compagnia; sono agnelli da cui trarre il cibo. I frutteti: latte della terra.
Covato per un paio di mesi, ora il sole esce dal nido, ha la pelle pura. Alle sette di mattina questo Polifemo cosmico buca il cielo, ti acceca.
Al bosco, parente incivile della collina, è lasciato uno spazio infimo: è il primogenito trattato alla stregua di un diseredato.
Parlo di zone di confine tra la Romagna e le Marche: i boschi appaiono a ciuffi, a rade macchie, inguinali, in mezzo al contado, dalle geometrie sopraffine. Tra Malevič e Piero della Francesca.
Di recente, ho scoperto un abbaglio di bosco: il sentiero è di facile accesso, benché chiuso ai più. Si cammina per un paio d’ore; di fatto: ci si immerge in una valle per riemergere sull’altro fronte. Dopo un tot di campi messi a ulivo, s’abbarbica un abisso verde. Un chiostro di alberi segnala l’inizio di una zona franca, lasciata al bosco. Gli alberi, finalmente, spalancano la bocca, possono ingigantirsi – verde Idra.
Nulla di pericoloso: il percorso è segnato, ogni tanto, sui tronchi. Eppure: per un bel pezzo non c’è trama di sentieri ed è bello perdersi. Fino a ieri, il sottobosco era fondato su bassi cespugli, a tratti spinati, edere vigorose, simili a boa, grossi alberi crollati chissà quando, ora rifugio di esseri minuscoli. Per entrare nel bosco bisogna digradare da un piccolo borgo, in abbandono. Le case – ancorate, si direbbe, a ricordi ancestrali – sembrano reduci da un diluvio universale.
Sul terreno: tappeti di foglie di quercia. I passi fanno rumore di mare. In fondo alla valle scorre un rigagnolo, è giallo. Sul fango è facile riconoscere le tracce del cinghiale e del daino: nessuna scarpa d’uomo. Saint-John Perse, poeta dall’esistenza altrimenti urbana – è stato per vent’anni alto diplomatico del governo francese –, era affascinato dalla geologia e dagli uccelli migratori: saprebbe dirmi il principio petroso di queste zone.
“Terre nuove, laggiù, in un profumo altissimo d’umo e di fogliami,
Terre nuove, laggiù, sotto l’allungarsi delle più vaste ombre del mondo,
Tutta la terra agli alberi, laggiù, sullo sfondo di vigne nere, come una Bibbia d’ombra e di freschezza nello svolgersi dei più bei testi del mondo”.
Così scrive il poeta in Venti, poema terreno e ultramondano pubblicato in origine nel 1946 – qui nella storica traduzione di Romeo Lucchese. Saint-John Perse ha viaggiato nei luoghi più impervi della terra, dalla Cina al Canada, dalle Antille alla Scandinavia: io mi accontento di questo cesto di bosco, indecifrabile.
Ai margini del bosco, alti canneti, i capi indiani del territorio. Con una canna, mi fabbrico un bastone, rudimentale. Da bambino costruivo le case sugli alberi, ora vorrei farmi una capanna, qui – ma vivere isolati pone sotto la cappa del sospetto.
Il silenzio del fitto bosco è inquietante: sulle cime, invece, gli uccelli gridano, becchettano le rare tracce visibili di cielo.
Sulla scia dei romantici, il poeta William Butler Yeats teorizzava la necessità dei luoghi isolati per scrivere versi. Soltanto così, la poesia sorgerà dalla terra e non dalla fredda speculazione: alfabeto del dio-bestia, non più dell’uomo. Lettere pari a foglie. In un testo in prosa – Scoperte; ora in: Magia, Adelphi, 2019 – Yeats racconta di un viaggio da San Sepolcro a Urbino, compiuto in parte a piedi. “I miei amici, in carrozza, erano rimasti indietro, su una strada che saliva ancora in grandi tornanti e io ero solo in mezzo a un paesaggio impossibile, fantastico, visionario”. A un certo punto, passeggiando per l’Appennino, il poeta scorge “una torre medioevale, senza edifici né segni di vita” e al suo fianco “un vecchio, dritto e un po’ emaciato, sulla soglia della torre, mentre intorno a lui scoppiava una luce ventosa. Era il poeta che alla fine, tanto aveva fatto per amor della parola, condivideva la dignità del santo”. L’immagine è analoga a un’altra: nella foresta di Galway, dove lo aveva accompagnato, Lady Gregory indica a Yeats “un vecchio in mezzo ai boschi”, e gli sussurra: “Quel vecchio potrebbe conoscere il segreto dei secoli”.
Nel bosco che ho scovato – onesto, perfino infantile: è un bosco-bosco, senza stupefazione vegetale, senza segreti, si direbbe – non ci sono vecchi né santi. Un airone, dal fondo del fiume, è partito in volo, irritato dalla mia presenza.
Anche Gesù quando prega esce dai villaggi, si inerpica in luoghi solitari. Lo circondano, ad aureola, le fiere.
Non conosco i nomi degli alberi, non conosco le erbe commestibili: il bosco, che dovrebbe essere mio pari, parla in codici alieni, geroglifici. La luce è lignea, potrei raccoglierla in un secchio, e so che qui sono la più inerme tra le creature. Voglio proprio questo: consegnarmi. Non voglio conoscere: voglio darmi.
Le bestie sono nascoste: all’improvviso, una volpe bruna buca un cumulo di cespugli a spirale, corre verso il piccolo fiume – un fiume-selce – e scompare. Mi sembra un avviso: chiamo la volpe Simone.
Spesso i poeti moderni traggono dalle forme della natura una teoria di simboli. Eugenio Montale, Ted Hughes, Derek Walcott sono come demiurghi che tracciano su carta un bestiario. Ciò che ci affascina è lo stemma, una araldica lirica: la poesia, tuttavia, non sanguina. Boris Pasternak – che secondo Marina Cvetaeva non era un uomo ma un albero –, invece, ode ciò che gli sussurra il cosmo. Le sue poesie, lungi dall’essere selvagge, penetrano nel gorgo della creatura. Questa è l’ultima stanza di una poesia del 1941, I tordi, nella traduzione di Angelo Maria Ripellino:
“Tale è il covo ombreggiato dei tordi.
Vivono in una selva disadorna,
come devono vivere gli artisti.
Anch’io prendo esempio da loro”.
Ogni tanto, nei campi che circondano questa bava boscosa, ho visto dei caprioli, all’aperto, che correvano. Chissà dove si nascondono, ora.
La poesia è legata al bosco perché verseggiare è arboreo, è una casa nel bosco: Dante s’immerge nella selva, scala il monte del purgatorio; Petrarca ascende il Monte Ventoso, canta le “chiare, fresche et dolci acque”. Nell’epoca in cui la foresta pigiava il muso contro la città, i poeti pitturavano un paesaggio fiabesco, come quello che appare nel fondo dei ritratti del Quattrocento. Il bosco è la chiosa dell’uomo.
Eden: non un giardino, principesca dimora umana, ma foresta, campo d’azione degli angeli-sciacalli, del dio a quattro zampe.
I poeti, come i pittori, spesso contemplano il bosco – senza immergersi in esso. Esplorano il bosco senza varcarlo da estraniati, ad apprendere la dottrina verbale del picchio, del daino o della volpe.
“In questa vita in cui nessuno vive come se stesso
Mi sono trovata a vagabondare in una grande foresta. Tutto era ombra.
Mi avventurai in profondità…”
Questo è l’incipit de La foresta, una delle più belle poesie di Margiad Evans. In un bosco bisogna immergersi.
Robinson Jeffers è il poeta statunitense che più di altri ha detto la bestia e il bosco – per questo, in Italia resta per lo più sconosciuto. In una poesia intitolata People and a Heron scrive:
“Al crepuscolo, tutto si svuota, resta, in veglia, il serale
serafico airone: vaste ali ripiegate
sopra il nero riflusso
e mi chiedo perché un uccello solitario
mi è più caro di frotte di gente.
Sono rari e mirabili: riconciliati
con il mondo ma non con la nostra specie
mi addolora vederli soltanto così:
riflessi sullo specchio del mondo”.
Si va nel bosco per deporre la stola del linguaggio – e tentare le ali. In silenzio, si è preda.
Di notte, spesso, sogno il mio bosco e le sue bestie, restie allo sguardo – la volpe mi viene in braccio, una voce mi imbambola e spero nella nebbia, un deserto. È un sogno con le foglie in bocca.
*In copertina: un quadro di Isaac Levitan (1860-1900); nel testo, incisioni di Cino Bozzetti (1876-1949)