09 Aprile 2024

“Voglio che mi si cancelli completamente”. Passaggio al deserto

Nelle note a Negli appartamenti della morte, raccolta di Nelly Sachs edita in origine nel 1947, ora pubblicata da Giuntina (edizione a cura di Matthias Weichelt, curatela italiana di Anna Ruchat), leggo che “Un tempo il rosmarino veniva messo tra le mani del morto o veniva portato al funerale dai familiari in lutto”. La nota riguarda una poesia, Coro dei consolatori, che attacca così:

“Giardinieri siamo, ormai privi di fiori
Nessuna pianta officinale si può piantare
Da ieri a domani.
La salvia è sfiorita nelle culle –
Il rosmarino ha perso il suo profumo di fronte ai nuovi morti”.

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Un’aiuola di rosmarino è posta al principio del bosco, ne è il portale. Ora capisco perché questo bosco è cupo, vi aleggia una umidità grigia, di pavide bestie. I fiori hanno colori innaturali, troppo sgargianti: limbo di Lotofagi. Se li mastico dimenticherò tutto, perfino di avere le mani, di marciare in eretta statura – eretteo di errori. Anche gli animali hanno sguardi smarriti.

Altrove, i boschi sono vigorosi, i prati hanno una traiettoria da rapace: sanno planare, conoscono la picchiata. Sono prati famelici. Non è difficile immaginare un dio d’erba, a primavera – il verde, è certo, fiammeggia, può squarciare il cielo.

Quel bosco, invece, imbambola – è l’ingresso agli inferi. Che il borgo che lo annuncia sia pressoché disabitato, è savia conseguenza. Poco più in là, i borghi bordeggiano la gloria: il sole se li mangia, sono prelibate attrazioni turistiche. Questo no: case in vendita, derubate dal tempo, vaghe lenzuola stese come una resa. Razzia di nostalgia è stata fatta, qui.

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Porto nello zaino i detti dei Padri del deserto. L’edizione Rusconi del 1975, indimenticabile, curata da Cristina Campo e da Piero Draghi (che si basa sulla versione francese dell’abbazia di Solesmes), poteva proporre i padri come un viatico per il proprio ‘rinnovamento’ spirituale – pur aspro, in dottrina di spine. Un lavacro. “I maestri cristiani del deserto” vissuti intorno al III secolo, scrive la Campo, “affondavano nel radicale silenzio che solo alcuni loro detti avrebbero solcato, bolidi infuocati in un cielo insondabile”. I padri non scrivono: qualcuno – paradosso millesimato – si premura di testimoniare “la vita di ‘un uomo che non esiste’”. In questo niente – annullamento, suggerisce la Campo, che sfocerà nella notte di Giovanni della Croce – si avvera il tutto, Cristo. Deserto: energumeno Getsemani. Nell’abbagliante introduzione della Campo, la lotta contro le tentazioni degli asceti diventa “una specie di aikido spirituale”, gli apoftegmi hanno il genio della fiaba, i folli di Dio sono detti “terrificanti e dolcissimi zen cristiani”. Si cita Padre Sergij, il micidiale racconto di Tolstoj che narra l’estrema spoliazione di un uomo; spoglio, soprattutto, del miraggio di essere un ‘padre spirituale’, un saggio di questo mondo. Nessun nome può cingere questi uomini ammutoliti dal Padre, mutevoli per antinomia rispetto al secolo.

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Eppure, i padri del deserto sono inadatti alla speculazione culturale, al ladrocinio cultuale: se i loro detti si pigliano per aforismi rischiamo di scambiare la nebbia per oro, di annodare serpi. Nessuna ‘attualità’ avvince questi detti, infine inattuabili. Essi fungono da fuoco per anime-candele – mai anime candide –, pronte, per avventura e avventatezza, a sbrindellarsi. Per questo – così credo, così vedo – i detti scelti da Andrea Ponso in Violentissima dolcezza (Magog, 2024) violano le violette del sacro pensare: imprimono un impossibile, sigillano il deserto nell’irripetibile – nel vero senso: non si può ripetere né replicare quel fatto, per cui occorre attrezzo alfabetico altro; vocalizzare il sole, vivere tra consonantiche rocche, dare al cobra statura di salterio, all’iride-locusta magia d’incanto, viso da Giona. Non danno risposta, non divinano la sorte, i padri: semmai, ci crocefiggono alla nostra ipocrisia – ancora leggi un libro, non t’immergi in Cristo, il cui mignolo è pari al Gobi? –, flagellano le virtù clericali, il bene inteso come merce di scambio celeste. Vivere nelle grotte, negli anfratti: il deserto ha le ferite nel costato. Anche la stimmate ha una magione di stalle, un Chirone all’ingresso, la possibilità di essere destriero o biada.

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Nelle mie tratte-trattative con i boschi – che poi è per lo più uno scollinare, tra campi in forma di scure – vedo diverse case diroccate. Ne ho contate otto; vorrei costruire una specie di registro. Gli alberi e l’erba hanno preso rapida dimora delle stanze: si direbbe con umana protervia. Gli alberi sono i veri pastori: la loro pazienza ha intercalari d’ira; portano tutto all’estrema stagionatura, ad esplodere in urlo o in volo di rondini, che è poi uguale. In alcune di queste case potrei porre una cella, una culla al mio lattare Iddio e disoccuparmi di me, finalmente. C’è chi ha nel cuore una sedia, chi una trappola, chi un verbo-verme, chi una lince. Piuttosto, intravedo i corpi di chi era qui, nel santo della valle: la donna che armava la cucina, il padre tra gli armenti, la cucciolata dei figli, capaci, con poco, a scoprire una fiocina nel bastone, un oceano nel prato di fronte e capriole di delfini nei grilli. Fato di cuoio ha sofferto questa gente; le case, ville ripudiate, osservano il vagabondo come scheletri di mammut. Immagino chi ha costruito quei muri, gli scuri, le porte a gioia di gallo e di canide; il pentateuco delle travi è disfatto, l’astronauta tetto è un cencio, ora.

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Il pellegrinaggio sboccia in una chiesa intitolata a San Paolo. Davanti al Crocefisso, di anonima maestria, un Libro d’ore. Leggo un versetto, è Isaia: “Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole”. Il cerimoniale solare non intacca gli antri di questo antico tempio, dal carapace roccioso. Se mi intenebro è per contare i denti del buio. Amo i libri d’ore, delle più umili fogge, perché sono libri infiniti: la parola si imprime sul corpo e lo modella, con mille mani; ci semina nell’oggi, ci trasforma in grano. Il libro d’ore punteggia d’oro il giorno. È un libro definitivo, come se tutto fosse in punto di morte, cioè pronto a schiudersi. È un libro-fiore, con i petali: ripetere, in questo caso, ha il clima dell’irripetibile. Vivere nella perpetua ora nona.

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Uno dei detti più potenti – nella ‘versione Ponso’ – dei padri:

Disse abba Alonio: “Se non avessi distrutto tutto, non avrei potuto costruire me stesso. Se cioè non avessi abbandonato tutto ciò che alla mia volontà sembrava bene, non avrei potuto acquisire le virtù”.

Lo affianco a questo:

“Sappi che, senza dimenticarti di ogni rapporto e di ogni occupazione, non puoi condurre la vita cenobitica. Infatti non puoi disporre nemmeno di un solo bicchiere”.

Penso, ancora, a Nelly Sachs che in una lettera a Walter A. Berendsohn – critico che si era occupato, tra gli altri, di Thomas Mann, Knut Hamsun e Strindberg – scrive:

“Avrai capito ormai la richiesta che ti ho fatto più volte, avrai capito che voglio sparire dietro la mia opera, che voglio rimanere anonima… voglio che mi si cancelli completamente – solo una voce, un sospiro per coloro che vogliono ascoltare”.

Non importa capire quale continuità leghi quegli eremiti a questa autrice: la parola deserto ha senso se in sé dona vigne, se l’arido e il suo ardore, già ora, è salubre fiume di latte. Se poi ci si incenerisce, è perché Dio lasci l’impronta su quel velo d’argento e un altro – non noi – si accorga che è passato, che impone un passo, l’alare apertura di un piede.

Gruppo MAGOG