
“Perdona il mio delitto”. Le lettere di Boris Pasternak a Evgenija
Letterature
Marilena Garis
Una targa, conficcata in un condominio apparentemente anonimo, a Kiev, ricorda che proprio lì, nel 1931, ha abitato Boris Pasternak. La targa ha una sua nobiltà: il profilo di Pasternak, spigoloso come una runa, rapace, ricorda i ritratti futuristi, indelebili di Jurij Annenkov. All’epoca, Pasternak aveva poco più di quarant’anni; il legame con l’Ucraina era sancito dal padre, il pittore Leonid Pasternak, nato a Odessa, in una famiglia di ebrei ortodossi. In realtà, il poeta ‘scopre’ l’Ucraina l’anno prima, nel 1930, “un anno cruciale nella di Boris Pasternak” (Vittorio Strada): trascorre l’estate a Irpin’, in campagna, in una casa affittata assieme al filosofo Valentin Asmus e alla famiglia di Genrich Nejgauz, il grande pianista ucraino, che sarà direttore del Conservatorio di Mosca e maestro, tra gli altri, di Svjatoslav Richter e di Radu Lupu.
Il periodo è difficile, strascichi di angoscia resteranno nel cuore di Pasternak, maculando il suo umore, per anni. Il regime setaccia scrittori e poeti per convalidare la propria ideologia, dando alla letteratura il nitore della propaganda; il 16 febbraio del 1930 viene giustiziato Vladimir Sillov, un giovane poeta, “ho saputo della sua fucilazione, un sopruso di fronte al quale impallidisce e scompare tutto ciò che è avvenuto finora”, scrive Pasternak. Il 14 aprile si uccide Vladimir Majakovskij, sparandosi. “Solo a lui la novità del tempo scorreva climaticamente nel sangue”, scrive Pasternak, sigillando il primo libro autobiografico, Il salvacondotto, dedicato alla memoria di Rainer Maria Rilke, con la morte di Majakovskij. Il tempo nuovo aveva fatto di Majakovskij l’agnello sacrificale, scoprendosi perciò incomparabilmente vecchio, nudo, calvo, famelico.
A Irpin’ Pasternak è con la moglie, Evgenija, ‘Ženja’: si erano sposati nel 1922, l’anno dopo era nato il figlio Evgenij. La cupezza del periodo inquina i rapporti familiari, corrotti da tempo. “A quell’epoca Borja era già in dissidio con Ženja”, scrive sul suo diario Ol’ga Fréjdenberg, filologa di genio, cugina di Pasternak (il loro legame traspare nella corrispondenza, edita da Garzanti come Le barriere dell’anima), nata a Odessa. “Erano entrambi artisti e, come tutti gli artisti, egoisti. Ženja sognava Parigi e pensava che il matrimonio con Borja l’avrebbe liberata da tutte le preoccupazioni prosaiche. Rimase delusa. Lui era abituato a una disciplina estremamente rigorosa, a un regime di vita ascetico, alla famiglia di Guerra e pace, e Ženja, invece, gli proponeva la Bohème”. Trafitto dalla morte di Majakovskij, in Ucraina Pasternak scopre l’amore. S’innamora di Zinaida, la moglie di Nejgauz; “Qualcosa si è rotto nel mio interno”, aveva scritto il poeta a Gor’kij, ora, in quella estate abbacinante, scorge il rischio del cambiamento, radicale, un nuovo simbolo. Alla cugina Ol’ga, da Irpin’, scrive delle “sciocche farfalle notturne che ruotano forsennatamente intorno alla lampada”, quasi a sancire la falena che si nasconde in ogni relazione.
Come sempre, Pasternak è avventato, improvviso, rovinoso, placido: desidera distruggere tutto, purché nessuno si faccia male. Nel dicembre del 1930 lascia la famiglia: “Non posso dire niente perché la persona che amo non è libera ed è la moglie di un amico cui mai potrò smettere di volere bene”, scrive. Zinaida ha avuto due figli da Genrich, ma ciò non le impedisce di lasciare il pianista per il poeta: l’amore culmina nel 1931, a Kiev, appunto, in aprile. Evgenija si trasferisce in Germania con il figlio, il dolore della separazione è testimoniato dall’epistolario tra marito e moglie, pubblicato da Feltrinelli come Il soffio della vita: “Amo Zina e non smetterò di amarla… La separazione da Zina è così facile che può assomigliare all’indifferenza. Senza di lei mi sento come senza l’arte… Davanti a Zina non sono, per l’appunto, un delinquente. Siamo delinquenti tutti e due”, scrive, il 15 aprile del 1931. Eppure, nella stessa lettera, “Ti penso molto, e in positivo. E per la prima volta senza asprezza, con la coscienza pulita, leggera, felicemente disposto ad ascoltarti…”. Ha la quiete metallica del sovrano illuminato – insopportabile. Anche Zinaida, d’altronde, la nuova musa, dovrà subire le spire ambigue del poeta: nel 1946 Pasternak conosce Ol’ga Ivinskaja, che lavora nella redazione di “Novyj Mir”, e se ne innamora. Da allora le due donna, Ol’ga e Zina, si spartiranno, consapevoli, l’amore di Pasternak.
Tuttavia, la separazione da Ženja, l’ombra dell’era stalinista, soffocano il poeta che nel 1932 tenta il suicidio: “Anche in questo sta la crudeltà dell’infelice Russia: quando dona a qualcuno il suo amore, l’eletto non trova più scampo dai suoi occhi”. Due anni dopo, entrambi divorziati, sposerà Zinaida. Smisuratamente atroce, ancora, è l’epoca: in quel 1934 muore Andrej Belyj e Stalin fa la celebre telefonata a Pasternak per soppesare la sorte di Osip Mandel’štam, “Dovrei parlarle… Della vita e della morte”, tentenna, il poeta, di fronte al tiranno. Pasternak pare un isolato nel contesto della lirica sovietica, uno fuori dal tempo, inutile. Il 29 agosto, al Congresso degli scrittori, pronuncia parole spiazzanti: “Non sacrificate la faccia per la posizione… Dato l’immenso calore con cui ci circondano il popolo e lo Stato, troppo grande è il pericolo di diventare dei dignitari socialisti”. Al padre, più tardi, rivela, “Nulla di ciò che ho scritto esiste. Quel mondo è cessato, e a questo nuovo nulla ho da mostrare”. Come sempre, l’esigenza, con grazia brutale, di annientarsi.
Credeva di essere braccato, che lo avrebbero arrestato; cominciò a soffrire di una grave forma di insonnia. Nel 1935 il governo sovietico costringe Pasternak a partecipare al “Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura”, a Parigi. Così ne scrive, in una delle sue interminabili lettere, alla nuova moglie: “Mi hanno fatto ritratti e fotografie per alcune riviste di qui: sarei terrorizzato, se qualcosa di tutto ciò ti capitasse sotto gli occhi; ricordi quel vecchio cavallo morente? Adesso io sono così. Neppure questa lettera riesco a finire. Di continuo mi prende la debolezza o arriva gente. Anche adesso, per esempio, nella mia stanza ci sono la figlia di Marina Cvetaeva e suo padre e loro stessi mi hanno proposto di continuare a scrivere la lettera che stavo scrivendo quando sono entrati (…). Tu sei l’unica cosa viva e cara che per me esiste in tutto il mondo. Tutti qui mi sono indifferenti… Tu sei la vita. Tu sei tutto ciò che di vero, di buono e di reale ho conosciuto al mondo. E il cuore mi si riempie di angoscia, e piango nei sogni durante la notte perché una forza stregonesca ti toglie a me”. Il nome della Cvetaeva, sbandierato in quel modo, ci trafigge: che fine hanno fatto le lettere clamorose, di qualche anno prima? Con “la figlia di Marina”, anni dopo, Pasternak coltiverà un epistolario, viziato dalle reticenze, pubblicato in Italia da Archinto come Le tue lettere hanno occhi.
Ogni cosa, ormai, sembra marcata dalla corruzione, violata, violacea: Pasternak anela l’innocenza, per poi scoprire che ogni volto, vitreo, gli si sbriciola tra le dita, tirannia del corrotto, stagione che sanguina. In una lontana eternità, erede di memorie presunte, inattaccabili, inattingibili, si staglia l’estate ucraina, a Irpin’, in cui “Volevo uscire dal bosco dei sogni, delle cose incompiute”. Naturalmente, il ricordo è trasfigurato dalla poesia (qui nella traduzione di Angelo Maria Ripellino):
“Irpin’: questo è il ricordo degli uomini e dell’estate,
della libertà, della fuga di sotto al giogo,
delle conifere nell’afa, delle grigie violeciocche
e della vicenda di bonaccia, beltempo e foschia..
Imbruniva e, mettendo in ginocchio le distese,
l’addiaccio dell’orizzonte chiudeva il suo semicerchio.
Come cervi i baleni rizzavano le corna,
levandosi dal fieno a mangiare dalle mani
delle amiche le quali, tuttavia, tornate a casa,
sprangavano la porta per paura dei ladri”.
Qualcosa di vivo, di atroce e di giusto – proprio per la sua ingiustizia agli occhi degli uomini – era accaduto in quella estate, “tutta la tua struttura, mia bella,/ mozza il fiato e sospinge al cammino/ e sospinge a cantare e diletta”. D’altronde, “Bisogna scriverne in modo che mozzi il fiato e i capelli si rizzino in testa”, scriverà Pasternak a proposito degli anni folli, eccitanti, rovinosi della Rivoluzione. Quello cerca, il poeta: ciò che toglie il fiato, che toglie il sonno, che leva la parola, che implica un nuovo ordine grammaticale, un nuovo organo al mondo.