07 Febbraio 2020

“Volevo essere Amleto o Raskol’nikov, e ora non più”. Borges e l’ossessione azzurra per il mese di febbraio

Questo articolo potrebbe intitolarsi: l’ossessione di Borges per febbraio. Uno dei racconti più belli di JL, quello che conduce al titolo del suo libro più bello, L’Aleph – era il 1949 e Borges ne faceva 50 – comincia così: “L’incandescente mattina di febbraio in cui Beatriz Viterbo morì, dopo un’imperiosa agonia che non abbassò un solo istante al sentimentalismo né al timore, notai che le armature di ferro di piazza della Costituzione avevano cambiato non so quale avviso di sigarette; il fatto mi dolse, perché compresi che l’incessante e vasto universo già si separava da lei e che quel mutamento era il primo d’una serie infinita”. Al crocicchio delle casualità – questo è il carisma di Borges – l’evidenza di una esistenza minima assurge a evento universale. La morte di una creatura effimera, Beatriz, in questo caso, è il passepartout per la scoperta dell’“infinito Aleph”. Si dirà: solo il mortale dà accesso all’immortale – ma non è questo il tema di questo articolo. Un altro racconto della stessa raccolta, Biografia di Tadeo Isidoro Cruz (1829-1874), principia sullo stesso progetto cronologico: “Il sei febbraio del 1829, gli armati che, inseguiti da Lavalle, marciavano, provenienti da sud, per unirsi alle divisioni di López, si fermarono in una fattoria il cui nome ignoravano, a tre o quattro leghe dal Pergamino; verso l’alba, uno degli uomini ebbe un incubo tenace: nella penombra della capanna, il confuso grido destò la donna che dormiva con lui”. Questo racconto è ambientato nel 1829, Beatriz Viterbo muore nel 1929, Borges nasce nel 1899, L’Aleph esce nel 1949. Lascio ai borgesiani giocare con la Cabbala. Io dico che se Borges mette febbraio nell’incipit di due racconti della stessa raccolta non sarà un caso – in Argentina, nel mondo rovesciato, per altro, febbraio coincide con il nostro agosto, è mese di calura e frutti marci, di luce che s’incunea legnosa sui palazzi, a sera. La mia avventura – del tutto ondivaga e vagabonda – nell’opera di Borges mi fa atterrare sul profilo di Macedonio Fernández, vergato in Prologhi, libro del 1975. Incipit: “Non è stata ancora scritta la biografia di Macedonio Fernández, uomo che rare volte accondiscese all’azione e che visse dedito ai puri piaceri del pensiero. Macedonio Fernández nacque a Buenos Aires il primo giugno del 1874 e nella stessa città morì il 10 febbraio del 1952”. Già. Ancora febbraio. Il profilo di Macedonio Fernández, intagliato con arguzia bizantina, è quello, in fondo, del giusto, dell’uomo assoluto: “Nel corso di una esistenza ormai lunga ho conversato con persone famose; nessuna mi impressionò come lui, neppure in modo analogo. Cercava di nascondere, non di sfoggiare, la sua straordinaria intelligenza; parlava come ai margini del dialogo, eppure ne era il centro. Preferiva il tono interrogativo, il tono di modesta consultazione, piuttosto che l’affermazione magistrale. Non pontificava mai: la sua eloquenza era di poche parole e perfino di frasi lasciate a mezzo. Il tono abituale era di cautelosa perplessità”. Che magnifico dettaglio: quello di un sapiente che avanza arretrando, lasciando agli altri gli avanzi della sua anima, sterminata. Macedonio – è il vero – muore il 10 febbraio, il giorno in cui nasce distrattamente mio padre e con ben altro futuro Boris Pasternak. Sono propenso a pensare che Borges abbia accettato di incontrare Liliana Heker, nel 1980, perché lei è nata il 9 febbraio e febbraio è un mese ricorrente, con azzurra dedizione, nella sua opera. A lei, straordinaria scrittrice – Theoria ha da poco tradotto La fine della storia – Borges rilascia l’intervista più alta, pubblicata da Castelvecchi come Diffido dell’immortalità. Con una certa spavalda serietà, la Heker domanda a Borges cose sui misteri della morte. Le risposte del maestro sono intrise di una ingenuità che non so se definire angelica – o disgraziata. Naturalmente, perché così vuole la legge del caos, l’intervista è stata pubblicata molti anni dopo la morte di Borges. In febbraio. (d.b.)

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Lei ha detto molte volte di desiderare l’oblio. Non crede che esista una contraddizione tra questo desiderio e l’esercizio della letteratura? La letteratura non implica la volontà di restare, e con l’immagine più fedele possibile?

Sì, ma io vorrei che venisse dimenticata la mia biografia, e il mio nome, e che venisse ricordato qualche mio racconto o qualche mio verso. Io vorrei sopravvivere nelle mie opere, ma non, diciamo, come soggetto di un lemma in un’enciclopedia. Per esempio, io ho scritto milongas e la mia ambizione era che quelle milongas fossero famose e non si scoprisse il nome dell’autore. Ma non ci sono riuscito. Sono convinto che uno, quando scrive, ha la speranza che l’opera sopravviva. Ma, se può sopravvivere nell’anonimato, meglio; se può far parte del linguaggio o della tradizione, meglio ancora.

Virgilio desiderò bruciare l’Eneide, ma non riuscì a farlo. Kafka affidò la sparizione delle sue opere niente meno che al suo amico Max Brod. Non crede che in fondo nessun artista, e nessun essere umano, voglia scomparire, non lasciare tracce?

Io credo, nel caso di Virgilio, che ciò che lui volesse mettere in chiaro era che non pensava che l’Eneide fosse perfetta; non l’aveva completata; il libro rimase incompiuto. Ciò che lui voleva dire era: io non mi assumo la responsabilità di quell’opera. E Kafka pure. Ma al tempo stesso sapevano che gli amici avrebbero disobbedito, perché, altrimenti, l’avrebbero bruciata loro, è ovvio. Beh, ci sono altri casi in cui tutto ciò, sì, può essere più serio. È quello della grande scrittrice statunitense Emily Dickinson. Emily Dickinson disse: «Non credo che la pubblicità faccia parte del destino di uno scrittore». E non volle pubblicare nulla. Quando morì, nei suoi cassetti trovarono centinaia o migliaia di versi, e li pubblicarono. Ma lei non aveva voluto pubblicarli. Al tempo stesso non li distrusse neppure. Ma non disse nulla. Lei morì, la gente trovò le sue opere; la gente sapeva che lei scriveva versi – credo che durante la sua vita siano state pubblicate due delle sue poesie e nient’altro, e ora non so se li abbiano pubblicati tutti, molti non hanno valore, ma quelli che mi ricordo, di lei, sono versi bellissimi. Parting is all we know of Heaven, all we need of Hell: ‘L’addio è tutto ciò che sappiamo del Cielo, e tutto ciò che ci occorre dell’Inferno’. Bellissimo. Inoltre, un addio è entrambe le cose. Forse, il momento dell’addio è il momento più intenso nella relazione tra due persone. Quando ci si congeda da qualcuno, si sta più con quella persona che se la si vede abitualmente. Al tempo stesso uno sa che quella è l’ultima volta. Voglio dire che nell’addio coesistono (suppongo che sia questo ciò che lei voleva dire), coesistono la massima presenza e la massima assenza, no? Parting is all… lei conosce l’inglese, no? Beh, Parting is all we know of Heaven, and all we need of Hell. Che bello pensare che uno abbia bisogno dell’inferno, che idea insolita, no? Era amica di Emerson, con cui teneva un carteggio. Ho visitato la sua casa, nel New England, un paese come altri paesi, un po’ sperduti. Lei vi trascorse tutta la vita. Credo che stesse per sposarsi e non lo fece. E anche le sue lettere sono molto belle. Le poesie non so se possano sopravvivere nella traduzione, perché lei curava molto la forma.

Quale, tra le morti che conosce, considera la più ingloriosa? E quale la più nobile?

La più ingloriosa è una lunga agonia. E la più nobile è una morte improvvisa, non crede anche lei?

Nella sua letteratura, i personaggi spesso reclamano una morte violenta.

Sì, mi sono occupato molto della morte. E sto pensando di scrivere un libro che racconti di morti e agonie differenti. Anche differenti ultime parole. Mi hanno raccontato della morte di un grammatico francese. Chi era? Beh, non ricordo il nome in questo momento. Morì secondo la sua legge; era grammatico e disse qualcosa come: Je meurs, on peut dire aussi: je me meurs. È morto secondo la sua legge. È morto continuando a essere un grammatico. Anche questo è una morte propria. ‘Io muoio si può dire anche: io sto morendo’. Dicono che Rabelais abbia detto: «Vado verso il grande forse». Le grand peut-être.

Come è andata modificandosi la sua concezione della vita e della morte attraverso le diverse fasi della sua vita?

Quando ero giovane ero incline alla tristezza, a teatralizzare me stesso; volevo essere Amleto o Raskol’nikov, e ora non più.

*Il testo è tratto da: Jorge Luis Borges, “Diffido dell’immortalità. Conversazione con Liliana Heker”, Castelvecchi, 2019; traduzione di Mercedes Ariza

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