Hilario Ascasubi è stato un eroe. Sfolgorava negli anni delle furibonde guerre civili seguite all’indipendenza dell’Argentina. Mulatto, nato nei primi giorni del 1807 in una famiglia di schiavi liberati, Hilario Ascasubi cresce con la fame di diventare qualcuno. Per un po’, prese la via dell’oceano, la più facile – e la più rischiosa – per farsi grande: quindicenne, è in California. Gli studi, disordinati ma avidi, denotano un’indole duplice: il mestiere delle armi e l’armeria del verbo. Rientrato in patria, nel 1824, a Salta, gestisce una tipografia e fonda una rivista. Ha un impulso – per destino – popolano e inquieto: vaga per il suo paese, attraversa la Bolivia, si arruola nell’esercito. Propende per gli “unitari”, che volevano un governo centrale, sottratto ai grandi proprietari terrieri, ai signorotti locali: il generale Juan Lavalle si fida di quel giovane colto e coraggioso, assegnandogli i gradi di capitano. Ascasubi si dimostra temerario fino all’audacia: arrestato nel 1832 dalle forze del suo feroce antagonista, Juan Manuel de Rosas, riesce a evadere, rocambolescamente, dalla prigione in cui è recluso.
Di fatto, Ascasubi partecipa a tutte le grandi battaglie che hanno forgiato l’Argentina come la conosciamo, compresa la decisiva battaglia di Caseros, preludio all’elaborazione di una nuova costituzione. Nel frattempo, scrive. Di solito, poemi popolari, che alternano il tambur battente allo sfregio del nemico; Ascasubi eccelle nei toni sarcastici e in quelli romantici, varia la canzone con lo sfottò – le sue poesie diventano celeberrime tra i ranghi dell’esercito. Fu inviato a Parigi dal Presidente Bartolomé Mitre – per altro, traduttore della Divina commedia e dell’Eneide in spagnolo – con lo scopo di reclutare soldati e pionieri; in Francia, Ascasubi terminò la raccolta delle sue opere, compresa quella per cui è noto, il Santos Vega, pietra miliare dell’epica gauchesca. Morì, con aura di leggenda, nel 1875 – era rientrato da poco a Buenos Aires, a tutti gli effetti una Parigi sudamericana, sul dorso di un caimano.
La personalità di Hilario Ascasubi, altrimenti relegata nei manuali scolastici, del tutto ‘locale’ – in Italia è pressoché intradotto – ha ossessionato Jorge Luis Borges per tutta la vita. Il primo accenno che Borges fa ad Ascasubi è in Inquisiciones (1925), coagulo di saggi tirato in poche copie, per amici; il primo saggio autorevolmente pubblico che gli dedica è sul primo numero della rivista “Sur”, fondata dall’amica e mecenate Victoria Ocampo, nel 1931. Il saggio s’intitola El coronel Ascasubi, Borges deve compiere 32 anni, vive in un’assolata incertezza di sé: Finzioni, per intenderci, viene pubblicato dalle edizioni Sur nel 1944. Nel suo saggio, tra l’altro, così scrive Borges:
“In vita, Ascasubi fu il Bérenger del Rio de la Plata; da morto, un fumoso precursore di Hernández. Entrambe le definizioni, come si può capire, lo traducono nel mero abbozzo – errato nel tempo e nello spazio – di un autentico destino umano. La prima, quella a lui contemporanea, non gli fece alcun male: chi la divulgò sapeva chi era Ascasubi, e possedeva una conoscenza sufficiente del francese; oggi queste due sapienze sono assai meno diffuse. L’onesta gloria del Bérenger declina, benché possa vantare ancora tre colonne dell’Enciclopedia britannica, firmate niente meno che da Stevenson… La seconda, che lo intende come il precursore del Martín Fierro, è una sciocchezza: la somiglianza tra le opere è casuale, nulla se guardiamo alle intenzioni che le governano… Ascasubi ha combattuto a Ituzaingó, ha difeso Montevideo, ha lottato a Cepeda, ha narrato i suoi giorni in versi splendenti. Nelle sue poesie è assente la forza del destino che ammiriamo nel Martín Fierro; c’è la spensierata, cruda innocenza degli uomini d’azione, degli avventurieri. C’è gioia e derisione, mai nostalgia. C’è anche – virtù correlata al vizio popolare – la facilità prosodica, il verso banale ma buono perché basta intonarlo nel modo giusto.
Come giovane mozzo, Hilario Ascasubi trascorse mille giorni navigando in mare, su un veliero dal nome colorato, La Rosa Argentina; fu messo in carcere e si lasciò cadere da quindici metri di altezza, tanto era alto il muro della caserma del Retiro, per fuggire: gli anni nelle acque e quelli in battaglia lo rendevano fermo e come trafitto da una luce particolare. Basta nominare Ascasubi per entrare nella mitologia di questo angolo d’America”.
Il cammeo è degno di Borges e rivela – nota pratica borgesiana – il gioco degli specchi contrapposti e convessi: in Ascasubi, Borges vede l’altro se stesso, quello che avrebbe potuto essere, l’assoluto contrario, l’io ustorio. Dunque: la poesia sorgiva, nata nei dettami dell’avventura; il sangue al posto dell’inchiostro; l’amore per le idee e per la patria; la scrittura come incrocio di lame, un enciclopedismo che non proviene dai libri ma dai corpi, dalle entità topografiche, dalle bestie e dai fiumi.
Per tutta la vita, con formule pari alla mania – non possiamo dire che Ascasubi sia una ‘fonte’ letteraria per Borges, il quale si nutriva di Dante, di Stevenson, di Wells e di Thomas Browne, semmai di articolati trattati arabi – Borges ritorna nell’opera e nella vita del grande militare – quasi volesse conviverla. Uno dei suoi Prologhi (1975) è dedicato proprio a “Hilario Ascasubi”: Borges ne trae una nota critica – “è evidente che il suo genio aveva bisogno di stimoli immediati; i suoi testi migliori furono circostanziali e molto poco o nulla gli diedero il tempo e la nostalgia: una antologia può meglio restituire la sua misura che i tre stancanti volumi che accumulò a Parigi con meno rigore che compiacimento” – e un affascinante dettaglio biografico: “Spese tutti i suoi soldi per la costruzione del primitivo Teatro Colón, il cui incendio causò la sua rovina”. Con questa frase, Ascasubi, da aitante predatore, si erge a specie di clamoroso Fitzcarraldo, memorabile eroe delle cause perse, della dissipazione di sé. Nelle rade fotografie, il militare ha il doppiopetto e il collo della camicia alzato, ad eleganza marziale; la fronte è vasta, biada per un cranio instancabile; gli occhi ti sfidano, senza sfoggio di malizia. Il rispetto si gemella al timore. Piaceva a Borges quella lirica ferma, che non dà ospitalità alla parola nostalgia.
Nel 1976, nella raccolta di versi La moneda de hierro, Borges dedica una poesia a Hilario Ascasubi, non per forza bella:
Ci fu un tempo felice. L’uomo
Accettava l’amore e la battaglia
Con la stessa letizia. La canaglia
Sentimentale non s’era arrogata il nome
Del popolo. In quell’aurora, vilipesa oggi,
Visse Ascasubi e si batté, cantando
Coi gauchos della patria quando
Li chiamò un’insegna alla guerra nazionale.
Fu molti uomini. Fu il cantore e il coro;
Lungo il fiume del tempo fu Proteo,
Fu soldato nell’azzurra Montevideo
E in California cercatore d’oro.
Fu sua l’esultanza d’una spada
Nel mattino. Oggi siamo notte e nulla.
Anche Ascasubi diventa, per rifrazione, un idolo di Borges: l’uomo luminoso, senza ombre, che va alla guerra come si fa l’amore – uccidere e amare è lo stesso, direbbe un antico saggio indiano –, è molteplice, “fu molti uomini”. Uno di questi, forse, è proprio Borges, che ama l’arte della spada e la morte simulata più volte. Se, in effetti, è noto l’affetto di Borges verso i gauchos, il Martín Fierro, il tango, la milonga (nel 1965 il poeta scrive milonghe Para las seis cuerdas, spiegando che “il lettore deve supplire la musica assente con l’immagine di un uomo che canticchia, sulla soglia del suo androne o in un emporio, accompagnandosi con la chitarra”) e i duelli al coltello (“Dove saranno… i teppisti/ Che fondarono in polverose strade/ Di terra o in dimenticati villaggi/ La setta del coltello e del coraggio?”, canta in El Tango), l’epica del Fervor de Buenos Aires, il suo primo libro, meno nota è la mitologia ‘militare’ di JLB.
Borges non è soltanto artifici, arcane miserie, zoroastrismo libresco ed eccelso talento nel catalogare le ombre, con l’ansia onnivora di vagabondare tra i codici islandesi medioevali e i monaci del Giappone antico, sostando tra i paragrafi di Scoto Eriugena, libri di sabbia, Minotauri rosi dal male della melancolia, la cabbala e il bestiario. Borges, soprattutto, è affascinato dai militari in disastro, i generali genuflessi, anzi tutto, all’Oriente del proprio coriaceo carisma, i destini acquartierati tra la gloria di un momento e la disfatta: in una pallottola ravvisa lo specchio, in un bivio sulla via per Montevideo il diktat del labirinto, in una battaglia all’arma bianca l’aura di un foglio, l’albume di una storia mutilata.
Il fervore per la lotta è incardinata nell’album di famiglia: gli avi di Borges erano militari d’alto rango. Il nonno paterno, Francisco Borges Lafinur, colonnello di vasta esperienza, nato a Montevideo, morì, neanche quarantenne, a La Verde, nel 1874, nel caos della guerra civile argentina: parteggiava per Mitre, presidente uscente, sconfitto. Il bisnonno materno, Manuel Isidoro Suárez (1799-1846), capitanò la cavalleria peruviana e colombiana sul campo di Junín, in ostilità ai reali di Spagna; il nonno, Isidoro de Acevedo Laprida, combatté contro de Rosas, nello stesso campo di Ascasubi. Quando Borges scrive che “Ascasubi e la patria crebbero insieme”, pensa anche alla sua famiglia, a se stesso. Più volte, ricamando la propria opera, Borges si riferisce agli avi: in Pagina per ricordare il Colonnello Suárez, vincitore a Junin, ad esempio – raccolto in L’altro, lo stesso –, fa parlare il bisnonno, “l’antichità del sangue”, che gli insegna che “è eterna la battaglia”. Borges l’ha combattuta, la battaglia, con estro non inferiore a quello dei suoi avi – la cecità gli ha concesso il dono ubiquo, non la capacità di redimere, è chiaro, ma di esserci, semmai.
***
Minaccia di un coltivatore di pannocchie e tagliagole degli assedianti di Montevideo diretta al gaucho Jacinto Cielo, milite presso la Legione argentina, che difende quella piazza
Ascolta, selvaggio gaucho;
non perdo la speranza
e non desisto
dal farti provare chi sono
Tin Tin e Refalosa.
Ora ti dico cosa ti accadrà:
ascolta senza timore;
per te questo canto
sarà triste quanto il venerdì santo.
Insieme ti acciufferemo
per tirarti qua e là:
ci accontentiamo anche
se stai fermo: da dietro
i nostri compagni,
contadini, è ovvio,
ti legheranno e ti
spoglieranno, nudo
davanti a tutti,
selvaggio! Da qui
comincia la tua
afflizione.
Attraccano i piedi
poi ti assicuriamo
a un palo, fermo,
clamorosamente nostro;
ti sfottiamo mentre
urli, e noi cantiamo
senza violini i nostri
grufolosi inni.
Fischiettando, intendo,
aggiustiamo il coltello
e ti stimoliamo la guancia
con una lama.
Salta, ora, vile selvaggio:
ridici in faccia!
Quando i prigionieri
ancora in camicia
cominciano a lagnarsi
ci divertiamo da matti:
lo scherzo che tiriamo
al gaucho è pari alla felicità
del Presidente quando
ascolta la musica.
E finalmente:
quando lo riteniamo conveniente,
dopo che ci siamo divertiti
grandemente, decidiamo
in quale modo mozzarti
il fiato; a destra
uno dei miei ti afferrerà
mentre l’altro ti tiene
le gambe aperte, come
se fossi un puledro.
Griderai che il cielo
ti è padre e giudice,
ma non ascolteremo
il tuo pio bisogno
di consolazione:
sotto l’orecchio
il pugnale ben temprato
e affilato – ti conviene
chiamarlo: Colui che
rimuove i dolori.
Snoderemo le vene
del collo.
E cosa farai, allora?
Cola laido sangue
per il nostro gusto
mentre il terrore
ti dilaterà gli occhi
obbligandoli alle
vaste altezze.
Flaccidi uomini!
In verità, ne abbiamo
visti alcuni che si dimenano
e danno di morso
selvaggi che combattono
con la lingua: detto
tra noi, ci garba
come una donna
in preda ai baci.
Che bellezza!
Ridiamo di cuore
e molto, vedendo
che sono così
rabbiosi: allora
li sleghiamo e li lasciamo
andare – ogni tanto
li blocchiamo, mentre
scivolano sulle pozze
del loro sangue.
Infine, afflitti
dai crampi, cadono
scalciando, tremando
con la stessa ferocia,
respirano a fatica
sappiamo a cosa
aspira, ma non gli
verrà concesso.
Dunque, gli tagliamo
le orecchie, la barba,
le sopracciglia, gli
peliamo il mento
per poi abbandonarlo
così: qualche
maiale lo gradirà,
i corvi torneranno
grassi.
Hilario Ascasubi